di Gianluca Virgilio
L’articolo presenta un reportage sull’Albania dei nostri giorni, ridiventata di nuovo vicina all’occidente dopo anni di forzata lontananza. Una breve vacanza estiva è l’occasione non solo per visitare il Paese delle Aquile, ma anche per riascoltare il racconto dei viaggiatori che nell’ultimo secolo hanno visitato questa terra e sono stati testimoni di cambiamenti epocali. Sul loro racconto si innesta il presente reportage, come prova ulteriore di un rapporto mai interrotto tra le due sponde dell’Adriatico.
“L’Adriatico potremmo quindi considerarlo come un gran lago diretto da N.O. a S. E. parallelamente all’asse delle due catene orografiche che lo fiancheggiano, con un canale di efflusso al S.E. fra Otranto ed Aulona [Valona]. Le sponde di questo canale si sprofondano nel mare con pareti quasi verticali a poca distanza dalle coste. Sembra una enorme trincea tagliata dalla natura per dare sfogo alle acque dell’Adriatico nel gran bacino del Mediterraneo.”
Cosimo De Giorgi, Puglia ed Albania, 1886, p. 10.
Da molti anni desideravo visitare l’Albania, che dista dal luogo in cui abito, Galatina, in provincia di Lecce, meno di cento chilometri. La vicinanza geografica me lo avrebbe consentito, se le vicende geopolitiche degli ultimi settant’anni non avessero reso lontano e quasi estraneo a noi il Paese delle Aquile; da quando, dopo il 1945, i rapporti con l’Italia cessarono quasi del tutto a seguito della guerra di liberazione degli albanesi dal nazi-fascismo e dall’occupazione italiana. Sono accadute tante cose in questo intervallo, ma a noi l’Albania sembrava sempre irraggiungibile e inaccessibile, piena di bunker e di uomini ostili; fino a quando ci siamo accorti di essere fin troppo vicini a questo travagliato paese, i cui abitanti da tempo ci osservavano anche loro col desiderio vivo di conoscerci. L’occasione è venuta a seguito della grave crisi umanitaria del 1991, quando “lo sbarco degli albanesi ha messo per la prima volta e repentinamente molti italiani nella condizione di vedere il contorno geografico del proprio confine. Dal 1945 l’Italia del Sud ha avuto a Est il vuoto: come se da quella parte (Albania, Bosnia, Montenegro, Serbia, Romania, Bulgaria) non ci fosse una sponda opposta ma un territorio cancellato, senza facce di gente comune, senza tratti fisiognomici da cui distinguersi o familiarizzare.” (Colafato, 1991, p. 1075). Da quel momento ci siamo sentiti di nuovo vicini ad un popolo dal quale la storia ci aveva inesorabilmente allontanato.
Credo sia stata questa vicinanza-lontananza a suscitare in me il desiderio di visitare una terra, le cui montagne, nelle belle giornate di limpida tramontana, soprattutto all’alba, sono ben visibili dalla costa adriatica del Salento. Cosimo De Giorgi, che ne fece più volte esperienza, ne parlò in una conferenza dal titolo Puglia ed Albania, tenuta a Firenze il giorno 11 settembre 1885 nell’Aula magna dell’Istituto di Studi superiori, in occasione del III Congresso dell’Associazione Meteorica Italiana: “Lasciamo per ora un momento l’Italia e volgiamo i nostri occhi alla sponda opposta dell’Adriatico. Nel tratto compreso tra Otranto e Leuca, nelle serene giornate di primavera e di estate lo spettacolo è veramente incantevole. Io l’ho goduto più volte dalla marina di Tricase all’uscita del sole; e tenterò qui di abbozzarvelo (…). Il sole nasce dietro una delle insenature del monte Elias (m. 1502 sul mare) e ne colora in roseo le cuspidi biancheggianti, di giallo arancio i contrafforti che si tuffano nell’Adriatico e di azzurro cenerognolo le montagne più lontane.
Lo spettacolo dura pochi minuti. Il re dell’universo sale maestosamente dietro quelle montagne preceduto da una raggiera fiammeggiante, forma l’ultima frangia dorata della curva dei monti e poi si affaccia, pieno di luce, di calore e di energia, come un conquistatore nell’apogeo della sua gloria. È la prima ora della festa! L’Adriatico fino allora bruno, tetro, malinconico si trasforma per incanto in un gran lago di fuoco, e bacia la costiera italiana imbiancandola con orlicci di spuma. Le colline pugliesi si colorano in roseo; ma le tinte su quella magica tavolozza di Mamma Natura mutano ad ogni istante. L’artista è il Sole!” (De Giorgi, 1886, p. 9). Forse lo scienziato leccese, quando pronunciava queste parole, non aveva visitato di persona l’Albania, come si deduce ex silentio dalla conferenza citata, ma è certo che il suo sguardo vi si era spesso rivolto, non solo all’alba, ma anche in piena notte. Ecco che cosa egli vedeva di notte dall’altra parte dell’Adriatico: “Promontorio Glossa o Capo Linguetta segna il punto più occidentale dell’Albania verso l’Italia, come la punta della Palascìa, al Sud di Otranto, segna il punto più orientale d’Italia verso l’Epiro. Fra un capo e l’altro vi son appena 70 chilometri di distanza e di notte non è infrequente vedere dalla costa idruntina i fuochi che nell’estate accendono sulle balze dei monti della Chimera i pastori albanesi.” (De Giorgi, 1886, p. 10). Pertanto, si giustifica pienamente l’entusiasmo del De Giorgi per la recente posizione del “cordone telegrafico sottomarino” che finalmente univa le due coste dell’Adriatico: “Il pensiero che oggi vola da Otranto ad Aulona [Valona] nel cordone telegrafico sottomarino, fa vibrare all’unisono il cuore delle due regioni sorelle, che si guardano sempre e non si toccano mai!” (De Giorgi, 1886, p. 19).
