di Gigi Montonato
In un convegno promosso nel 2015 dalla Società delle Storiche Italiane, in ricorrenza del centenario della Grande Guerra, si fece il punto sul ruolo che ebbero le donne italiane durante i tre anni e mezzo del conflitto e ci si accorse che rispetto ad altri paesi, come Stati Uniti, Germania, Francia e Inghilterra, la storiografia italiana era un po’ indietro. Si fece, allora, un appello a ricercatori e storici locali perché provvedessero a fare le opportune ricerche d’archivio per procedere ad una narrazione il più possibile completa di questo particolare segmento della nostra storia in relazione al modo di vivere la guerra da parte delle “donne comuni”. Tali da intendersi quelle donne “ancora troppo poco nazionalizzate”, come dice la storica Simonetta Soldani nel suo studio Donne italiane e Grande Guerra al vaglio della storia e appartenenti alle classi escluse dalla partecipazione politica. Lavoro, questo, che potevano svolgere meglio di altri gli storici locali.
Il libro di Salvatore Coppola, Pane! …Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della Grande Guerra (Castiglione, Giorgiani, 2017, pp. 294), un po’ risponde a quell’appello. Ma, a dire il vero e senza per questo rivendicare autonome scelte, da qualche anno la Società di Storia Patria per la Puglia sta cercando di colmare i vuoti che perfino la storiografia accademica ha lasciato. Nello specifico, Salvatore Coppola da sempre si occupa di movimenti politici, sociali e sindacali relativi alle fasce più trascurate e deboli della società salentina. Sicché l’invito o appello che dir si voglia delle Storiche Italiane non è caduto qui nel Salento sulla nuda roccia ma su un terreno dissodato e preparato a dare risposte adeguate. La sezione leccese della Società di Storia Patria ha promosso, come di consueto fa con le grandi ricorrenze storiche, un seminario di studio sulla Donna salentina nella Grande Guerra.
L’esito della ricerca di Coppola è davvero sorprendente. Negli anni 1916-1918 nel Salento ci fu una vera e propria “guerra alla guerra” delle donne nei confronti delle pubbliche autorità, partita dalla lamentazione per la scarsità del pane e di altri generi di prima necessità e spesso finita alla richiesta della pace, ovvero dell’uscita dell’Italia dalla guerra. Non solo pane, dunque, ma pace; non i sussidi di guerra per i soldati al fronte ma i mariti, i figli, i fratelli a casa. Era diffusa anche la percezione che i figli dei signuri o dei benestanti erano imboscati negli uffici dei paesi o nelle retrovie mentre i figli della gente comune erano al fronte e addirittura in prima linea. Percezione che in parte rispondeva a verità, come documentano molti studi sulla guerra e sulla vita in trincea dei soldati. Questo creava uno stato d’animo fra la “gente comune” di grave ingiustizia patita, che induceva a facili generalizzazioni e a rivoltarsi contro le autorità.
Furono circa un centinaio le sommosse, quasi sempre spontanee, o in prevalenza – come lo stesso Coppola riconosce – spontanee, che si verificarono con la partecipazione in massima parte di donne, centinaia e centinaia, e di ragazzi, i quali prendevano di mira i palazzi delle istituzioni con lanci di pietre. Più defilati gli uomini, gli anziani che erano rimasti in paese, anche perché c’erano leggi severissime, come il decreto Sacchi, che colpivano i sobillatori ove mai fossero stati scoperti; ma non del tutto estranei, come risulta dagli atti giudiziari.
Sulla spontaneità delle manifestazioni “anti guerra” occorre fare una lettura critica delle carte, non fosse altro che per capire perché in alcuni comuni ebbero più carattere spontaneo rispetto ad altri in cui si verificarono atti o di vera e propria contestazione della guerra o di protesta per il disagio associata a frasi di patriottismo. Occorre anche capire perché tanti arresti e tante assoluzioni o così lievi condanne. E’ vero che spesso furono i giudici ad escludere sobillazioni da parte di agitatori, ma è anche vero che gli stessi, dovendo comminare pene a volte simboliche, comunque lievi, dovevano per forza di cose adeguare le sentenze ai capi d’imputazione. I giudici, infatti, tenendo conto delle condizioni ambientali o della giustezza delle sommosse, avevano tutto l’interesse a non esasperare ulteriormente una situazione già di per sé esplosiva.
Emerge dalla ricerca di Coppola una rivendicazione di genere, che, all’epoca, non era avvertita come tale, per lo meno non dalle dirette interessate. Anche per questo il libro di Coppola va letto oggi, tempo di femminismo anche eccessivo e smodato, in questa chiave.
Furono le donne nel corso della lunga guerra a svolgere molti lavori che in tempi normali svolgevano gli uomini, anche lavori pesanti come nei campi, dove già esse avevano i loro lavori. Ma furono anche le donne a caricarsi il ruolo di capofamiglia in tutto e per tutto, fra cui il rapporto col mondo esterno, spesso conflittuale e odiosamente disturbato da prepotenze di classe e di sesso, con i rappresentanti delle pubbliche amministrazioni. In molti paesi gli amministratori, sindaci ed assessori, si comportarono male, nella distribuzione dei generi alimentari, tenendo i prodotti buoni per le proprie famiglie e per quelle dei parenti e amici e riservando il peggio di quello che c’era agli altri.
Anche sul non riconoscimento dell’importantissimo ruolo avuto dalle donne negli anni di guerra occorrerebbe una lettura critica, che esula in verità dall’argomento ma che non bisogna trascurare in una visione complessiva del periodo. Nei programmi del primo fascismo (Carta di S. Sepolcro del 21 marzo 1919) e perfino nella d’annunziana Carta del Carnaro era previsto il voto alle donne. Ma già quando ancora era in corso la guerra non sfuggiva l’importanza delle donne in quella terribile fase della storia d’Italia.
Su La Provincia di Lecce del 24 febbraio 1918, che Coppola regolarmente cita, a proposito dei comportamenti delle donne nel corso della guerra, si legge: “Le nostre donne hanno, in gran parte, compiuto il proprio dovere, sostituendo gli uomini negli uffici, nei campi, nelle officine, portando la carezza della loro anima gentile negli ospedali e nei comitati di assistenza civile, dando vita a tante belle iniziative patriottiche, facendo giungere nell’animo degli scettici o dei timidi il soffio vivificatore della loro fede. Qui da noi specialmente, dove, fino a pochi anni fa, non si sapeva concepire la donna al di fuori di pochissime occupazioni di carattere domestico, si è compiuto un miracolo che va rilevato e seriamente discusso e considerato, per le complesse ascensioni dell’avvenire”.
A guerra finita, con la vittoria, certo poteva sembrare inopportuno tirar fuori tutte quelle manifestazioni contro la guerra. Conveniva a tutti ritrovarsi nell’unità e nella concordia del Paese, che fu raggiunta tuttavia solo qualche anno dopo con la presa del potere da parte del fascismo e con la dittatura. Sorprende semmai perché è stato fatto passare tanto tempo, un secolo, prima che questa autentica “epopea femminile” fosse portata all’attenzione della storiografia e fatta conoscere al più vasto pubblico.
[“Presenza taurisanese” a. XXXVI n. 1 – gennaio 2018, p. 9]