di Guglielmo Forges Davanzati
Nell’ultimo Rapporto ISTAT, si legge che “quattro giovani occupati su dieci hanno trovato lavoro con la segnalazione di parenti, amici o conoscenti. Tra i laureati crescono di molto le possibilità di trovare lavoro attraverso altri canali”. Il mercato del lavoro italiano, ristrutturato negli anni della crisi, è sempre più caratterizzato dalla pervasività delle reti di network e, dunque, da mobilità sociale ridotta. I giovani provenienti da famiglie con redditi alti ed elevato titolo di studio hanno altissime probabilità di ottenere un posto di lavoro attraverso conoscenze familiari e accedono più facilmente a sedi universitarie considerate prestigiose (ma non sempre oggettivamente tali), quasi esclusivamente localizzate al Nord. I giovani provenienti da famiglie con redditi bassi e basso titolo di studio sono destinati a essere collocati in segmenti marginali del mercato del lavoro, con bassi salari e sempre più spesso in condizioni di disoccupazione.
L’evidenza empirica disponibile segnala inequivocabilmente che le politiche messe in atto negli ultimi decenni, e con significativa accelerazione nella fase della crisi, hanno clamorosamente fallito. In particolare, la moderazione salariale – piuttosto che generare crescita economica attraverso l’aumento delle esportazioni – ha avuto il duplice negativo effetto di comprimere la domanda interna (e per conseguenza accrescere il tasso di disoccupazione) e di accentuare le diseguaglianze distributive, con connessa riduzione della mobilità sociale.
E si è rivelata fallimentare anche l’illusione della flexsecurity (uno dei pilastri sui quali – in linea puramente teorica – reggono le raccomandazioni della Commissione Europea), almeno in Italia e ancor più nel Mezzogiorno. La motivazione è semplice: la flexsecurity – intesa come politica che riesca a coniugare flessibilità del lavoro e sua sicurezza, attraverso una rete di ammortizzatori sociali – non è praticabile in una condizione di risorse rese artificialmente scarse dalle politiche di austerità che ostinatamente si continuano a perseguire. E che l’Italia persegue con intensità ben maggiore rispetto alla media dei Paesi dell’Eurozona. Non a caso l’Italia è, rispetto alla media europea (e ovviamente ancor più rispetto ai Paesi scandinavi), il Paese nel quale gli ammortizzatori sociali sono meno generosi e di minor durata. In più, l’implementazione di misure di flexsecurity incontra forti resistenze politiche, avallate dalle teorie economiche dominanti. In particolare, si argomenta che:
1) l’erogazione di ammortizzatori sociali scoraggia la ricerca di lavoro. E’ una tesi molto discutibile per le seguenti ragioni. Innanzitutto, sul piano normativo, anche nei Paesi (p.e. la Scandinavia) che garantiscono maggiori protezioni contro la disoccupazione, gli indennizzi sono ovviamente provvisori e ritirati nel caso in cui non si accettino offerte di lavoro nel periodo nel quale se ne beneficia. In secondo luogo, non si tiene conto del fatto che il lavoro non è solo qualcosa che gli individui, in media, tendono a evitare se possono farlo, ma è anche (e almeno parzialmente) fonte di gratificazione. Ciò, si badi, anche per quelle tipologie di lavoro che possono apparire in prima istanza come puramente ‘usuranti’: sarebbe difficile spiegare diversamente per quale ragione normalmente i lavoratori tendono a opporsi al licenziamento anche quando viene loro garantito un sussidio.
2) L’erogazione di ammortizzatori sociali accresce il potere contrattuale dei lavoratori, dunque i salari e, per effetto dell’aumento dei salari, riduce l’occupazione. Anche in questo caso, si dà per certo un effetto che certo non è per niente. Sul piano macroeconomico la questione si pone in termini radicalmente diversi. L’erogazione di ammortizzatori sociali (e il rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori) funziona come ‘stabilizzatore automatico’ del ciclo economico: quando si è in fase di crisi, la caduta della domanda è attenuata proprio dall’esistenza di consumi che non esisterebbero nel caso in cui questi indennizzi non venissero erogati. Il che dà luogo a una spirale potenzialmente virtuosa. L’aumento degli indennizzi tiene alti i consumi e, poiché le imprese scelgono il livello di occupazione sulla base della domanda attesa, ciò determina un aumento dell’occupazione e della produzione. A seguire, la riduzione del tasso di disoccupazione riduce automaticamente l’entità degli ammortizzatori, così che si riduce conseguentemente la spesa pubblica. E non è affatto scontato che l’aumento dei salari riduca le esportazioni e aumenti le importazioni. Le esportazioni italiane sono prevalentemente trainate dalla qualità (percepita o effettiva) delle nostre produzioni e anche nei settori nei quali conta la c.d. competitività di prezzo, c’è da considerare che alti salari tendono ad associarsi ad alta produttività del lavoro e dunque a bassi costi di produzione – per esempio perché alti salari stimolano le imprese a innovare. Le importazioni potrebbero non aumentare dal momento che i consumatori italiani sarebbero nelle condizioni di acquistare una quantità di beni prodotti in Italia (con prezzi più alti rispetto a quelli prodotti altrove: si pensi in primis a quelli prodotti in Cina) superiore rispetto al caso in cui i salari siano bassi
In più, l’erogazione di ammortizzatori sociali migliora la qualità della ricerca del lavoro. Individui privi di redditi non da lavoro sono sempre più spesso costretti ad accettare la prima offerta di posto di lavoro, che, soprattutto nel Mezzogiorno, è spesso irregolare o – nella migliore delle ipotesi – erogata in condizioni di sottoccupazione intellettuale; contribuisce alla coesione sociale, dal momento che migliora il tenore di vita di individui precedentemente percettori di redditi bassissimi – anche se lavoratori (i c.d. working poors) – molto spesso al di sotto di una soglia socialmente considerata dignitosa; può agire come strumento di crescita non solo della domanda interna ma anche della produttività del lavoro, se finalizzato a contrastare le migrazioni giovanili e a promuovere l’inclusione nel mercato del lavoro di individui giovani con elevato potenziale produttivo.
All’esplosione della povertà, soprattutto nel Mezzogiorno, non si può rispondere soltanto attraverso le azioni meritorie delle associazioni di volontariato, né con interventi meramente assistenziali, per loro natura peraltro congiunturali. Un più incisivo intervento dello Stato si rende assolutamente necessario, anche sotto forma di maggiore protezione dei lavoratori e dei disoccupati, superando il dogma che vuole che tutto ciò che è pubblico è per sua natura inefficiente. Il prezzo dell’inazione è altissimo: incrementi di disoccupazione, calo dei salari, incremento delle diseguaglianze (anche attraverso un grado di immobilità sociale che rinvia all’Italia degli anni Cinquanta) in un mix che molto facilmente lascia spazio ai rinati movimenti politici xenofobi e neo-fascisti.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 22 dicembre 2017]