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Così, la scorsa estate, approfittando delle vacanze, io e la mia famiglia abbiamo deciso di imbarcarci a Brindisi e di passare dall’altra parte dell’Adriatico.
Non ci è stato facile raggiungere l’imbarco per la pessima segnaletica e la scarsa illuminazione nelle strade che conducono al porto salentino. Alla fine, eccoci in coda sul molo. Il traghetto avrebbe dovuto partire alle 22:00, ma la sera del 1° agosto c’è la folla dei turisti e degli emigranti che rientrano a casa per le ferie, sicché riuscire a guadagnare il traghetto con la nostra auto ci è costato un paio d’ore d’attesa.
Il St. Damian – questo il nome del traghetto, classe 1972 – fa la spola tra Brindisi e Valona col suo personale albanese. Batte la bandiera di Panama. Ogni volta che va e viene, nella sua larga pancia inghiotte due piani di auto, camper, autobus e camion, e ne ha due di cabine e altri servizi per i passeggeri, sicché somiglia molto a un palazzo di quattro piani gremito di gente. Ci attardiamo sul ponte della nave per assistere alle lunghissime manovre di imbarco. Accanto a me c’è un calzaturiere di Ruffano (Lecce), col quale attacco discorso. Lavora in Albania da 25 anni e non vede l’ora di andare in pensione. Dice che gli albanesi non hanno molta voglia di lavorare e preferiscono ubriacarsi; mandano le donne al lavoro e loro se ne stanno in casa a far niente. Aggiunge che ci vorranno dieci anni prima che l’Albania diventi un paese come tutti gli altri. Mi chiede se vado sulle spiagge di Saranda, dove si sta bene e si paga poco. “No”, gli rispondo, “vado a Tirana per vedere com’è questa città”. E lui annuisce, ma sembra un po’ contrariato di non trovare una sponda ai suoi numerosi stereotipi. Poi va a dormire. Noi lo seguiamo poco dopo, senza assistere al momento della partenza, come avremmo voluto.
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Il giorno dopo dal ponte del St. Damian la baia di Valona ci appare in tutta la sua ampiezza, illuminata dal sole del mattino. Dall’imboccatura del porto vediamo alti palazzi che formano il profilo della costa ed oltre, per largo tratto, nell’entroterra: niente vegetazione, ma solo opere cementizie che sembrano aver occupato ogni spazio. Ripenso alla descrizione che della baia di Valona nel luglio del 1901 fece Ugo Ojetti, giornalista del “Corriere della Sera”: “… Vallona [Valona], nascosta negli olivi dentro un seno fra due colline, con qualche minareto bianco emergente dal verde argento”. Lo scrittore vi era giunto a bordo di un piroscafo austriaco, da dove, tutto preso da preoccupazioni di carattere militare, aveva ammirato la posizione inespugnabile del golfo conteso tra Impero austro-ungarico, Impero Ottomano e Regno d’Italia. Nel suo libro, Albania, ci offre una visione speculare rispetto a quella del De Giorgi, che guardava ad est dagli scogli di Tricase. Ecco la costa salentina vista invece dal golfo di Valona: “Chi non ha veduto il golfo di Vallona, non può capire che palpito soffochi ogni italiano a pensarlo per un solo giorno nelle mani di un nemico. La costa nostra è, al di là di questo braccio di mare largo quaranta miglia soltanto, visibile a occhio nudo nelle mattine chiare, con la punta del Sapone e la punta della Contessa, bassa, indifesa, anzi indifendibile, fin sopra alle colline nane che da Zollino e da Lecce scemano verso Brindisi. E fra pochi anni non vi sarà nave da guerra che non percorra quaranta miglia in una o due ore.” (U. Ojetti, Albania, p. 93). Purtroppo, se si pensa agli anni tragici che dovevano seguire, fu facile profeta!
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A Valona lo sbarco è lungo e difficoltoso a causa dell’affollamento e dei controlli. La città ci ha dato la brutta impressione d’un luogo dove la speculazione edilizia abbia imperversato incontrastata per lunghi anni: i palazzoni, che avevamo visto dal traghetto, si affacciano su larghe strade dove la circolazione di auto e pedoni avviene in modo disordinato e rozzo. I cementificatori hanno annullato qualsiasi traccia di architetture del passato e delle antiche colture. La Moschea Muradie col suo minareto rimane in piedi, superstite, tra il traffico cittadino. Molta gente per strada, uomini e donne. Ai tavolini dei bar siedono uomini giovani, mentre i vecchi si accontentano dei sedili all’ombra degli alberi. Se non fosse per qualche statua commemorativa, dove si ripete la scritta Hero i Popullit, e per il monumentale omaggio agli eroi del 1912, l’anno della cacciata degli ottomani, Valona sarebbe una città senza storia. Onnipresente, su alti pennoni, la bandiera nazionale: l’aquila bicipite nera in campo rosso.
