Condannati all’inumano senza la conoscenza della storia

di Antonio Errico

Ad un certo punto della sua Lettera al Signor Chauvet, Alessandro Manzoni si domanda: in sostanza cosa ci dà la storia?

Manzoni se lo chiede nel contesto della sua riflessione sulla relazione fra storia e poesia, però la domanda assume un significato trasversale e si connota secondo i tempi e le condizioni di civiltà, in rapporto ai contesti, alle dinamiche sociali, ai sistemi culturali, nella combinazione con il valore che si attribuisce alla memoria, alla considerazione di quanto e come quello che è stato incide su quello che è, su quello che sarà.

A volte si ha l’impressione che la contemporaneità sia indifferente nel confronti della storia e della memoria, che consideri il presente come un paniere riempito a caso di cose ed appeso, oscillante, nel vuoto. Si ha l’impressione che al passato non si associ alcun valore, e che l’unica possibilità che si abbia per fargli acquisire un qualche modesto valore, consista nell’impiegarlo quale fondale di scena, quale fiction per una narrazione fantastica.

Che cosa può dare mai, in quest’oggi, la storia. In quest’oggi di tempeste culturali che travolgono e sconvolgono paesaggi e dimensioni culturali, che smantellano con una rapidità senza paragoni complessi e stratificati sistemi di pensiero elaborati nel corso di secoli e secoli.

Forse può essere proprio lo scetticismo verso quello che può dare la storia a determinare l’indifferenza nei suoi confronti, la distanza che si vuole, più o meno consapevolmente, stabilire con essa. Oppure può essere una paura, consapevole o inconsapevole anche questa, che la profondità della storia contamini e irrigidisca i movimenti vorticosi del presente. Oppure si suppone che la storia sia muta o che abbia soltanto una parola di retorica, o che si componga soltanto di una catasta di dati, di documenti, di fonti inespressive, di rappresentazioni immobili, di sepolti vissuti. Ancora: che in quanto realtà trascorsa non possa essere più considerata quale realtà e che quindi possa avere solo la stessa significanza che ha una fantasia. “Leone o Drago che sia, / il fatto poco importa. / La Storia è testimonianza morta. / E vale quanto una fantasia”, scriveva Giorgio Caproni. Ma è un poeta, per cui la sua considerazione ha la stessa radice di quella di Manzoni.

Una volta, più di trent’anni fa, Cesare Garboli – che non era uno storico ma un acutissimo critico letterario, uno dei più grandi del Novecento – in un articolo (ora raccolto nel volume intitolato “Falbalas”) sostenne che lo statuto di questa disciplina, prima così trionfante, è diventato incerto e vacillante.

Ecco, forse questa definizione riesce ad inquadrare il particolare della storia in una dimensione complessiva, che si costituisce come caratteristica di tutto il Novecento e di questo principio di secolo nuovo: l’incertezza, la precarietà, il vacillamento, la provvisorietà, la crisi, l’instabilità di ogni codice e di ogni statuto, di qualsiasi condizione ed espressione dell’esistenza e quindi della cultura. Quel concetto con cui Cicerone nel “De Oratore” sintetizza nella storia la testimonianza dei tempi, la luce della verità, la vita della memoria, l’insegnamento di vita, il messaggio dell’antichità, è andato progressivamente riducendosi semanticamente, si è trasformato in una formula pedagogicamente cristallizzata, inattiva, ridondante.

Così ci si chiede, come faceva Manzoni, ma senza la stessa specificità e la stessa contestualizzazione, che cosa ci dà, in fondo, la storia.

Ma questa domanda pretende anche quella su che cosa ci dà una scienza dell’umano.

Poi bisogna anche chiedersi in che modo si possa realizzare una dignitosa condizione dell’umano senza fondarla sulla scienza che riguarda appunto l’umano, che lo coinvolge e ne rappresenta l’identità, il suo essere nel tempo.

Che cosa ci dà la storia, dunque; che cosa ci può dare in questo tempo che si propone con una fisionomia indifferente, a volte anche cinica, refrattaria alla sensibilità della memoria.

Forse la risposta può essere quasi incredibilmente semplice: ci dà, come sempre, un catalogo dei destini individuali e collettivi, che occorre imparare a leggere, ad interpretare. Ci dà il resoconto di tutto quello che spetta agli uomini per una loro stessa determinazione o per un disegno non di rado indecifrabile. Ci fa comprendere che esistono, in ogni tempo e in ogni luogo, i vinti e i vincitori, le vittime e i carnefici, i giusti e i malvagi, gli onesti e gli impostori, coloro che appiccano gli incendi, stendono filo spinato, massacrano innocenti, e coloro che innalzano cattedrali, dipingono meraviglie, tessono poemi. La storia mostra tutta la sua imprevedibilità, tutta la sua imprecisione, perché imprevedibili e imprecisi sono i percorsi che fanno gli uomini. La storia non è obiettiva perché gli uomini non lo sono. Cambia il suo corso, perché lo cambiano gli uomini. E’ capricciosa perché così sono gli uomini.

La storia fa capire che si può arrivare a sommità incredibili con il sacrificio di tutta una vita e che da quelle sommità si precipita in un attimo soltanto, perché si mette il piede in un punto sbagliato dopo averlo messo in quello giusto per tutta la scalata.

Che cosa ci dà la storia, allora. Forse ci fa capire che tutte le illusioni prima o poi si trasformano in una delusione, che il torto non sta quasi mai tutto da una parte e che non sta mai tutta da una parte la ragione, che i modelli di giustizia, verità, menzogna, uguaglianza, libertà, democrazia, guerra, pace, non sono mai definitivi, ma fluttuanti, mutevoli, variabili come i pensieri degli uomini che realizzano quei modelli.

La storia insegna che tutto si trasforma, qualcosa si ricorda, molto si dimentica. Come in una poesia di Wislawa Szymborska, che dice così: “Chi sapeva/di che si trattava,/deve far posto a quelli/che ne sanno poco./E meno di poco./E infine assolutamente nulla./Sull’erba che ha ricoperto le cause e gli effetti,/c’è chi deve starsene disteso/con la spiga tra i denti,/perso a fissare le nuvole”.

Forse il senso del tempo è questa continua tensione fra la necessità della memoria e l’inevitabilità dell’oblio. Forse è proprio questo che ci dà la storia: il senso del tempo. Senza questo senso saremmo condannati all’inumano.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 28 gennaio 2018]

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