di Mario Signore
Mettendosi dal punto di vista dell’esperienza vivente del “pensare di più”, ci avviciniamo alla parola “città”, che già insiste nel linguaggio con la sua valenza di significato consolidato, nel tentativo di coglierlo nella sua valenza semantica, attraverso un approccio che definiamo subito metaforico, come intenzione, appunto, di “pensare di più”. D’altra parte, pensare “oltre” la città, non significa oscurarne l’origine. Così il nome “città” deve aprirsi al nuovo, ai sensi nuovi, riconnettendosi ai significati storicamente consolidati, facendo sempre uno sforzo di risemantizzazione, che parta dal fondo secondo l’istanza fenomenologica ( zurück zu kommen), che impegna ad andare oltre i significati consolidati, alla ricerca della “sorgente” del senso e dell’evoluzione di questo, col suo corredo antropologico, al di là del “ mito”.
Ma qui, il cammino si fa impervio e faticoso. Il passaggio dalla linearità della referenzialità (secondo la logica del rispecchiamento) al rischio polisemico non è mai agevole.
In questo esercizio fenomenologico, che troviamo intrascendibile, parlando della “città” dobbiamo fare i conti con il tema dello “spazio” ( tematizzare lo spazio), che «in principio non è, ma si apre con un atto di violenza. È il taglio dei genitali del padre, mettendo fine all’occludente possesso di Urano perpetrato su Gaia, che rende libero lo spazio, che dona spazio allo spazio entro cui si estende e si distende ciò che la terra ha nel grembo. Il taglio dei genitali crea lo spazio e questo crea le Erinni, crea la contesa , anzi è tutt’uno con essa» (ESIODO, Teogonia, 116-225).
Lo spalancarsi dello spazio aprirà al problema dell’abitare, che ha potenzialità filosofiche inaudite, che qui non possiamo analizzare, anche se si fanno intuire agevolmente.
Comunque, lo spazio nasce da una contesa, per liberarsi da un possesso e rispondere a un bisogno (contesa tra gli dei, tra terra e cielo, tra l’uomo e l’uomo, tra l’uomo e la terra), nasce da un atto di violenza. Da qui la città che richiede che vengano segnati i confini in uno spazio sconfinato, a sua volta definito da una contesa. Sarà il falcetto di metallo “covato” nel grembo della terra (Gaia), e che costringerà Urano ad uscire dalla sua eterna alcova (come narra Esiodo), o l’aratro di Romolo che segna i confini della città eterna, sacralizzandoli con l’omicidio/fratricidio del fratello Remo, la città è tragicamente irrorata dal sangue del fratello, nasce con una connotazione tragico-negativa.
La prima città della Bibbia fu costruita da Caino (Gen. 4,17), cioè dal primo assassino della storia umana (Gen. 4,8), il primo fratricida. La città nasce dal sangue innocente di un fratello, da una morte. La Sacra Scrittura presenta perciò un rapporto con la città molto negativo: non mostra simpatia per mura, porte e piazze. I primi nomi di città sono carichi di condanna: sono le famigerate Babele, Ninive, Sodoma e Gomorra, Ramses e Pitom, Gerico, Babilonia, sinonimo di dolore e pianto, di sfrenate depravazioni, di violenza e di costrizioni. Città tutte figlie di quella metropoli frutto di un criminale “ramingo e fuggiasco”. È inevitabile che di questa città, oltre a cumuli di macerie, non sia rimasta che una fama sinistra. Ma questa frattura con la città deriva, secondo alcuni studiosi, dallo spirito nomade originario dei “padri”, che lascerà traccia di sé in un silenzioso antagonismo fra città e campagna, fra il mondo contadino e il mondo urbano più ricco, più colto, ma anche più corrotto e depravato. I fantasmi di Caino si allungano sul consesso degli uomini, retaggio del peccato originale, sconfessando lo zoon politicon di Aristotele. La polis non c’è più e Atene non è la gloriosa città di Pericle. Sopravanza Babele che si materializza in tutte le esperienze più tragiche della città, anche del nostro tempo: Baghdad, Secondigliano, i Bronx e le favelas delle nostre città dell’opulenza.
