di Evgenij Permjak
C’era una volta una vedova bianca di nome Màrja. Suo marito era sempre lontano da casa, faceva il falegname su commissione nelle città, e lei, nel frattempo, si occupava di parecchie faccende al suo villaggio. Niente le cadeva dalle mani. Né la mungitura delle vacche, né l’allevamento dei vitellini, né la coltivazione del grano, né segare la legna, in tutto non era soltanto una lavoratrice, ma fiamma. Non bruciava solo per se stessa, ma riusciva ad incendiare, con la sua scintilla alacre, tutta la gente che le stava attorno. All’improvviso, però, arrivò il tempo in cui cominciò a spegnersi. Ad avvilirsi. Ad avvizzirsi. Ad essiccarsi. Ad ingobbirsi. Ogni attività smise improvvisamente d’attirarla. Ogni passatempo smise di rallegrarla. L’unico suo interesse divenne andare spesso al cimitero per visitare la tomba della sua defunta madre.
«Ho fatto il mio tempo» – cominciò a dire. «Sono arrivati alla fine i miei bei giorni di luce. Sta arrivando per me il buio eterno. Mi è rimasta da maritare la mia figliola più piccola e con ciò sarà tutto finito.»
La gente del vicinato provò a dissuaderla in tutti modi. Cercò di darle ogni sorta di buoni consigli. Le indicava una strada d’uscita dalla depressione. Lei invece: «La vita non può iniziare daccapo. Neppure un minuto potrebbe essere rivissuto un’altra volta, per non parlare dei giorni d’oro che certamente non potranno mai più ritornare.»
Diceva così e si metteva a rievocare gli anni vissuti, uno più bello e più focoso dell’altro.
Molti uomini per amor suo si struggevano, chiedendola in sposa. La supplicarono, piangendo, in ginocchio, gelarono per delle ore davanti alle sue finestre nei freddi invernali, soltanto per scorgerla un attimo. Lei, invece, abbracciò con le sue sottili braccia un falegname dalla chioma rossa e con un leggero strabismo di venere nell’occhio sinistro, lo chiamò suo promesso e a lui diede, davanti a tutta la gente, il suo primo bacio.
Il rosso, dicevano, rimase talmente scosso dalla felicità inaspettata che per un anno ebbe un forte strabismo a tutti e due gli occhi, ed i suoi occhi si normalizzarono soltanto con la nascita del loro primogenito. Il bimbo nacque con il rossiccio dei capelli del padre, coi tratti del volto della madre e, come un anello d’oro, unì più forte il padre e la madre.
Solo allora il falegname capì che non si trattava di uno scherzo, che loro due non giocavano, ma che lui e Màrja, erano uniti dal figlio per sempre nel sacro vincolo del matrimonio.
I genitori felici chiamarono il loro bimbo dai riccioli d’oro, anellino d’oro, e nell’estratto di nascita lo fecero trascrivere con il nome Nikola. Kolja come diminutivo o vezzeggiativo Kolečka per l’assonanza con “kolečko” – “anellino” in russo.
Cresceva il figliolo, aveva appena cominciato a camminare, quando la generosa Madre Vita mandò loro una bella figliola. Un’altra gioia smisurata entrò in casa. Kolečka e Olečka erano due anellini d’oro.
Sei volte sorrise loro la Zarina Vita: ebbero quattro figli maschi e due figlie femmine. Si stava stretti a tavola, ma in allegria. Vi era tanto chiasso, cinguettio, piagnucolio, pigolio… Come nel bosco in primavera. Una felicità senza fine.
Non passò allora neppure per la testa che tutto questo poteva essere passeggero. Passare e finire.
E’ assai bella la primavera, ma la sua beltà non dura a lungo. E’ luminosa e dolce l’estate calda, ma è destinata a spegnersi.
Senza che se ne accorgessero, i figli e le figlie diventarono adulti. Il figlio maggiore andò via dalla casa paterna per costruire fabbriche. Il secondo e il terzo dei figli maschi scelsero la carriera militare. Uno di loro era tornato a Mosca con il rango di generale. L’altro fu accolto da soldato dalla terra di una fossa comune. Il quarto figlio sino ai giorni nostri guida le carovane delle navi tra i ghiacci dei gelidi mari nordici. E fu necessario pure che qualcuno dissodasse dall’oblio le vaste terre della Siberia. Così la figlia maggiore, Olga, con la sua giovane famiglia, diede inizio alla nascita di una nuova città, nelle terre oltre il lago Bajkal.