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Da Valona siamo passati a Berat, percorrendo una strada disastrata, come tutto il paesaggio attraversato: nulla di compiuto, di definito, di curato; tutto, al contrario, è incompiuto, lasciato a mezzo, trascurato. Sul ciglio della strada, ecco un pullman tra la vegetazione, arrugginito e sporco; più avanti, lo scheletro nero d’un edificio coi pilastri in cemento, abbandonato; e poi erbacce che invadono la strada dissestata, case sbrecciate, non intonacate, campagne bruciate dal sole e coltivate solo a brevi tratti. Gli abitanti sono concentrati per lo più nelle città, sicché, se le campagne non sono coltivate – ci chiediamo -, da dove proviene il cibo dei cittadini? Misteri della globalizzazione, che autorizzano il consigliere dell’ex primo ministro Fatos Nano, Virgjil Muci (in De Vitis, 2006, p. 30) ad affermare: “L’Albania sembra un po’ l’Italia all’inizio degli anni Sessanta: la dolce vita, belle macchine, belle ragazze, soldi da spendere. Qualche volta mi chiedo … chi lavora in questo paese? Che cosa produciamo, come facciamo a campare?”. In realtà di misterioso c’è ben poco, dal momento che l’economia albanese è in espansione, “ringalluzzita da un boom di investitori stranieri, che scelgono l’Albania perché pagano solo il 15% di tasse e danno 400 euro ai lavoratori, sia da un turismo in esplosione…” (Riva, 2017, p. 27); e così, mi viene il dubbio che, pur desiderando da tempo di visitare l’Albania, io e la mia famiglia non siamo finiti dentro il flusso turistico indotto, senza accorgercene, dalla pubblicità più o meno occulta di qualche agenzia turistica…
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Berat ha le caratteristiche case greco-ottomane coi tetti di tegole spioventi, disposte sul fianco della collina, molto simili a quelle di certi paesini arroccati sull’Appennino meridionale. A Indro Montanelli, che visitò il paese nei primi mesi del 1939, Berat sembrò “un presepe bianco”, “una città di cartone, come potrebbe costruirla un Walt Disney che avesse sostituito la geometria alla poesia. Le case, tutte bianche con le persiane verdi (l’influsso greco incomincia), sorgono una sull’altra, a gara a chi arriva prima sul vertice di un’adusta roccia che la corrente gagliarda dell’Osum ha fessa in due.” (Montanelli, 1939, p. 44). Da una parte la città vecchia, dall’altra quella nuova. Sulla strada alberata che invita al passeggio, una sequela di bar coi tavolini all’aperto ai quali siedono i soliti vitelloni e pochissimi turisti. L’Osum va via silenzioso nel suo alveo, ridotto a un rigagnolo per la siccità, pieno di bottiglie di plastica.
Per il gran caldo, abbiamo ripreso l’auto alla volta di Tirana. Lungo il percorso, decine e decine di stazioni di servizio, ognuna diversa per compagnia petrolifera e nazionalità: saudite, turche, bulgare, russe, tedesche, ecc., del tutto superflue rispetto al traffico automobilistico assai ridotto; e poi un gran numero di officine di gommista per riparare i danni causati agli pneumatici dalle numerosissime buche lungo le strade; e autolavaggi ogni due chilometri, per lavare la Mercedes, vecchia o nuova che sia, non importa, che qui sembra essere l’auto nazionale (e se non è una Mercedes è senz’altro un qualche SUV). Nessuna traccia dei numerosi campi coltivati a marijuana, di cui si legge nelle cronache e nei reportage giornalistici, che presentano l’Albania come “la serra europea della marijuana” (Galli, 2016, p. 26). È chiaro che i coltivatori non sono così ingenui da coltivare lungo l’autostrada…
Il paesaggio è piuttosto arido per via della siccità e, come ho detto, di una certa trascuratezza, e non mi riesce di vederlo con gli occhi di Tommaso Fiore, arrivato in Albania nell’autunno del 1959 con lo scopo di constatare i progressi di uno stato socialista; incapace tuttavia di nascondere una certa nostalgia per l’Albania perduta e sempre tentato di assimilarla all’Italia: “Quando poi avremmo incontrato nell’interno del paese ulivi secolari e contorti come nel Mezzogiorno, nonché fichi e sorbi e meli e cotogni e melograni e aranci e limoni, l’illusione sarà perfetta: l’Italia è questa e l’Albania appare come un’appendice dell’Italia” (Fiore, 1960, pp. 13-14). Non c’è dubbio che la nostalgia di Fiore sia ben motivata, se solo si considerino gli strettissimi rapporti tra Italia e Albania fino a quindici anni prima che lo scrittore visitasse questo Paese, come si evincono dalla ricerca curata da Silvia Trani sui rapporti tra Albania e Italia tra il 1939 e il 1945 (Trani, 2007), gli anni dell’occupazione italiana.
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Chi ci ha lasciato una testimonianza del tempo immediatamente precedente lo sbarco delle truppe italiane in Albania (7 aprile 1939), è il giornalista Indro Montanelli che arriva a Durazzo il 15 dicembre 1938. Per pochi giorni non vede lo sbarco degli italiani, ma ha modo di visitare l’Albania in lungo e in largo, da nord a sud, dalla montagna alla pianura al mare. Il suo è lo sguardo paternalistico e amichevole del colonizzatore, del visitatore in avanscoperta di una terra che sarà presto occupata manu militari, e diventerà una provincia dell’Impero. È andato in Albania, scrive nella Premessa del suo Albania una e mille, con data Maggio 1939-XVIII, “per studiarne le condizioni” ed ora spera che il libro torni utile agli “Italiani, perché essi si sono ormai assunto, verso l’Albania, un grave còmpito. Questo còmpito – ne siano certi i miei amici albanesi – l’Italia di Mussolini lo assolverà. Lo assolverà in pieno.” (Montanelli, 1939, p. 1).
