L’aumento delle esportazione e il mito neo-mercantilista della crescita economica

di Guglielmo Forges Davanzati

E’ convinzione diffusa, e in buona misura suffragata dall’evidenza empirica, che l’economia italiana, e anche quella meridionale, stia lentamente riprendendo un sentiero di crescita, dopo la doppia crisi del 2008-2009 e del 2011-2013. Questa convinzione viene spesso comunicata come sintomo di ripresa, a fronte del fatto ovvio che si tratta semmai del recupero, peraltro molto lento, della ricchezza distrutta nel trascorso decennio. La ripresa viene generalmente imputata all’aumento delle nostre esportazioni, in linea con la visione dominante – definita neo-mercantilista – per la quale la crescita economica passa necessariamente attraverso incrementi di vendite all’estero (e riduzioni delle importazioni).

Si tratta di un’impostazione che presenta non poche criticità, se si volge lo sguardo al di là dei confini nazionali e in un orizzonte di lungo periodo. E si tratta di una visione che sembra ignorare il fatto che – come mostra il significativo rallentamento degli scambi internazionali – la fase che stiamo vivendo è una fase di contro-globalizzazione e di ritorno al protezionismo.

Il c.d. neomercantilismo è una modalità di riproduzione capitalistica basata sull’obiettivo di generare crescita economica attraverso l’aumento delle esportazioni e la riduzione delle importazioni. E’ questa la linea di politica economica dominante oggi soprattutto (ma non solo) nell’Eurozona e che si traduce nell’ossessione della competitività. L’Unione europea, nei Trattati più recenti che ne hanno configurato l’architettura attuale, è formalmente concepita come economia sociale di mercato “estremamente competitiva”. I due strumenti fondamentali ipotizzati (e attuati) per raggiungere questo obiettivo, per tutti i Paesi membri, consistono nel consolidamento fiscale (ovvero la generazione di avanzi primari, mediante riduzioni della spesa pubblica) e nelle c.d. riforme strutturali, nella forma della liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi e deregolamentazione del mercato del lavoro (per generare moderazione salariale) e della detassazione degli utili d’impresa. Ciò nella convinzione che consentire alle imprese di contenere i costi di produzione sia il presupposto essenziale per consentire loro di vendere all’estero a prezzi ridotti. In più, le misure di moderazione salariale, combinate con il consolidamento fiscale, sono pensate per ridurre le importazioni.

La domanda che occorre porsi è se una strategia neo-mercantilista possa essere efficace (ai fini della crescita, come si ritiene) e sostenibile. La risposta rinvia a considerazioni di natura teorica e ad alcune evidenze empiriche, queste ultime qui riferite all’Italia.

In primo luogo, occorre ricordare che la crescita dell’economia mondiale nel suo complesso non può essere trainata dalle esportazioni dal momento che un modello di crescita trainata dalle esportazioni funziona soltanto se e fin quando esistono Paesi importatori netti. Questa considerazione destituisce di fondamento la visione dominante per la quale il modello di crescita trainato dall’accumulazione dei profitti può e deve riguardare tutti: banalmente, non si può esportare sulla Luna. In secondo luogo, occorre riconoscere che il libero scambio non avvantaggia tutti i Paesi che ne prendono parte, fondamentalmente a ragione del fatto che gli scambi internazionali coinvolgono Paesi con differenti gradi di sviluppo. Alcuni Paesi (i c.d. early startes) possono produrre con costi decrescenti, soprattutto nel settore manifatturiero, traendo vantaggio dallo scambio con Paesi che producono con costi crescenti (i c.d. late comers). Non a caso, sul piano empirico, il fondamentale fatto stilizzato al quale riferirsi è che le economie più aperte agli scambi internazionali (ovvero quelle con più alto grado di sviluppo) tendono a essere economie la cui crescita è trainata dal reinvestimento dei profitti e dalle esportazioni.

Si è dunque in presenza di un gioco a somma zero, nel quale l’Italia risulta perdente, al netto di riprese congiunturali delle nostre esportazioni. Ciò per le seguenti ragioni.

