Oltre gli algoritmi

di Paolo Maria Mariano

Spesso ci sono esposte analisi economiche e statistiche sull’andamento della percezione della politica, e chi le espone le rafforza dichiarando che esse emergono da algoritmi; perfino s’illustrano le previsioni che gli algoritmi forniscono. La ricezione di queste analisi condiziona talvolta le nostre scelte nel momento del voto o in altri aspetti del vivere civile. Non è del tutto inutile, quindi, cercare di chiarire alcuni aspetti della questione.

Un algoritmo è una struttura di calcolo. È la formalizzazione di una visione che si ha di una classe di fenomeni per quantificarne alcuni aspetti che sono ritenuti essenziali da chi propone l’algoritmo stesso. I limiti degli algoritmi sono nella precisione (l’errore dovuto all’approssimazione numerica, e che si può quantificare) ma soprattutto nella visione che li genera, cioè nelle ipotesi su cui si basano.

La questione riguarda, più in generale, anche i modelli matematici che costruiamo per descrivere il mondo che ci circonda. La loro valutazione non si basa solo sulla verifica della correttezza formale delle relazioni tra gli enti che compongono i modelli e sulla stima della difficoltà formale del discorso matematico che li esprime. È necessario considerare anche e soprattutto le premesse su cui si basano e poi la natura delle approssimazioni successive che portano a conclusioni particolari. Le ipotesi iniziali costruiscono un modello e soprattutto ne delimitano la validità; la sua adeguatezza (in questo senso il suo contenuto di verità) risiede nell’aderenza degli aspetti che si considerano peculiari nei fenomeni osservati agli enti matematici che si usano per rappresentarli.

Nel formulare ipotesi si fanno scelte. Talvolta esse sono indirizzate dagli esperimenti. Per progettare esperimenti, però, bisogna avere una qualche visione teorica, per quanto imprecisa, perfino ingenua, di quello che si vuole osservare. Più spesso i risultati sperimentali lasciano aperte differenti possibilità d’interpretazione teorica. Quando ciò accade, la scelta tra opzioni in un certo qual modo equivalenti è indirizzata da qualcosa che potremmo chiamare senso estetico e che altrimenti non saprei definire se non vagamente come un’istintiva tendenza all’economicità di concetti e all’armonia, cui contribuiscono la cultura personale del ricercatore, la propria indipendenza, la sensibilità, le idiosincrasie, le insicurezze, insomma … il fattore umano. Gli indirizzi suggeriti da questo senso estetico (per così dire) sono spesso terribilmente efficaci nell’allontanare la nebbia (Pierre Hadot avrebbe detto “il velo di Iside”) così come efficace è la matematica nel descrivere gli affari della natura. E non si tratta solo di algoritmi. La matematica non è solo una questione di calcolo, infatti: è articolazione di strutture astratte, un linguaggio peculiare perché permette di quantificare e qualificare senza ricorrere a elementi esterni alla matematica stessa. Ad esempio, di un qualche sistema di equazioni si può calcolare in maniera esatta la soluzione (e qui si quantifica) ma di qualche altro si può dire solo che una soluzione esiste e che ha certe proprietà, forse anche che è unica (e quindi ci si limita a qualificare), ma senza essere capaci di calcolarla se non talvolta solo in forma approssimata.

La matematica è la formalizzazione della nostra tendenza istintiva a organizzare le percezioni. È questo l’aspetto che determina la sua efficacia nel rappresentare classi di fenomeni o perfino di costruire una visione complessiva dell’universo.

Ciò che descriviamo non è il mondo in sé, ma l’immagine che ci dà la nostra percezione (media) del mondo. Quest’immagine è in noi, ed è dovuta alla nostra natura, cioè al modo che abbiamo di registrare gli eventi, ma è proprio da quella registrazione e dal desiderio istintivo che abbiamo di organizzarla, ripeto, che emerge la matematica come struttura libera da contingenza, semmai a essa legata solo per le ragioni dell’ispirazione iniziale e delle applicazioni successive.

Non sempre i risultati sono spettacolari. Non sempre stimolano la fantasia. Non è semplice comunicarli: la comprensione piena della loro natura richiede linguaggio comune tra chi si esprime e chi ascolta, e ciò non è neanche ricorrente tra gli addetti ai lavori. In assenza di un substrato critico nell’interlocutore, vi può essere la tentazione (e spesso ad essa si indulge) all’enfatizzazione, perfino alla mitizzazione, per ragioni psicologiche e sociali, per così dire, piuttosto che una chiara espressione dei limiti in cui quei risultati valgono. Ne guadagna l’affermazione personale di chi contribuisce alla mitizzazione. Di certo, però, chiunque lo faccia non riconosce – e dovrebbe – che il pensiero razionale è un processo critico costruttivo che riflette anche su se stesso, sulle proprie espressioni; anzi, l’enfatizzazione tradisce proprio quel pensiero razionale in favore della demagogia. In aggiunta, la veglia della ragione non impone il sonno al sentimento e all’intuizione, altrimenti non avrei potuto riferirmi al senso estetico in precedenza. Semmai questi aspetti devono contribuire al discorso critico che si sviluppa nel tentativo d’interpretare il mondo e con esso rapportarsi, sia scrivendo formule sulla lavagna, sia facendo sgorgare i versi di una poesia, sia narrando la favola di un luogo della terra, sia creando le basi di una società più giusta, almeno quella che per qualche motivo possiamo credere sia tale.

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