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Il nostro appartamento a Tirana è in Rruga Mihal Duri 35. Lo abbiamo affittato per quattro notti. Il padrone di casa, un tipo corpulento e rubicondo, ci accoglie con un sorriso quando comprende che siamo italiani. Esclama: “Italia, Berlusconi, Milan!”, come se i tre termini fossero equivalenti. Gli dispiace che la squadra del Milan sia stata comprata dai cinesi. Si rivolge a me chiamandomi “fratello” e a mia moglie Ornella chiamandola “sorella”. Dice di essere stato alcuni anni in Italia dove ha imparato la lingua.
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A sera, siamo nella nuovissima Piazza Scanderberg, inaugurata qualche mese fa (giugno 2017), sebbene alle spalle della statua equestre dedicata a Scanderbeg i lavori non siano ancora terminati. La scenografica piazza di Tirana è chiusa da edifici monumentali di varia epoca e stile diverso; le fanno da contorno giochi d’acqua e di luce destinati a stupire il visitatore. È il salotto buono della città, su cui convergono le principali arterie trafficatissime; un salotto molto vasto, attorniato da alberi giovani tenuti in piedi coi tiranti. Vi si affaccia la Moschea Ethem Bey col suo minareto. Un po’ più in là, sorge la Chiesa ortodossa, illuminata come se fosse un night club, che sembra voler sedurre più che invitare alla preghiera: dall’una e dall’altra giungono rispettivamente il canto del muezzin e il richiamo delle campane, in tempi diversi, il che fa pensare che qui le due religioni si siano messe d’accordo per non sovrapporre voci e suoni.
Camminando per le strade della città, ci sembra più che giustificata l’impressione di Gloria Riva: “Tirana è una ragazza di vent’anni che per imitare le sorelle maggiori – le capitali europee – esagera col trucco, solo per farsi guardare.” (Riva, 2017, p. 27). Ottant’anni fa circa Tirana aveva fatto un’impressione molto simile a Montanelli, reduce da una visita all’Albania del nord, la Montagna: “Uomini, tanti uomini, troppi uomini e troppo piccini, in confronto al solitario gigante della Montagna. E tutti questi uomini sono al lavoro, circolano, trafficano, parlano, sbaraccano la città – il cui orientalismo è in completa liquidazione – per farla più bella. La larga sua piazza, i suoi boulevards, i suoi palazzoni color d’ocra e di mattone, quasi m’offesero dopo il soggiorno provinciale, la vita vissuta tra rocce e acquitrini. Tirana mi parve una città esagerata e – i miei amici albanesi mi perdonino – tale mi pare ancora. Esagerata, intendiamoci, solo in senso relativo. Messasi sulla via di diventare una capitale occidentale, deve ancora impegnarsi a fondo per riuscirci – e quindi tutto ciò che vi si spende di energie e di denaro è pienamente giustificato.” (Montanelli, 1939, p. 31). E poi ancora: “Tirana è una città essenzialmente moderna, quasi inventata, come una città americana che avesse sostituito i grattacieli con dei minareti. Il suo tempo non ha che due misure: il presente e il futuro. Il passato non esiste. Il passato non è rappresentato che da un bazar sempre più costretto a contrarsi nello spazio, premuto com’è da un piano regolatore deciso a liquidare ogni residuo orientale.” (Montanelli, 1939, p. 33).
Dopo ottant’anni, Tirana vive ancora, dunque, il tempo della giovinezza, un tempo privo di passato, con quella “insolenza” – “questa insolente modernità tiranese” (Montanelli, 1939, p. 38) -, che “più che al bello, mira al grande” (Montanelli, 1939, p. 34), come possiamo constatare coi nostri occhi. Ci manca la testimonianza di Ojetti. Infatti, da quanto si deduce ex silentio dalle sue memorie, egli non visitò la città, che nel 1901 non era ancora assurta al rango di capitale, ma era solo una specie di luogo di villeggiatura, “un piccolo borgo di millecinquecento abitanti” (Castellan, 1996, p. 495), dunque di scarso interesse per il viaggiatore. Stando a quanto dice Montanelli, “ci abitavano quasi esclusivamente dei grossi signori, la plutocrazia del tempo, rappresentata da bey latifondisti che venivano a cercarvi frescura e salute d’estate, sfuggendo la malaria e la calura di Durazzo e delle piane circostanti. Era un po’ la Merano della zona.” (Montanelli, 1939, p. 34). Nel gennaio 1920, quando vi si trasferirono gli organi del potere, Tirana, divenuta capitale dell’Albania, era già divenuta un “piccolo borgo di 12.000 abitanti” (Castellan, 2012, p. 83).
Eccoci nei pressi di un’alta torre, ancora in costruzione, che presto dominerà per largo spazio tutto il centro di Tirana. Lungo alcune strade adiacenti, platani maestosi si innalzano verso il cielo con grandi ramificazioni, forse quelli che vide fiorenti Tommaso Fiore e che si salvarono dalla grande mattanza – bisognava far legna per l’inverno! – degli anni 1991-1995.
