di Rosario Coluccia
Su «Nuovo Quotidiano» del 1 febbraio è apparso un intervento di Ferdinando Boero intitolato «Utilizzare l’inglese nelle università ci fa stare in Europa» che polemizza con due precedenti articoli apparsi sul nostro stesso giornale (uno mio e uno di Guglielmo Forges Davanzati), entrambi rivolti a contestare fermamente una recente decisione del MIUR, il Ministero dell’Università e della Ricerca. Il Ministero ha imposto che la domanda per partecipare al bando che finanzia la ricerca di base svolta nelle università italiane deve essere redatta obbligatoriamente in lingua inglese; pur se (si aggiunge nel bando) a scelta del proponente può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana. La lingua obbligatoria è l’inglese, quella italiana è facoltativa e, di fatto, pleonastica e inutile. La questione, apparentemente solo formale, è invece importantissima. E quindi preferisco tornarci su immediatamente (se vorrà, Forges Davanzati farà altrettanto).
Boero scrive in modo garbato ma fin dai passaggi iniziali si muove su piani diversi rispetto a quello da me toccato, presentando in maniera distorta le tesi da me sostenute. E quindi ribadisco alcuni punti del mio pensiero, toccando poi l’argomento fondamentale sviluppato dal mio interlocutore. Non ho mai sostenuto che è «anacronistico e provinciale pensare di scrivere in inglese un progetto in alcune materie, soprattutto in campo umanistico»; né ho mai cercato di «instillare» nei miei studenti l’idea che «sia male adoperare l’inglese se si dialoga col mondo», né (più in generale) ho mai negato la attuale predominanza mondiale dell’inglese e il valore di questa lingua per la comunicazione scientifica.
La questione da me trattata, su cui Boero non spende una sola parola, è diversissima. Non è accettabile che la domanda per partecipare a un bando che finanzia la ricerca delle università italiane sia redatta ESCLUSIVAMENTE in inglese. La questione è tutta nell’avverbio: se l’inglese è la lingua obbligatoria e l’italiano può esserci o non esserci, si fa una precisa scelta di campo. Un Ministero della Repubblica italiana tratta la nostra lingua alla stregua di una lingua minore, rendendone facoltativo l’uso nella stesura di progetti che riguardano la ricerca scientifica che si svolge nelle nostre università. La scelta di rinunciare alla lingua nazionale, nella sua insensatezza, ha conseguenze negative sul piano culturale ed economico, poiché rischia di rendere vani gli sforzi in vario modo promossi per il rilancio complessivo del nostro Paese. Con la lingua viaggiano la creatività e la produzione italiana. La promozione e la ripresa del Paese passano anche da questo: dal rispetto che si ha della propria lingua.
Affiancare all’italiano l’inglese, non cancellare la lingua nazionale, è questa la strada che indico. Purtroppo l’abitudine di considerare marginale la propria lingua non nasce con il bando di cui parliamo. Da anni in alcune università italiane si sono istituiti corsi di laurea magistrale e di dottorato svolti ESCLUSIVAMENTE in inglese. Anche in questo caso, badate all’avverbio. La cosa comincia anni fa. Nel 2012 il Senato accademico del Politecnico di Milano delibera che l’inglese diventi la lingua di insegnamento esclusiva in lauree specialistiche e in corsi di dottorato. Questa scelta è stata oggetto di contenzioso davanti al TAR e successivamente al Consiglio di Stato che ha a sua volta sollevato un dubbio di costituzionalità davanti alla Corte Costituzionale, che ha deliberato lo scorso 24 febbraio, stabilendo chiaramente che non è ammissibile che una università pubblica italiana eroghi corsi ESCLUSIVAMENTE in lingua straniera.
