di Antonio Prete
Ci sono alcune figure di pensiero, o chiamiamole pure forme della critica, che, affermate e gridate nell’epoca per così dire impetuosa dei movimenti –dintorni del sessantotto e primi anni settanta- continuano a interrogarci ancora oggi. Sempre che ci disponiamo dinanzi alla memoria cercando una via che sfugga sia alla nostalgia regressiva sia alla rimozione interessata. Tra queste figure la critica della violenza è quella certo più soggetta a controversie postume –eco delle controversie del momento- ma è anche quella che forse più di altre può interpretare, di quelle esperienze, sia l’anima utopica sia la tensione rivolta a costruire relazioni nuove tra soggetti, in rottura con il dettato di una morale conformista, ipocrita, convenzionale. Accade oggi che alcuni ripensino alle idee che trascorrevano in quei movimenti sovrapponendo al sapere e alle culture e alle pratiche di quegli anni le esperienze da loro fatte dentro le successive formazioni extraparlamentari, le quali spesso mimavano i partiti storici della sinistra ed erano attraversate da tendenze settarie, recinzioni ideologiche, bisogni di riconoscimento e identità, affermazione di sé. La storia delle idee e tensioni e sogni del movimento di quegli anni non coincide esattamente né con i partiti dell’epoca né con le formazioni politiche, piccole o grandi che fossero: anche se queste aree politicamente organizzate erano dalle idee dei movimenti di continuo sfiorate, contaminate, interpellate. Un esempio tra tutti, il movimento delle donne. Che, frastagliato e ricchissimo, mise in campo azioni, rapporti e saperi forti di una loro autonomia e originalità, vissuti con una passione in grado di modificare l’orizzonte delle idee acquisite, dei paradigmi stessi di analisi e giudizio allora correnti.
In una mappa dei saperi che presiedevano ai movimenti di quegli anni confluiscono molte aree discorsive, molte esperienze intellettuali, e soprattutto agisce una circolazione intensa di conoscenze dal respiro non solo europeo. Tra queste, le analisi acutissime della società moderna, dei suoi miti, delle sue convenzioni e sottili violenze condotte dai filosofi della Scuola di Francoforte. La critica di una civiltà in cui il dominio della tecnica poteva disanimare i soggetti, deprivarli dei loro sensi, del loro tempo soggettivo e inventivo, della loro immaginazione. La critica delle istituzioni, del loro autoritarismo, in particolare di quelle istituzioni che erano definite totali: istituzioni nelle quali i soggetti erano non solo disciplinati e costretti nel corpo, ma mortificati nel pensiero e nel desiderio, subordinati a fini estranei alla loro crescita interiore, al loro bisogno di relazioni davvero umane. Intorno alla natura e al funzionamento delle istituzioni si svilupparono saperi che fruttuosamente scambiarono i loro statuti, si avviarono pratiche e rapporti che modificarono le relazioni esistenti, i linguaggi, le forme di incontro, di riconoscimento reciproco, di lavoro. La psicanalisi e la psichiatria, per non dire di altri saperi come l’antropologia, la filosofia, la letteratura, furono investite del compito di interpretare i soggetti non solo in rapporto con quel che in loro è cancellato, deviato, rimosso, dislocato, ma in rapporto con le istituzioni e i loro linguaggi, le loro forme, i loro statuti. Per restare in Italia -e non parlare delle straordinarie ricerche di Foucault, che andrebbero tutte oggi riprese- basterebbe riandare agli scritti connessi col movimento della cosiddetta antipsichiatria (sorto intorno a Basaglia) e gli scritti e i documenti sorti intorno alla rivista “L’Erba voglio” animata da Elvio Fachinelli (un’antologia della rivista, dal titolo Il desiderio dissidente, è stata pubblicata qualche anno fa per le cure di Lea Melandri presso le edizioni Baldini e Castoldi). E basterebbe rileggere una piccola parte di quel tanto che in quegli anni si scrisse intorno alla scuola, alle fabbriche, all’ambiente. Se quelle analisi erano mosse, in misura diversa, da una tensione progettuale e utopica, erano anche fondate su alcune esperienze in atto, su alcune forme di vita che tra difficoltà affermavano come possibile quello che poteva sembrare impossibile, o azzardato, o estremo. Richiamo questi punti perché il riconoscimento della violenza strutturata e formalizzata per così dire nelle istituzioni era un aspetto della più generale critica della violenza, sia che questa si presentasse nelle forme storiche delle immense tragedie –le guerre- sia che si presentasse trasferita e dislocata nei rapporti familiari e sociali o sul terreno del lavoro e nel rapporto con l’ambiente, con la natura, con gli animali. Per altro verso al rifiuto della violenza si accompagnava il riconoscimento della singolarità vivente: il soggetto non più osservato nella sua unità data, nella sua classificazione in ruoli pubblici o privati, ma nella sua interezza individuale, corpo, sensi, desideri, inconscio, relazioni ecc. Da quell’epoca viene un richiamo, una riflessione che rimbalza nell’oggi. I movimenti per la pace, pur nella loro variegata composizione, hanno un legame diretto con quegli altri movimenti proprio per questa sorta di sorveglianza contro le forme della violenza, in qualunque modo si presentino (senza dire che molti della mia generazione si sono affacciati alla dimensione politica manifestando contro le violenze più visibili, come la guerra nel Vietnam, e, prima ancora, contro le torture e le condanne a morte comminate da Franco). Il legame è, a mio parere, proprio nel presupposto: il riconoscimento della singolarità, della sua complessità vivente e non ridotta a numero, funzione, appartenenza. Più si riconosce l’individuo nella sua corporeità, nei suoi legami, nei suoi sensi, nei suoi desideri, insomma nel suo essere vivente tra viventi, nome e storia tra nomi e storie, più la violenza –e la guerra come la forma politicamente organizzata della violenza nei confronti di “migliaia di individui umani”- mostra la sua assoluta insensatezza, la sua mostruosità. Ho detto “migliaia di individui umani” proprio per citare un passaggio di Leopardi, delle sue meditazioni sulla guerra (pagine dello Zibaldone che più volte m’accade di richiamare perché trascuratissime se non del tutto ignorate dalla critica). Il passaggio riguarda il confronto tra la violenza degli animali e la violenza degli uomini: “ […]che proporzione, anzi che simiglianza può aver l’uccisione d’uno o di quattro o dieci animali fatta da’ loro simili qua e là sparsamente, in lungo intervallo, e per forza di una passione momentanea e soverchiante, con quella di migliaia d’individui umani fatta in mezz’ora, in un luogo stesso, da altri individui lor simili, niente passionati, che combattono per una querela o altrui, o non propria d’alcun di loro, ma comune…e che neppur conoscono affatto quelli che uccidono, e che di là ad un giorno, o ad un’ora, tornano all’uccisione della stessa gente, e seguono talvolta finché non l’hanno tutta estirpata?” (3792-93, ottobre 1823).
(2005)