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Tommaso Fiore giunse a Tirana, come si è detto, nell’autunno del 1959, partendo da Bari e sbarcando a Durazzo. Fu un autunno piovoso, che tuttavia non gli tolse il piacere della scoperta. Ecco come egli vide Tirana dall’alto del suo albergo: “Dall’altezza di un grande albergo, il Dajti, si fa subito la scoperta che la nuova capitale, Tirana, è una città giardino. Non c’era nulla venti anni fa, di questa zona, e ora gli occhi sono attratti non solo dagli alberi sottostanti, ma anche dalla massa di quelli al di là del gran viale. Questo si allunga dinanzi a noi da un capo all’altro per più di un chilometro e si incentra in una gran piazza poligonale, verde anch’essa col nome significativo dell’antico eroe leggendario della nazione, Skanderbeg, e i palazzi d’intorno non sembrano volgari. Dunque la grande attrattiva è formata dagli olmi del Parco della gioventù, dirimpetto, così giovanilmente prosperi, densi di rami intrecciati decorativamente e pieni di mistero. Ai nostri piedi il giardino svaria di cupi abeti, di cipressi, pini tondeggianti, eucalipti, grandi salici e mimose, all’italiana; sotto di essi la greve pioggia cincischia ranuncoli, margherite, anemoni, calendole e astri; si salvano zinie e grandi dalie e rosse canne, né mancano rose fino a gennaio.” (Fiore, 1960, p. 13). La Tirana di Fiore, vista dall’alto dell’Hotel Dajti, è un locus amoenus, un giardino fiorito, pieno di alberi verdeggianti, un grande parco all’italiana, quell’Italia che aveva dovuto reimbarcarsi di corsa dopo l’8 settembre 1943. È una “città giardino” molto diversa dalla città spettrale che descriverà Tonino Perna nel 1996, riferendosi agli anni immediatamente seguenti la caduta del regime comunista di Enver Hoxha nel dicembre del 1990: “Tutte le strade principali e le piazze delle città albanesi offrivano uno spettacolo desolante: gli alberi tagliati di netto alla base (si calcola che almeno 150.000 alberi, in prevalenza pioppi, siano stati recisi in quel periodo per riscaldarsi) e la spazzatura depositata in ogni dove che si andava a mescolare con gli scarichi delle fogne a cielo aperto (persino nel centro della capitale).
L’inverno del 1991 è stato il più duro per il popolo albanese dal tempo della seconda guerra mondiale.” (Perna, 1996, p. 1195). Non credo che si siano salvati molti degli alberi che trent’anni prima Tommaso Fiore aveva visto nella città-giardino di Tirana, da cui una parte della gioventù era fuggita via per cercare un approdo in Italia (il 1991 è l’anno del grande esodo). Scrive Perna: “Nei primi anni della caduta del regime, chi arrivava a Tirana, proveniente da un paese industrializzato, aveva la sensazione di un improvviso «ritorno al passato». La capitale appariva come un grande villaggio rurale con i carretti e gli animali per le strade, tante biciclette e tantissima gente a piedi. La scarsa e timida illuminazione permetteva, anche nel centro della capitale, di osservare le stelle come da noi è possibile ormai farlo solo in montagna, così come l’aria che si respirava era leggera e pulita come nella nostra infanzia.
In meno di tre anni Tirana, e la gran parte delle città albanesi, si sono drasticamente trasformate: si è passati da meno di 10.000 auto, in tutto il paese, a oltre 200.000 circolanti (quasi tutte di seconda mano e per lo più rubate in Italia), le abitazioni sono costellate dalle grandi orecchie delle antenne paraboliche di fabbricazione giapponese e i negozi sono nuovi e pieni di ogni ben di Dio.” (Perna, 1996, p. 1198).
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Mentre le ragazze dormono, io e Ornella, poco dopo le otto del mattino, usciamo di casa e percorriamo la Rruga Mihal Duri, su cui si aprono cento botteghe improvvisate, ma che stanno lì da chissà quanti anni, dentro locali fatiscenti di una Tirana seminascosta, che si può vedere solo in vie secondarie come questa: case basse con tetti di tegole, residui della città ottomana già da molto tempo “sbaraccata e liquidata” (Montanelli, 1939, p. 31), piccoli giardini poco o nulla curati, utilizzati come depositi dimenticati di oggetti disusati, dove ancora persistono alcuni pergolati, qualche catapecchia su cui è montata una parabola satellitare; e lì nei pressi, l’albero del sambuco, spuntato tra le commessure del mattonato di un cortile, in un vicolo cieco, su un balcone abbandonato, onnipresente dove la mano dell’uomo si sia ritirata. In una rivendita sita in un piano seminterrato, compriamo un rustico ripieno di formaggio chiamato burek e un bottiglione di acqua da dieci litri (ci hanno sconsigliato di bere l’acqua dei rubinetti) e torniamo a casa. Al risveglio di Giulia e Sofia, verso le dieci del mattino, sotto un sole inclemente, tutti e quattro ci dirigiamo verso il centro cittadino.
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Alla luce del giorno, Piazza Scanderbeg ci appare come un enorme spiazzo convesso interamente mattonato, dal quale, qua e là, scaturiscono sorgenti d’acqua corrente verso invasi occultati ai bordi della piazza. Sembra più una trovata che il risultato del genio inventivo; vale solo per l’estate – e già ora il viandante cerca di scansare quest’acqua per non bagnarsi le scarpe –, d’inverno credo che il gelo la trasformi in un’insidia. Abbiamo ragionato sul significato di questa piazza, giacché ogni elemento urbanistico è il frutto di una visione del mondo. Che cosa significa una piazza così vasta, così aperta, dove non è possibile sedersi né c’è un sedile o un posto all’ombra, se non lungo il perimetro, dove le persone possono solo transitare, senza fermarsi, perché fermarsi sotto il sole e con l’acqua ai piedi sarebbe cosa insensata, e dunque tutti si affrettano a raggiungere un punto di questa larga circonferenza per andare nella direzione voluta? Che sia questo un non-luogo, un luogo neutro, come quelli di cui parla Marc Augé, verso il quale possono guardare tutti, la statua equestre di Scanderbeg, la Moschea, la Chiesa ortodossa, gli edifici fascisti e quelli comunisti, e poi la torre dell’Hotel Tirana e del Plaza, senza che nessuno possa fermarsi e occuparlo? Qui nessuno ha il diritto di far questo, può solo transitare oppure star fermo ai margini, seduto sugli scalini del Teatro o del Museo storico, a guardare la grande piazza, un deserto di mattoni rinfrescato qua e là dalle sorgenti di acqua riciclata, su cui di notte abbiamo visto riflesse le luci dei palazzi.