Nel villaggio con la madre rimase soltanto la figlia più piccola, Nastja. Tuttavia anche lei era rimasta in un certo senso… non del tutto spontaneamente, ma guidata per lo più dal buon cuore e dalla compassione per la madre. Perché la madre non rimanesse del tutto sola, avesse con chi scambiare una dolce parola e di chi occuparsi un po’; magari cucinando ogni tanto una minestra o altro… Così, la figlia più piccola, Nastja, viveva a casa di Màrja, ma la sua mente era tutta presa dal bosco. Infatti, nel bosco aveva il suo bel cedro. Alto, prestante – un Adone -, era peraltro un ottimo lavoratore. In molte gli gironzolavano attorno. Tra loro, non poche erano degne e belle ragazze da marito.
Non sarebbe stato niente male far entrare nella casa di Màrja un bravo genero come questo, ma come fare, dato che anche lui non poteva lasciare solo il suo vecchio nonno, un guardaboschi.
Tiravano avanti di sofferenza in sofferenza i giovani innamorati, incontrandosi e vedendosi soltanto nei sogni. Lei, ancorata al dovere verso la madre, lui ad un giuramento a se stesso, di prestare le cure al vecchio nonno sino al suo ultimo minuto di vita, per ricambiare con la stessa gratitudine il vecchio che l’aveva cresciuto, nutrito, istruito come si doveva. Non si poteva neanche pensare di lasciarlo. Neppure un lupo avrebbe potuto perdonare un tradimento simile!
Continuò così a lungo, finché Màrja un giorno disse alla figlia: «E’ un peccato, Nastassja, vederti appassire come un fiore sterile, dentro casa. Vai a respirare aria fresca al bosco. Perché non cogliere, finché è l’ora, i suoi frutti: lamponi e bacche di viburno, mirtilli e ribes, funghi gallinacci e porcini… Che meraviglia! Non sfuggire, non sottrarti, figlia mia, al bosco. Se non ti garba nessun giovanotto del villaggio, potrai, forse, incontrare nel bosco un bello spiritello!»
La madre disse così senza fare alcun cenno al nipote del guardaboschi. Fece finta di non sapere nulla di nulla.
A questo punto Nasten’ka passava più tempo nel bosco che a casa. La madre rimase sola soletta. Non aveva più alcun interesse per la vita. Non sapeva cosa escogitare per tirare avanti. Per noia e vuoto attorno si mise in pellegrinaggio, andando a trovare i figli lontani: ora andava per qualche giorno a Mosca dal generale, ora dalla figlia-deputato nella nuova città d’oltre Bajkal. Ogni tanto veniva a trovarla il suo “lupo di mare”: erano questi i suoi unici sprazzi di luce e di gioia. Però erano brevi. Ognuno dei figli aveva la propria vita, le proprie faccende e le proprie preoccupazioni. Soltanto lei non aveva né faccende né preoccupazioni, quindi non aveva vita. Come pure il suo vecchio, che si caricava del lavoro di falegnameria altrove, non per interesse verso il denaro, ma per fuggire dalla casa vuota e desolata.
Successe così che Màrja divenne vedova con il marito vivo, donna senza prole con tanti figli. Era una cosa insopportabile, da desiderare l’arrivo della Morte, perché almeno lei non rovinasse la vita di Nastja. Ma come si fa a implorare l’arrivo della Morte? Quando il cuore batte senza aritmia, se il petto respira regolarmente e non ha alcun malanno, ma solo una tremenda angoscia, la Morte è impotente…
Infatti, anche la Morte conosce le sue regole, come peraltro la Vita che non si fa sfuggire la sua regola: ognuno paga il saldo.