Ma la storia della città, per la Bibbia, non finisce con Babele. Esiste una città ideale che non porta più il marchio di Caino. Questa non poteva che essere Gerusalemme, celebrata come “città del nostro Dio…fondata da Dio per sempre” (Sal. 48, 2-9), ma, certamente non poteva trovare piena attuazione in una città terrestre costruita da uomini. Gli sguardi dei profeti si rivolgono verso un’altra Gerusalemme, che nei “tempi a venire” svetterà sui colli e sulle montagne e alla cui luce cammineranno le nazioni (Is., 60, 1-3).
L’attesa di una nuova Gerusalemme investe gli ebrei di Qumran che, ispirandosi a Ez. 40-48, stabiliscono le misure delle mura e delle torri (5Q15) che troveranno riscontro nella Gerusalemme nuova dell’Apocalisse.
Varcata la soglia dell’era cristiana, la Lettera agli ebrei rilancia la questione della speranza di una “città ideale”, di una Gerusalemme che non uccide i profeti, ma raccoglie i suoi figli (Luca, 13, 34) e risponde a tutti i loro bisogni.
La communitas (città della comunione) vince la tentazione dell’immunitas.
La ricostruzione che abbiamo voluto offrire fino ad ora ci consente di cogliere la metafora della città nella prospettiva dell’oltre, che si trasforma, nella nostra cultura (greca, ebraica, cristiana e umanistica) nell’ideale utopico, i cui archetipi si possono rinvenire, sia negli ideali greci esaltati da Platone nella Repubblica e nelle Leggi, sia nella tradizione biblica e giudaico-cristiana, specialmente nei suoi aspetti messianici, millenaristici e apocalittici.
È indubitabile, però, che per il Platone della Repubblica, la città si ravviva della fabbrilità dei cittadini, impegnati a dare risposte adeguate al “maggiore di tutti i bisogni”, che è “la preparazione del vitto”, indispensabile per la vita e l’esistenza; ma anche al bisogno dell’abitazione e quindi del vestire e via via immaginando quelli che si manifestano come bisogni “essenziali” per il vivere. E a questo scopo, cioè la soddisfazione dei bisogni, la città sollecita una “divisione del lavoro”( ante litteram) e la prima forma di lavoro specializzato, i cui prodotti saranno quindi posti a disposizione di tutti. E si arricchirà di officine che, a loro volta, richiameranno altri cittadini-lavoratori entro le mura, e si darà vita ai commerci, allargandone sempre più i confini e aumentandone la popolazione, con tutti i prevedibili esiti di quel processo di urbanizzazione che produce problemi di conflitto tra i bisogni, e quindi di giustizia, e reclama la presenza e l’opera di un custode, di un arbitro, che riduca l’esperienza dell’ingiustizia. Un custode scelto con oculatezza tra chi, per natura, è “amico del sapere e fiero e veloce e robusto”. Questi “dovrà riuscire un perfetto custode della città” (PLATONE, Repubblica, II, 369-376)
È istituito lo Stato, sostenuto dalla consapevolezza che “abbiamo bisogno di tutto” e, soprattutto, dell’esercizio della giustizia, il solo in grado di evitare che i più bisognosi siano sopraffatti e non riescano a soddisfare i loro bisogni, non escluso quello dell’educazione che reclama buoni maestri in grado di sollecitare i cittadini a non porre sullo stesso piano il giusto e l’ingiusto. .
Spetterà ad Aristotele introdurre quella svolta semantica che porterà al primato della vita associata e della polis. Da animale che esprime bisogni, l’uomo si fa, aristotelicamente, «per natura un animale socievole». Gli uomini, infatti, «anche se non hanno bisogno di aiuto reciproco, desiderano non di meno vivere insieme: non solo, ma pure l’interesse comune li raccoglie, in rapporto alla parte di benessere che ciascuno ne trae. Ed è proprio questo il fine, e di tutti in comune e di ciascuno in particolare; ma essi si riuniscono anche per il semplice scopo di vivere e per questo stringono la comunità statale»9 (Politica, 1278b). Un interessante riscontro lo si ritrova poi nel libro ottavo dell’Etica Nicomachea, in cui Aristotele, argomentando intorno alla virtù dell’amicizia, rileva come «persino le città siano tenute unite dall’amicizia, ed i legislatori si preoccupano di essa ancor più che della giustizia; infatti, la concordia sembra essere qualcosa di simile all’amicizia ed essi mirano essenzialmente a quella e vogliono tener lontana soprattutto la discordia, che le è nemica. E poi, quando si è amici, non v’è bisogno per nulla di giustizia, mentre anche essendo giusti, si ha bisogno dell’amicizia, e il più alto punto della giustizia sembra appartenere alla natura dell’amicizia» (Etica Nicomachea, 1155b). Intorno alla virtù dell’amicizia si ricompongo i bisogni e si costituisce l’equilibrio degli interessi nella pratica della giustizia, temperata da quell’essere amici che ne evita le durezze, precorrendo ogni essenziale manifestazione del bisogno. La polis si riscopre, ancora una volta, come il luogo privilegiato per il confronto delle diversità e l’appagamento delle necessità legate al vivere. Se con Aristotele, il bisogno, pur nella sua costitutività antropologica, porta gli abitatori della città a esperire pratiche adeguate al suo soddisfacimento, il pensiero post-aristotelico, e fino all’età moderna inclusa, continuerà a farsi carico del suo senso, alla ricerca delle cause che lo provocano, rintracciabili ancora nello statuto ontologico dell’uomo, essere carente, risultato di una “frattura” e di una “caduta”, dalle quali si rinasce, col calcolo etico (Epicuro), con l’indifferenza (Stoici), con la grazia (Agostino).