Giulia e Sofia dicono che nella piazza l’aria è irrespirabile perché sono poche le auto dotate di marmitta catalitica e il vento trasporta fin lì il gas di scarico dal brulicame delle strade tutt’intorno. Insomma, non ritroviamo l’aria “dolce” celebrata da Tommaso Fiore: “… dolce resta l’aria come da noi, più spesso irrorata”; né riusciamo ad avere la visione del Dajti, il cui profilo rimane nascosto dietro le numerose torri. Scriveva Fiore: “… il cielo si slarga a momenti verso i monti dove sull’orizzonte domina il Dajti con due linee rotonde. E da ogni parte l’occhio corre al suo mutevole colore, dalla livida lavagna al più tenero cilestrino.” (Fiore, 1960, p. 14). No, proprio non ci riesce di vedere tutto questo.
Un uomo ci si avvicina mentre siamo seduti sui gradini dell’Opera (Teatri Kombetar i Operas dhe Baletit). È molto gentile nel darci qualche indicazione sui luoghi che potremmo visitare. Parla in un discreto italiano, appreso, ci dice, seguendo le trasmissioni di Italia 1. Si offe di accompagnarci nel nostro tour, ma è una guida turistica autorizzata – ci mostra il cartellino – e allora noi decliniamo l’invito, perché non vogliamo fare nessun giro turistico, ma solo vedere la città coi nostri occhi, senza alcuna mediazione.
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Stremati dal caldo, entriamo nel nuovissimo grande Toptani Shopping Center. Dalle vetrate del sesto piano – zona ristorazione – vediamo gran parte del centro di Tirana, su tutto la grande moschea – qui tutto è, deve essere grande – in avanzato stato di costruzione. Dicono che siano i turchi di Erdogan a finanziare questa moschea, che sarà la prima di tutti i Balcani (Riva, 2017, p. 28). Operai vestiti di arancione sembrano piccoli piccoli dal nostro punto di osservazione. Ci fermiamo a pranzo per la frescura dell’aria condizionata e la vista sulla città. Come abbiamo fatto a non capirlo prima? È questo il vero centro della città, il centro commerciale: musei, torri, moschee e chiese, tutto giace ai suoi piedi. Qui tutti sono d’accordo tra loro, stretti nel vincolo degli affari e dello shopping.
All’uscita dal Centro commerciale, ci imbattiamo in una strada intitolata a George W. Bush. Che ci fa nel centro di Tirana, tra tante strade, tutte dai nomi albanesi, una strada intitolata al presidente americano? Pare che gli albanesi gli siano grati per una sua visita avvenuta nel 2009. Ornella mi fa notare che a Tirana gli anziani hanno come seconda lingua l’italiano, i giovani l’inglese.
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Per arrivare a Scutari da Tirana si devono percorrere all’incirca 90 km. Alla periferia di Tirana, nel pomeriggio inoltrato, ci troviamo nella coda disordinata, in entrambe le direzioni di marcia, del rientro dal lavoro. Avanzando a passo d’uomo, la strada sembra trasformata in un bazar: a destra e a sinistra è un susseguirsi di negozi e negozietti d’ogni tipo, ricavati in un garage, in un sottoscala, in una rimessa, in una cantina, ovunque ci sia spazio per contenere merci; e noi, con la sensazione di essere assediati da una miriade di persone che ti vuol vendere qualcosa o approfitta del transito a passo d’uomo delle auto per chiedere con insistenza l’elemosina, attraversiamo un’umanità povera e avida, che al visitatore non può che incutere timore. Ornella mi chiede di mettere la sicura agli sportelli.
Novanta chilometri per arrivare a Scutari sembrano poca cosa, ma diventano molti quando bisogna andare piano per studiare bene le mosse di automobilisti indisciplinati e di pedoni che attraversano la strada nei punti più impensati, lungo vie a percorrenza veloce, stando attenti anche a scansare ciclisti che pedalano in ogni direzione. E poi i lavori in corso sono dappertutto, con buche che si aprono quando meno te lo aspetti e devi essere lesto a evitarle se non vuoi finire da uno dei tanti gommisti che costeggiano la strada; e infine, ci sono i cani, pericolosissimi, perché, a differenza degli umani, attraversano senza neanche guardare.
