di Gianluca Virgilio
Il giorno in cui per la prima volta mi sembrò di capire come va il mondo, il giorno in cui mi s’illuminò la mente su come davvero stanno le cose…, fu un giorno della tarda primavera di tanti anni fa, precisamente un pomeriggio di giugno dei miei sedici anni. L’ho impresso nella memoria come un avvenimento fatidico, cioè destinato a cambiare la mia vita morale.
Già un quarto d’ora prima che iniziasse la partita, mio padre nel tinello era incollato davanti al televisore, pronto a sentire l’inno nazionale dell’Italia e quello della squadra avversaria con relativo elenco dei calciatori. Io ero nella fase acuta dell’adolescenza, quella nella quale bisogna differenziarsi a tutti i costi dal padre, e per farlo si individua un motivo dominante, che rimarrà per sempre lo stigma del proprio carattere. Doveva essere una partita di calcio importante quella che si disputava quel giorno, valida per la qualificazione dell’Italia alla finale dei mondiali, se non la finale stessa. Mio padre avrebbe avuto piacere a vedere la partita insieme a me, ma io rifiutai, presi le mie sigarette e uscii da casa.
A giugno le giornate sono piuttosto lunghe e alle diciotto il sole è ancora alto nel cielo. Via Roma ne era invasa ed io la percorrevo nel silenzio generale, interrotto qua e là dalla telecronaca della partita, che giungeva fin nella strada deserta dalle finestre delle case, tenute aperte per il gran caldo. Camminavo piano, fumando una Gauloise o una Gitane, una Camel o una Nazionale o forse una Super, rigorosamente senza filtro, proiettando un’ombra lunga sull’asfalto della strada che mi avrebbe condotto dalla periferia, dove abitavo, al centro del paese, alla villa grande, come diciamo noi. Chi vi avrei trovato? Sapevo bene che tutti i miei amici si erano riuniti da qualche parte, in casa di uno di noi, per vedere la partita. Ma io non volevo vedere nessuna partita, e dunque non li avrei raggiunti e me ne sarei stato da solo seduto su una panchina, aspettando che finisse quel rituale di massa da cui io volevo rimanere escluso. L’adolescenza, nei suoi momenti solenni, si nutre della propria solitudine, anche a costo di rimanervi schiacciata.
Su una panchina della villa grande, seduto al solito modo trasgressivo, cioè sulla spalliera e coi piedi sul sedile, osservavo intorno a me la città deserta, seguendo con gli occhi qualche rara auto guidata da un ritardatario e da qualcuno preso da affari indifferibili, sintonizzato però sul canale radio che gli consentiva, anche in auto, di seguire la cronaca della partita. Sentivo che la città brulicava d’una vitalità sovreccitata, rinchiusa nelle case, dentro i bar, i circoli sportivi, le sedi dei partiti, gli oratori delle parrocchie, ecc., da cui di lì a un’ora avrebbe erotto nella strada con canti, grida, inni di uomini impazziti, tra suoni di trombe e di fanfare, in caso di vittoria; oppure sarebbe svanita sommessamente tra le vie della città percorse da persone a testa bassa e molto amareggiate per la sconfitta.
A che cosa pensavo stando lì seduto nella solitudine dei miei sedici anni? Alle riunioni del collettivo studentesco in cui ci si ritrovava sempre in sei, alle assemblee scolastiche che erano state perlopiù un fallimento, alle interminabili discussioni tra compagni che non approdavano mai a nulla? Tutto inutile, tutto tempo sprecato, se bastava una partita dei mondiali in cui giocava l’Italia perché tutti rimanessero tappati in casa a esultare per qualche stupido goal, dimentichi del mondo che volevamo cambiare. Contava solo vincere, vincere la partita, vincere il mondiale, vincere… vincere che cosa?
Mi si avvicinò un giovane storpio e senza amici, che allora andava sempre in giro per il paese suonando un’armonica a bocca, sbeffeggiato da tutti. Mi disse: “Te la regalo”, e insistette perché prendessi la sua armonica. Penso che la sua solitudine sia stata molto simile alla mia, perché tutte le solitudini si eguagliano e solidarizzano tra loro. Io gli offrii una sigaretta e poi un’altra e poi un’altra ancora finché il pacchetto non finì. Poi se ne andò e io rimasi seduto sulla spalliera della panchina con in mano quello strumento che non sapevo suonare.
Capii per la prima volta come va il mondo quando la partita finì. Io già sapevo che l’Italia aveva vinto perché sentivo le urla di gioia che venivano dalle case tutt’intorno; e ne ebbi la conferma quando, di lì a poco, tutti si riversarono in strada agitando le bandiere tricolore, schiamazzando, suonando i clacson delle auto e le trombe da stadio, mentre qualcuno si gettava nella fontana pubblica ricoprendosi poi col tricolore a mo’ di telo da mare. Allora, sentii un tremito contagioso, un‘interna emozione che mi spingeva ad esultare con gli altri, anche con mio padre che giubilava pure lui tra le quattro pareti del tinello domestico. Che cosa voleva dire quel tremito e quella emozione? Che dentro di me una forza mi induceva a fare come gli altri, perché quel cantare e gioire all’unisono con gli altri era fonte di piacere e di conforto, faceva star bene come una potente droga. Oggi penso che la mia adolescenza fu intransigente perché resistetti alla gioia spensierata di andare in giro con una bandiera. A una forza contrapposi una forza maggiore, che se da una parte mi diede ragione, certo non mi rese più felice. Davanti alla baraonda, rimasi immobile, dicendomi che non mi sarei fatto fregare come tutti gli altri.
Ora, a cinquantuno anni, non so se feci bene o male, ma so che allora capii per la prima volta come stanno le cose, ne presi atto; e da allora, sebbene sempre rimanga incantato a seguire il gioco di due squadre che si combattono in un campo di terra battuta dietro un pallone, non accesi mai più il televisore per vedere una partita.
(2014)