La sentenza della Corte non è un atto di protezionismo linguistico, una prova di nazionalismo e di mancanza di apertura al mondo. È vero invece il contrario. La Corte ammette la legittimità di offrire corsi e insegnamenti in più lingue, oltre all’italiano. Ma la scelta non può essere esclusiva, la nostra lingua non può sparire dalle nostre università. Ecco le parole della Corte: «L’obiettivo dell’internazionalizzazione – che la disposizione de qua legittimamente intende perseguire, consentendo agli atenei di incrementare la propria vocazione internazionale, tanto proponendo agli studenti una offerta formativa alternativa, quanto attirando discenti dall’estero – deve essere soddisfatto, tuttavia, senza pregiudicare i principî costituzionali del primato della lingua italiana, della parità nell’accesso all’istruzione universitaria e della libertà d’insegnamento. L’autonomia universitaria riconosciuta dall’art. 33 Cost., infatti, deve pur sempre svilupparsi “nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato” e, prima ancora, dai diversi principî costituzionali che nell’ambito dell’istruzione vengono in rilievo». Al di là di qualche modesto tecnicismo, il significato è inequivocabile. Chi vuole intendere, intenda.
Il «Messaggero» del 31 gennaio reca a pagina 3 il seguente titolo: «No ai corsi di laurea solo in lingua inglese», spiegando che «Il Consiglio di Stato ieri ha messo fine alla diatriba che contrappone i vertici del Politecnico di Milano ad un gruppo di più di cento docenti a proposito dei corsi di laurea e degli insegnamenti in lingua inglese. O meglio, “solo” in lingua inglese, perché era proprio questa la regola che l’istituto accademico all’avanguardia in Europa aveva fissato per gli insegnamenti di laurea specialistica e corsi di dottorato da tenersi dal 2014 in avanti e che, ora, il Consiglio di stato ha deciso di smentire almeno in parte imponendo che ogni corso debba prevedere un corrispettivo in italiano, salvo singoli e specifici insegnamenti».
Di fronte a sentenze e argomenti chiarissimi di questo genere, promananti dalla Corte Costituzionale e dal Consiglio di Stato, possiamo contentarci di obiettare che «i giuristi (che pubblicano quasi sempre in italiano) danno ragione» a coloro che sostengono che nelle università italiane bisogna insegnare anche in italiano e non solo in inglese (così scrive Boero)?
Non voglio farmi scudo di queste autorevolissime sentenze, alle quali i cittadini italiani debbono conformarsi. Affronto il punto centrale della faccenda, entro nella sostanza. Fermo restando che negli ambiti umanistico e giuridico dei diversi paesi europei si scrive e si comunica anche in francese, in tedesco, in spagnolo (oltre che in italiano), non è vero che «nelle materie scientifiche la lingua è una sola: l’inglese» (Boero). Lo mostra Michele Gazzola, ricercatore nel gruppo “Economia e Lingua” presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione della Humboldt-Universität di Berlino. Una ricerca condotta nel 2014 in Gran Bretagna su 75.513 documenti scientifici apparsi nell’area della conservazione della biodiversità e pubblicata nel dicembre 2016 da Amano, González-Varo e Sutherland, rivela che quasi il 36% della letteratura di riferimento non era pubblicata in inglese. Stiamo parlando di biodiversità, un campo non precisamente umanistico o giuridico, nel quale non si usa ESCLUSIVAMENTE l’inglese.
Ma soprattutto e infine. Contrariamente a quanto si dice, dobbiamo continuare ad usare l’italiano non solo per scrivere testardamente di Dante o di Manzoni, ma per mantenere aggiornata e viva la nostra lingua proprio in quei settori dove più frequenti sono i contatti internazionali e dove la lingua predominante è oggi senza dubbio l’inglese (domani chissà, le cose potrebbero cambiare e la lingua internazionale potrebbe diventare il cinese mandarino o l’hindu). In tutti i paesi non anglofoni i ricercatori debbono allenarsi a trovare le giuste parole e le frasi per trasferire con chiarezza concetti e contenuti da una lingua all’altra, dall’inglese alla propria lingua e viceversa, nel nostro caso dall’inglese all’italiano e viceversa. Ed essere capaci di esprimersi, variabilmente, nella propria lingua e in quella internazionale (lo ha spiegato più volte Maria Luisa Villa, immunologa dell’università di Milano). Plurilinguismo, insomma, non monolinguismo.
Non possiamo permettere che l’italiano, incapace di esprimere il pensiero raffinato del linguaggio scientifico, si riduca a dialetto, bello per comunicare gli affetti quotidiani e poco altro. La biodiversità va mantenuta anche nelle lingue.
[”Nuovo Quotidiano di Puglia”,domenica 4 febbraio 2018]