Scutari, la seconda città dell’Albania per numero di abitanti (114.000), ci appare sporca e malandata. Ci giungiamo nel tardo pomeriggio, sempre aiutati dal Tom Tom, che supplisce ad una segnaletica stradale pressoché assente. L’amministrazione locale ha provveduto a restaurare la strada pedonale destinata al passeggio e alla sosta presso i numerosissimi bar e negozi di souvenir. Basta allontanarsi dalla strada pedonale che subito si hanno incontri inquietanti: lo scheletro annerito di un palazzone di sei piani, un palazzetto ottocentesco, un tempo certamente elegante, ora in totale stato d’abbandono, la facciata di un edificio pieno di decoro oltre la quale si intravvedono le erbacce cresciute sopra il tetto caduto, ecc. Tutto dà l’impressione del lavoro in corso, dell’opera incompleta. Solo la Moschea è nuova di zecca ed anche la vicinissima Chiesa ortodossa. Ornella in una sua foto è riuscita a riprendere la croce e il minareto insieme. Nessuna traccia dell’antico bazar di Scutari, di cui rimane la descrizione che ci ha lasciato Ugo Ojetti e che vale la pena di riportare almeno in parte: “Nel bazar si trova tutto. Tutta la montagna e la pianura a giorni e giorni di distanza viene qui a vendere e a comprare. Orefici e macellai, sarti e cavallai, antiquari e fruttivendoli, tabaccai e caffettieri, pescivendoli e armajoli, calzolai e pollajoli, mulattieri e profumieri, droghieri e fornai – ognuno non solo ha la sua botteguccia spalancata donde espone le sue mercanzie, ma ha anche il vicolo, la piazzetta, l’angiporto destinato alla sua speciale corporazione.
Così, sotto un gran gelso s’ammucchiano sedute, sdrajate, accosciate, inginocchiate cento donne che vendono uova e pollami, e il sole tra le fronde gioca sul bianco dei veli e delle ceste, sui metalli delle collane e delle cinture, sulle lane variegate dei cento costumi della Zadrima, della Mizdizia, d’ogni «bandiera» e d’ogni borgo dell’alta Montagna fino ai confini del Montenegro e del sangiaccato di Novibazar. Intorno a un pozzo non si vende che grano e granturco esposto a mucchi sopra le coperte bianche e rosse, o nei sacchi aperti a mostrar l’oro del bel raccolto; e gli uomini che hanno dovuto lasciar le armi nel posto militare all’ingresso della città vigilano i loro beni, contrattano senza offrire. In un chiassuolo, su per la china del monte che poi va alla Cittadella, donne della città espongono ricami vecchi e nuovi, sete, broccati, damaschi, costumi e lamine e fili d’oro che valgono cento lire turche, scampoli di mussolo impresso a colori che valgono poche piastre. Allo svolto un odore acuto di salmastro vi annunzia la pescheria; e tutti i pesci dell’Adriatico che le londre han portato su per la Bojana da Dulcigno e da Medua, meglio tutti i pesci del lago a carne dolce come quella del salmone o tenera come quella del carpio o farinosa come quella del luccio, sfavillano rosei azzurri verdastri camaleontici, dalle canestre stillanti d’acqua, sopra un letto di foglie di giunchi e di ninfée. Poco oltre, in un prato lungo il fiume è la fiera dei cavalli…” (Ojetti, 1902, pp. 116-117).
Il bazar di Scutari al tempo di Ojetti, dunque in epoca ottomana, era ancora una realtà viva e non semplicemente pittoresca come nell’anno 1939 in cui lo visitò Montanelli. “Naturalmente,” – scriveva in proposito il giornalista di Fucecchio – “questa città vecchia è la più interessante, la più scomoda e pittoresca, con il suo “quartiere di conciapelli”, con la sua “moschea del piombo”, col suo sonoro e multicolore bazar. L’orientalismo di questo sobborgo pare messo lì a bella posta per far meglio risaltare l’occidentalismo lustro e un po’ pretenzioso della città nuova, moderna di edifici e di strade, aerata da giardini ben curati. È dell’occidentalismo di questo quartiere che gli scutarini vanno fieri e non hanno torto. “Sapete – mi disse uno – tutti i forestieri sono concordi nel dire che la città vecchia li interessa di più; ma tutti sono anche concordi nel vivere in quella nuova. E non vi sembra che l’amore per il pittoresco sia sempre un po’ segno di disprezzo?”. Non osai dargli torto.” (Montanelli, 1939, p. 13).
Quanto a noi, non ci siamo neppure accorti del cosiddetto “pittoresco”, ma solo del “turistico”. Eravamo piuttosto stanchi per aver camminato a lungo, era già notte, e allora abbiamo fatto rientro a Tirana.
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Il pomeriggio seguente, abbiamo visto il lago di Tirana, un laghetto artificiale, che si raggiunge, partendo da Piazza Scanderbeg, dopo una lunga scarpinata. Il lungo viale Bul. Deshmoret e Kombit, che un tempo era intitolato a Mussolini, porta verso Piazza Italia, ora Sheshi Nene Tereza, Piazza Madre Teresa di Calcutta. I cambiamenti toponomastici rivelano la rimozione della storia e i nuovi orientamenti. Il viale è costeggiato da giardini (non pochi i busti e le statue di uomini importanti) che conservano qua e là vecchi bunker seminascosti tra la vegetazione, e da innumerevoli torri più o meno alte, dove hanno sede le banche e altri istituti d’affari. Piazza Italia è contornata dai palazzi del potere e sembra chiudere uno spazio vuoto, desertico, inospitale. Impensabile che gli uomini si fermino nel suo centro e discutano e contrattino e parlino fra loro. Queste piazze si possono solo attraversare velocemente oppure è bene tenersi ai margini, come in Piazza Scanderbeg. Le persone amano passeggiare più in là, oltre il bosco del Parku i Madh che si valica su una viottola in salita ben lastricata, riservata ai pedoni e ai ciclisti, senza distinzione di corsia. Si sale volentieri fino in cima perché alla fine del sentiero c’è la discesa e la ricompensa: un laghetto artificiale con tanto di diga con la quale si è sbarrato il corso di un torrente raccogliendone le acque nella vallata. Sulla diga passeggiano persone che sperano nel refrigerio dell’acqua. Mangiano noccioline e sgranocchiano pannocchie arrostite. Oltre la diga, più in basso, c’è il traffico bloccato di ogni sera.