  1. La quota delle nostre imprese esportatrici è bassa nella comparazione con i nostri concorrenti dell’Eurozona, ed è concentrata nella classe di imprese di medie e grandi dimensioni localizzate quasi esclusivamente al Nord. Circa la metà delle imprese esportatrici è costituita da imprese del settore manifatturiero. Se si assume che le nostre esportazioni sono molto sensibili al prezzo (ipotesi niente affatto scontata), la moderazione salariale avvantaggia esclusivamente queste imprese. Per l’ampia platea delle altre imprese italiane, per contro, ovvero per le imprese di piccole dimensioni localizzate nel Mezzogiorno, la riduzione dei salari ha l’unico effetto di comprimere la domanda interna. Da qui: riduzione dei margini di profitto, degli investimenti privati, aumento del tasso di disoccupazione. Se, per contro, si assume che le nostre esportazioni sono trainate da fattori che attengono alla qualità del prodotto (e dunque indipendentemente dal prezzo di vendita), la moderazione salariale è, con ogni evidenza, inutile per le imprese esportatrici e dannosa per le tante imprese che operano sul mercato interno.
  2. La moderazione salariale non necessariamente implica, attraverso la compressione della domanda interna, una riduzione delle importazioni. Ciò per numerose ragioni, non da ultimo il fatto che al ridursi dei salari si modifica la composizione merceologica dei consumi e, per conseguenza, può risultare conveniente acquistare beni (a prezzi inferiori) non prodotti in Italia (si pensi, a titolo puramente esemplificativo all’aumento dell’acquisto di prodotti cinesi). Più in generale, i pattern di consumo risentono non solo del reddito e dei prezzi relativi dei beni, ma anche di effetti di ‘apprendimento’ e di imitazione: il che rende piuttosto semplicistica l’assunzione standard per la quale fra consumi e importazioni la relazione è sempre e necessariamente di tipo diretto. A ciò si può aggiungere che in un contesto di moderazione salariale e crescente precarizzazione del lavoro la propensione al consumo può ridursi, per effetto dell’aumento dell’incertezza sul rinnovo del contratto di lavoro e, dunque, sul flusso dei redditi futuri.

Sul piano empirico, si rileva che i principali Paesi dell’Unione Monetaria Europea, con eccezione della Francia e in parte del Regno Unito, a partire dal 2011 registrano aumenti del saldo della bilancia commerciale in rapporto al Pil. Ciò vale anche per l’Italia, ma con effetti sul tasso di crescita pressoché insignificanti (il miglior risultato ottenuto dal 2011 al 2016 è un tasso di crescita dell’1%) e comunque in assenza di apprezzabili incrementi del tasso di occupazione (che, pur a fronte di incrementi di esportazioni è semmai aumentato, passando dall’8.3% dell’agosto 2011 all’11.2% dell’agosto 2017). Dunque, almeno nel caso italiano, l’aumento delle esportazioni non traina la crescita e tantomeno si associa ad aumenti dell’occupazione.

Perché, se queste misure non generano i risultati attesi (almeno nel caso italiano), esse vengono reiterate? Sul piano propriamente economico, è del tutto evidente che la singola impresa, in concorrenza con le altre, ha la massima convenienza a ottenere sgravi fiscali e bassi salari. Ma la convenienza privata, in questo caso, confligge con quella della collettività delle imprese. Ciò per due ragioni. Innanzitutto perché bassi salari (e alta tassazione sul lavoro, essendo la ripartizione dell’onere fiscale un gioco a somma zero, in un contesto di consolidamento fiscale) riducono i consumi, generando effetti deflattivi e calo dei profitti nell’aggregato. In più, la compressione dei salari tende ad associarsi al deterioramento della qualità della forza lavoro (p.e. per la minore capacità di accesso a cure mediche) e, dunque, a minore tasso di crescita della produttività del lavoro e dei profitti futuri.

In altri termini, la moderazione salariale finalizzata ad accrescere le esportazioni (ed eventualmente a ridurre le importazioni) è una strategia miope e irrazionale per la collettività delle imprese. E’ una strategia miope perché genera riduzioni di produttività nel medio-lungo periodo. E’ una strategia irrazionale perché è conveniente per la singola impresa ma controproducente per l’insieme delle imprese, dal momento che la compressione dei salari riduce i mercati di sbocco interni e, in una competizione internazionale anch’essa basata su bassi salari, comprime anche i mercati esteri. A ciò si può aggiungere il fatto che all’aumentare dei profitti gli investimenti non necessariamente aumentano. Possono non aumentare per il peggioramento delle aspettative imprenditoriali, per il fatto che i profitti accumulati vengono destinati a usi speculativi e ancora per l’aumento dei consumi di lusso da parte dei capitalisti.

Ma fin quando le politiche economiche saranno guidate dagli interessi delle imprese (e soprattutto delle grandi imprese esportatrici), il modello di politica economica è destinato a restare basato sull’idea dominante che la crescita economica passa necessariamente attraverso le esportazioni. Ovviamente è un modello che non può generare crescita su scala globale (potendo farlo solo per singoli Paesi). Ma soprattutto è un modello irrazionale ai fini della crescita e dell’aumento dell’occupazione, che accentua i conflitti intercapitalistici in un pericoloso gioco di acquisizione di quote di mercato su scala globale, e che, tuttavia, stante le condizioni date, non sembra avere alternative.

 

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