Intanto Nastja si appassionò talmente al bosco che, quando finì il tempo dei suoi frutti, si mise ad approvvigionarsi della legna per la casa, sempre nel bosco. E quando il cortile della casa divenne stretto-stretto per le cataste di legna, si trovò un altro mestiere. Decise di darsi alla caccia della selvaggina. Dapprima metteva dei cappi per le lepri, sistemava delle trappole per le volpi e poi si procurò perfino un fucile.
La caccia andava molto bene. Ora portava una grossa lepre, ora un gallo cedrone, ora una decina di pernici. Una volta, in una bella giornata di sole, quando la madre era partita per trovare un altro suo figlio, Nastja portò a casa una bimba. Portò una neonata, diventando lei anche madre.
I vicini di casa l’aiutarono per quel che serviva nei primi giorni e molto presto Nasten’ka si rimise in piedi. Ciò avvenne anche per il fatto che la “miracolosa bacca” del bosco si metteva assai presto in forze. Faceva sentire, eccome, la sua vocina sonora. Esigeva di essere curata e nutrita.
Si risvegliò dal sopore la vecchia isba con il vagito della neonata. Si ringiovanirono le sue mura. Si rischiararono le finestre. Entrò in casa una fragranza di vita. Quando tornò a casa la vecchia madre, da giovane nonna, la primavera arrivò prima del tempo. Si sentì un allegro gocciolio dai tetti. Si mise a brillare ed ardere il sole.
Màrja si chinò sulla culla della nipotina e sentì che la maternità le stava entrando dentro nuovamente. Le braccia si gonfiavano di nuova forza. Cominciava a raddrizzarsi la schiena. Le gambe si facevano più agili e veloci. Gli occhi si schiarivano. La voce diventava più ferma. Il cuore batteva forte, era pronto a saltar fuori e mettersi a fare una sfrenata danza.
«La felicità sei tu, davvero? Sei tu, bella mia?»
Màrja non si saziava di guardare il visetto così familiare della nipotina. Non si saziava di ammirare gli anellini d’oro dei suoi capelli.
«O Madre Vita onnipotente, ti ringrazio, ti ringrazio tanto, della gioia immensa che mi hai voluto donare per la mia vecchiaia!»
Richiamarono a casa il nonno falegname-peregrinante. Arrivò più veloce di un aereo. Il nonno guardò sino all’ultimo ditino mignolo del sangue del suo sangue e, come nessun altro, notò nell’occhietto sinistro un leggerissimo strabismo di venere: «Ohi!»
Giorno per giorno la casa diveniva sempre più rumorosa. Fecero venire a casa il padre. Entrò il giovane padre, pallido come un cencio lavato. Credeva, poveraccio, che l’avrebbero rimproverato. Trovò invece tutti di ottimo umore.
«Grazie a te, spiritello-spudoratello, per la bella nipotina» disse Màrja. «Vieni pure dentro, qua sei ospite assai gradito.»
Intanto suo marito già stappava una bottiglia: «Se vorrai, potrai rimanere da giovane padrone in questa casa.»
Pure il vecchio guardaboschi, guarda caso, si trovò vicino e, a questo punto, disse: «Anch’io, nipote mio, non sarò d’ostacolo alla tua felicità. Resta qui a vivere con la tua nuova famiglia, io invece finirò tranquillamente i miei anni lì, dove vivevo.»
A questo punto il nonno-falegname abbracciò il bisnonno della sua nipotina e disse: «A che pro dovresti, brav’uomo, trascorrere il resto dei tuoi anni nel bosco tutto solo? Perché non farli allungare, vivendo dentro una luminosa casa assieme a tutti noi. Ai giovani sposi costruiremo un bell’appartamento e per te una bella cameretta… E vivremo felici e contenti in un’allegra compagnia.»
Non ebbe nulla da obbiettare a questa proposta il vecchio guardaboschi. Comprese che la proposta partiva dal cuore, acconsentì altrettanto entusiasta.
Da lì a poco si mise tutta la parentela della piccola Mašen’ka a vivere nella casa rinnovata della vecchia isba. E’ così che la chiamarono in onore della sua nonna Màrja.
La bella piccina cresceva con cure attente. Cresceva senza rendersi conto che i suoi anellini d’oro avevano unito, con una preziosa felice catena, tanta gente in una solida ed affiatata famiglia di lavoratori.
[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]