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Dal balcone del nostro appartamento, tra gli alti palazzi, vedo poche vecchie case della Tirana scomparsa, che sopravvive a stento nei retrobottega delle vie principali; case coi tetti a tegola, ad un piano solo, al massimo due, quasi sempre fatiscenti; e appoggiate a queste vecchie case, le pergole di Tirana. Per avere una pergola basta possedere un piccolo giardino di pochi metri quadrati; di meno, basta avere una casa con un tetto e un metro quadrato di terra attiguo alla casa, entro cui impiantare la vite. Essa crescerà in quel poco di terra e darà ombra e frutto – d’agosto l’uva a Tirana è già matura –. La pergola di città è opera del contadino inurbato, che ha abbandonato la campagna e ha ricreato, dov’era possibile farlo, un pezzo della sua vita rurale. “Ancora oggi ci confrontiamo – afferma Virgjil Muci – con un fortissimo flusso migratorio dalle zone rurali verso Tirana, e queste persone portano con sé la propria civiltà, la propria cultura…”(in De Vitis, 2004, p. 28); la propria nostalgia, aggiungo. Le pergole che ho visto, alcune ben curate dietro gli alti palazzi, altrettante in malora, destinate a inselvatichire e a diventare sterili, mi sono apparse come la testimonianza d’un estremo tentativo di recupero d’un mondo abbandonato, per necessità, non per spirito d’avventura. Una pergola aveva invaso la strada e cresceva sui rami di un albero dell’arredo floreale pubblico.
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Abbiamo trascorso un pomeriggio a Durazzo. Per andare a Durazzo da Tirana (36 km) c’è un’autostrada, dove tutti corrono sulla corsia del sorpasso perché è quella in buone condizioni, essendo stata asfaltata di recente, mentre la prima corsia appare piuttosto consunta e può riservare la sorpresa di qualche buca. Durazzo è la città portuale che fronteggia Bari, dove nell’autunno del 1959 giunse Tommaso Fiore. Visitiamo la Moschea (Fatih Mosque) che domina la piazza, la Chiesa ortodossa, affacciata sulla Rruga Fan S. Noli; il bagno turco, nei pressi della zona portuale, non è visitabile; e poi i ruderi seminascosti dell’anfiteatro romano, uno dei più grandi dei Balcani, dove una coppia di neo-sposi si fa riprendere da un fotografo. Sorbiamo un buon gelato, sudiamo sette camicie per il caldo umido che viene dall’Adriatico, ci aggiriamo ancora un po’ tra i palazzi che la speculazione edilizia ha innalzato tutt’intorno a Piazza Liria, la modernissima piazza centrale della città, e poi torniamo a Tirana.
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La mattina, per uscire da Tirana e prendere l’autostrada in direzione di Elbasan abbiamo fatto tre giri della città seguendo il Tom Tom, che ci portava sempre dove la strada era interrotta da lavori in corso. Ho fermato la macchina in cerca di qualcuno che ci consigliasse. Non dimenticheremo il macellaio col coltello in mano che, compresa la nostra difficoltà, aveva lasciato il suo esercizio per darci indicazioni. Si spiegava bene nel suo albanese-italiano-inglese. Ma poi, siccome la strada era davvero intricata, allora quest’uomo corpulento ha dato ordine a un suo dipendente di scortarci col motorino fino all’uscita di Tirana, facendoci imboccare la strada giusta. Ed eccoci all’inseguimento del motociclista senza casco, che percorre tre chilometri davanti a noi, increduli di fronte a tanta gentilezza. Amici miei albanesi, come ringraziarvi? Se non fosse stato per voi, stavamo ancora lì a girare tutt’intorno su noi stessi nel labirinto della Tirana moderna.
Riferimenti bibliografici
Georges Castellan, Storia dei Balcani (XIV-XX secolo), Argo, Lecce 1996.
Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli albanesi, Argo, Lecce 2012.
Michele Colafato, Le onde albanesi e la riva italiana, “Il Mulino” 6/91 – Nov.-Dic. 1991.
Cosimo De Giorgi, Puglia ed Albania, Estratto dalla “Rassegna Nazionale”, anno VIII, Firenze 1886.
Loredana De Vitis, Welcome to Albània, Paesaggi e culture, Lecce 2006.
Tommaso Fiore, Sull’altra sponda, Lacaita, Manduria-Roma-Perugia 1960.
Andrea Galli, Albania. La serra della droga in Europa, “Corriere della Sera” del 17 novembre 2016, p. 26.
Indro Montanelli, Albania una e mille, Paravia, Torino 1939.
Ugo Ojetti, Albania, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, Torino 1902.
Tonino Perna, Così vicina, così lontana: economia e società albanese nell’era postcomunista, “Il Mulino” 6/96 – Nov.-Dic. 1996.
Gloria Riva, Turbo Albania, “D La Repubblica” del luglio 2017.
Silvia Trani, a cura di, L’Unione fra l’Albania e l’Italia. Censimento delle fonti (1939-1945) conservate negli archivi pubblici e privati di Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale per gli Archivi, Roma 2007.