di Antonio Errico
Se la vita gli avesse dato tempo, tra le sue Lezioni americane Italo Calvino ne avrebbe probabilmente considerata una sul tema della semplicità, intesa come categoria non solo della letteratura, non solo della scrittura, ma essenzialmente dell’esistenza, del modo di essere, di fare. Probabilmente avrebbe indagato le espressioni della semplicità di tutto, per tutto, fatta eccezione per il modo di pensare, perché si deve pensare sempre in modo complesso, eterogeneo, multiforme, molteplice, articolato, per poi trasporre il pensiero in una forma semplice, che si renda disponibile alla comprensione di ciascuno, alla rielaborazione personale, all’assimilazione significativa.
Forse la semplicità non è una condizione da cui si comincia; è una qualità alla quale si arriva attraverso un percorso e un processo che non è semplice, che, anzi, richiede maturità, saggezza, anche sacrificio, l’acquisizione di una capacità di togliere, di sfrondare, di proporsi e proporre il proprio pensiero nella sua sostanza, nella sua essenzialità. La semplicità è una conquista della personalità, innanzitutto. E’ un’operazione di sintesi che gradualmente elabora forme caratterizzate dalla compattezza, dalla consistenza, dallo spessore dei concetti, dalla densità delle espressioni, dalla coesione fondamentale degli elementi che costituiscono il tessuto di un ragionamento, di un’arte, di un’opera di qualsiasi genere: una scrittura, una pittura, una musica.
La semplicità è chiarezza. La chiarezza è eleganza, sostanza, onestà. Semplicità e chiarezza sono virtù. Non esiste argomento, tematica, problematica, che non possano essere espressi con chiarezza e con semplicità. Ha scritto una volta Charles Bukowski: “Il segreto, la verità profonda, per far qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità”.
Quasi trent’anni fa, in un articolo sul “Messaggero”, Edoardo Sanguineti individuava alcune condizioni che connotano la categoria della chiarezza.
La chiarezza è relativa agli strumenti di comunicazione di cui ci serviamo, diceva. Esiste una chiarezza lessicale, concettuale, sintattica, una chiarezza espositiva, una enciclopedica, che è relativa alle informazioni veicolate.
La chiarezza è sempre relativa ai codici, alle modalità e alle funzioni del messaggio. La chiarezza di un telegramma non è quella di una poesia, la chiarezza di una preghiera non è quella della grammatica, la chiarezza di un articolo di legge è sostanzialmente e formalmente diversa da quella di un articolo di giornale, perché sono diverse le attese dei destinatari.
Diceva Sanguineti: dimmi che cosa ti è chiaro e ti dirò chi sei, quando e dove sei, e di quale classe e sottoclasse, gruppo e sottogruppo, e avanti e giù, fino all’individuo ineffabile, nella sua profonda oscurità infinita, poiché infine, accanto alla chiarezza della ragione vi è quella del cuore, accanto alla chiarezza dello spirito di geometria vi è quella dello spirito di finezza, e accanto alla chiarezza dell’io cosciente, vi è quella dell’inconscio e quella, la più terribile, del superego.
Probabilmente esiste una relazione strutturale fra la semplicità e la funzione intellettuale.
Ogni intellettuale ha una responsabilità tutta speciale, diceva Karl Popper. Siccome l’intellettuale ha il privilegio e l’opportunità di studiare, è debitore nei confronti del suo prossimo, della società, per cui ha il dovere di esporre i risultati del proprio studio nella forma più semplice, chiara e modesta.
“La cosa peggiore – il peccato contro lo Spirito Santo – è quando gli intellettuali cercano di atteggiarsi nei confronti del loro prossimo come grandi profeti o di impressionarlo con filosofie oracolanti. Chi non è capace di esprimersi semplicemente e chiaramente, deve tacere e continuare a lavorare sino a che è capace di dirlo chiaramente”.
Intellettuale è colui che in qualche modo possiede un sapere, in qualche modo elabora e rielabora espressioni e contenuti, propone metodi, in qualche modo insegna qualcosa a qualcuno.
Ripensavo a Popper qualche tempo fa, mentre ascoltavo un signore che, per la situazione, doveva spiegare ai convenuti alcuni aspetti e procedure relativi ad applicazioni di certi programmi informatici.
In quell’occasione, fra gli astanti ci fu chi dopo quindici minuti esatti di lessico iperspecialistico, appartenente ad un gergo probabilmente estraneo agli umani, decise con sollievo di rinunciare a seguire il maestro fra le nebbie delle sue circonlocuzioni e cominciò ad osservare i volti atterriti e quelli annoiati e quelli stupefatti di coloro che stavano lì per ascoltarlo. Dalle loro espressioni intuiva che non uno stesse comprendendo che cosa dicesse il maestro. Ma si sbagliava. In un caso si sbagliava. Perché dopo quasi tre ore di superbe oscurità, uno dei discenti chiese la parola e disse: ma per caso, per applicare questo programma, si può fare in questo modo? Alla domanda seguiva un concetto di massimo trenta parole in lingua italiana, comuni e comprensibili a tutti.
Forse celando un pallore o un rossore, l’eccellente tecnocrate rispose: sì, è così.
Se la vita gli avesse dato tempo, forse Italo Calvino avrebbe scritto una lezione sulla semplicità. Ma forse quella lezione sarebbe stata – semplicemente – una sintesi di quelle che ha scritto. Forse avrebbe fatto comprendere che la semplicità è una condizione che contempera gli elementi della leggerezza, della rapidità, dell’esattezza, della visibilità, della molteplicità e della consistenza. Calvino non fece in tempo a scrivere la sesta delle sue Lezioni americane; si sa soltanto che avrebbe avuto per nucleo semantico la “Consistency” e per riferimento di base Bartleby lo scrivano di Melville. Ecco, forse dopo la “consistency” avrebbe scritto proprio una storia sulla semplicità.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 7 gennaio 2018]