Ma uscendo dalla “nostalgia” della polis e muovendoci verso la città moderna, ritroviamo questa ancora come “spazio aperto”, in cui si rivendicano “diritti di cittadinanza”, riconosciuti per la prima volta e solennemente agli inizi della Rivoluzione Francese, e che accompagnano la nascita della democrazia, l’eguaglianza di fronte alla legge, il concetto e la prassi di “popolo sovrano”, di patto costituzionale, di divisione dei poteri. Con questo “lascito” dell’Illuminismo, la città ha continuato a fare i conti nei secoli successivi, fino ai nuovi conflitti che hanno contrapposto populismi nazionalistici e campanilistici e l’inesorabile caduta delle frontiere, che mette in primo piano il “diritto dei popoli” e, ancor più universalisticamente, il diritto della “persona”, che trascende ogni limite di cittadinanza. Siamo immersi, volenti o nolenti, in un nuovo concetto di “città”, che non sopporta il limite, ormai troppo angusto e discriminante della “cittadinanza”. La città, oggi, si estende “oltre” la cittadinanza!
Ma per chiudere, uno sguardo affettuoso e nostalgico alla mia città, Galatina. La città della mia infanzia e che mi ha accompagnato fino alla piena maturità. La città delle tre grandi piazze, San Pietro, Piazza Alighieri (con la “villa”) e Santa Caterina d’Alessandria. Sulla prima e sulla terza vigilavano e vigilano due Chiese e due campanili, che univano, ma anche dividevano la città, con i due popoli che animavano i due templi, prima che i processi di secolarizzazione rendessero insignificanti le differenze.
La parrocchia San Pietro è stato il luogo della mia formazione religiosa, culturale, sociale e, infine, politica. La grande piazza, ai miei tempi, era l’agorà in cui si vagliavano le idee, si valutavano le amministrazioni, si discuteva del valore delle bande che nella festività del Santo, avrebbero accompagnato e allietato il popolo. E poi,il ricordo dei tre giorni della grande festa, con la processione solenne, aperta dal corteo dei chierichetti con le tunichette rosse e le “cotte” candide di bucato, e l’immancabile grida e frastuono delle tarantate assiepate numerose sullo spazio antistante la piccola cappella di San Paolo. E i due simulacri nella parte centrale del corteo: la statua di San Paolo armata di spada, che precede, quasi a proteggerlo, il busto argenteo di San Pietro, e poi la banda, gli incensi, i ceri portati dai devoti, la folla che segue o si assiepa in attesa del passaggio dei Santi Patroni, venuti su dalla Grecia fino a Roma, dove li attendeva il Martirio. E Pietro, affaticato, che poggia il capo su un grande masso, conservato devotamente in una cappella della Chiesa Madre, esposta alla venerazione commossa e alquanto feticista dei fedeli.
Ora, a Lecce, mi ritrovo testimone di altre festività e…processioni! Al cospetto dei Santi Oronzo, Giusto e Fortunato, immagino, blasfemo, un mio dialogo con San Pietro in Galatina: “lo sai, San Pietro, che ormai sono cittadino leccese e che mi tocca di seguire, con il popolo, la processione di Sant’Oronzo?” E puntualmente sento riecheggiare la voce rauca di San Pietro, mentre viene sballottolato dai portatori insicuri, che mi fa sornione: “Sant’Oronzo… chi?”.
(2014)