In un interessante articolo ospitato su questo giornale, Rosario Coluccia ha efficacemente espresso le non poche e non irrilevanti perplessità relative all’obbligo di presentare progetti per il finanziamento della ricerca universitaria in lingua inglese. Si tratta dei c.d. progetti di ricerca di interesse nazionale (PRIN), il principale canale di finanziamento ministeriale delle Università pubbliche italiane, i cui importi, peraltro, sono stati in continua e significativa riduzione nel corso dell’ultimo decennio.
La questione sollevata da Coluccia non è affatto marginale e, al di là del segnale di profondo provincialismo già rilevato dall’autore, è una spia di come il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) intende provare a potenziare la ricerca in Italia.
Il Ministro Fedeli ha così motivato questa scelta: “l’inglese è, semplicemente, la lingua veicolare della comunicazione internazionale fra ricercatrici e ricercatori”. Motivazione che non è pertinente con le modalità e gli obiettivi del PRIN, che è almeno parzialmente falsa e che, in ultima analisi, è riconducibile a una visione estremamente restrittiva e miope del ruolo e delle funzioni della ricerca scientifica.
1) E’ innanzitutto una motivazione fuorviante, per due ragioni. In primo luogo, i progetti di ricerca che verranno presentati al Ministero non saranno valutati da madrelingua inglesi, con la grottesca conseguenza di comunicare fra italiani in altra lingua. Nel bando, si fa riferimento a “valutatori esterni”, ovvero a ricercatori che non fanno parte delle unità di ricerca proponenti. In secondo luogo, i progetti sono appunto tali, non sono pubblicazioni accademiche e dunque non soggiacciono alla presunta funzione veicolare della lingua inglese.
2) E’ poi una motivazione almeno parzialmente falsa. In non tutti i settori disciplinari (si pensi soprattutto alle discipline umanistiche) l’inglese è la lingua utilizzata nella comunicazione fra ricercatori. Non solo. In questi settori disciplinari, la traduzione dall’italiano all’inglese spesso può stravolgere del tutto il significato di ciò che si intende dire.
3) L’obbligo di presentare il progetto in lingua inglese appare pienamente coerente con la distribuzione dei finanziamenti – contenuta nel bando – fra le tre macro-aree scienze ingegneristiche, fisiche e chimiche, scienze della vita, scienze umane, con importi più esigui per quest’ultima. Le prime due macro-aree ricevono importi maggiori in virtù del protocollo d’intesa fra MIUR, Ministero dell’Economia e Istituto Italiano di Tecnologia, del 27 dicembre 2017. L’Istituto Italiano di Tecnologia, certificato come centro di eccellenza, si occupa esclusivamente di ricerche in ambito tecnologico. In questi settori, è vero quanto dichiara il Ministro Fedeli, ovvero che l’inglese è la lingua della ricerca.
Combinando questa disposizione (l’obbligo di redigere i progetti in lingua inglese) con i maggiori stanziamenti per le aree propriamente scientifiche – le c.d. scienze dure – appare chiaro che, anche attraverso il PRIN, si confina il sapere umanistico in una dimensione ancillare, in uno spazio sempre più angusto. Si potrebbe obiettare che la ricerca nelle ‘scienze dure’ costa più di quelle nelle scienze umane (p.e. per la necessità di disporre di laboratori): ma si può argomentare che le scienze dure possono più facilmente ricevere finanziamenti da privati rispetto alle discipline umanistiche.
Con questa scelta, il MIUR ripropone una linea di politica per la ricerca di corto respiro e di dubbia efficacia. Ciò per la segue ragione.
Le politiche per l’Università in Italia nel corso dell’ultimo decennio sono state declinate esclusivamente per la possibile soluzione di problemi economici: dai tagli del ministro Tremonti, finalizzati alla riduzione della spesa pubblica e all’obiettivo di generare avanzi primari, alle proposte (tutte da verificare) per una ripresa della spesa per il settore della formazione questa volta finalizzati all’aumento delle esportazioni. Il primo tentativo è almeno parzialmente fallito. Le misure di austerità adottate a partire soprattutto dallo scoppio della prima crisi greca del 2010 hanno sì generato risparmi del settore pubblico ma anche crescita del debito pubblico in rapporto al Pil, per effetto della contrazione di quest’ultimo.
Il richiamo alla competitività è poi del tutto fuorviante. Innanzitutto la ricerca scientifica produce risultati di lungo periodo e, come è ben noto, assolutamente non certi. Non a caso, le principali innovazioni nella storia del capitalismo del ‘900 sono state rese possibili attraverso un preventivo investimento pubblico in ricerca e sviluppo, a ragione del fatto che le invenzioni possono solo in alcune condizioni (dunque, non sempre) tradursi in innovazioni utilizzabili da imprese private (il c.d. capitale paziente). Cosa che spiega perché le imprese private trovano al più conveniente utilizzare invenzioni già realizzate tramite finanziamenti pubblici, laddove sussistano le condizioni per renderle innovazioni tali da generare profitti. Ciò vale a maggior ragione per la ricerca c.d. di base (p.e. la ricerca in ambito matematico o in area umanistica) dove, ancor più della ricerca applicata (tipicamente quella ingegneristica) i risultati sono incerti e di lungo periodo.
Vi è di più. L’economia italiana è popolata in larghissima misura da imprese che non fanno innovazione e che non domandano ricerca di base e applicata. In assenza di misure che agiscano sulla struttura produttiva della nostra economia, potenziare la ricerca tecnologica rischia di non produrre alcun esito e, al tempo stesso, depotenziare la ricerca in ambito umanistico rischia di depauperare un patrimonio di conoscenze che costituisce una specificità italiana e che attiene alla nostra Storia. Peraltro, come gli stessi ingegneri ben sanno, è soltanto con la contaminazione fra i due saperi, e dunque soltanto attraverso la multidisciplinarietà, che si può generare avanzamento della conoscenze.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 30 gennaio 2018]