Nel ventennale della morte di Donato Moro (Galatina, 1924-1997), ripubblichiamo l’intervista rilasciata a Salvatore Bello da Maria Marinaro Moro per “Il Campanile” del 9 Gennaio 2005, p. 3.
Sig.ra Maria, quale percezione conserva di Donato, della sua indole, come uomo e come uomo di cultura?
Donato amava le cose semplici: gli piaceva godersi, appena poteva, la tranquillità della sua casa, appartarsi nel suo studio e leggere i giornali e le tante riviste di letteratura e di storia a cui era abbonato, a studiare, a scrivere.
Gli piaceva occuparsi del suo giardino; amava gli animali, e di questo amore c’è traccia in molte sue poesie (“Muzzi Papuzzi”, il nostro primo gattino; “A spasso con Claus”, il cane d’una amica romana; “Più non vidi fratelli all’orizzonte”; “La mia vita vorrei”, e tante altre).
Era amante del mare: quando, d’estate, andavamo in villeggiatura a Santa Maria, usciva presto la mattina, quasi a buio, con la barca, per vedere dal mare il sorgere del sole; pescava pazientemente, per ore, con le sue lenze; a volte usciva la sera, con i pescatori, a calare le nasse e a tirar su i “conzi di fondo”. Anche queste sensazioni ed esperienze sono ben visibili nei suoi versi.
Godeva nell’ascoltare buona musica, soprattutto musica classica e jazz: spesso metteva un disco come sottofondo e, lasciandosi trasportare dall’ispirazione, componeva le sue poesie.
Queste erano le semplici cose che Donato prediligeva. Peccato che, travolto dai mille impegni delle sue giornate, solo raramente poteva goderne; e questo era il suo, e anche il mio, maggiore cruccio.
Le faceva leggere i suoi versi, le chiedeva di entrare nel segreto della sua ispirazione?
Donato era molto riservato per quel che riguardava la sua poesia. Scriveva chiuso nel suo studio, seduto alla sua scrivania piena di carte, che nessuno doveva toccare, tanto meno riordinare. Riprendeva i suoi versi più e più volte, in vari momenti della giornata, la mattina presto e la sera tardi, quando intorno c’era più silenzio. Cominciava da brevi appunti, presi nei momenti più disparati: durante un viaggio in treno, magari sul retro di un biglietto ferroviario; su un ritaglio di giornale, a commento di una notizia appena letta; sulla carta intestata di un albergo, mentre si trovava in giro per l’Italia per qualche ispezione. Da questi appunti, a poco a poco, prendeva corpo la composizione definitiva o quasi; allora me la leggeva, una volta, due volte, ascoltandone il ritmo, facendo ancora delle variazioni. Poi io dovevo battere il testo a macchina (lui scriveva solo a mano!), e c’erano altre correzioni sul dattiloscritto, e nuove battiture, e così via, tempi più o meno lunghi, finché non era del tutto soddisfatto del risultato ottenuto. Ma non era facile!
Ci sono dei versi che più le ravvivano il ricordo di lui?
Rileggo sempre con particolare emozione la poesia intitolata “La mia terra”, dalla raccolta “Segni Nostri”. Donato me la recitò durante una passeggiata, nel lontano 1948, a Pisa, dove ambedue studiavamo. Ci eravamo conosciuti da poco, io ascoltavo con rispetto e ammirazione il “normalista”, che stava preparando una dotta tesi sotto la guida dell’illustre prof. Luigi Russo, e non mi aspettavo di scoprire in lui anche il poeta. Lui ripeteva a memoria i suoi versi, quasi con pudore, e io capii che mi stava facendo un regalo particolare; e cominciai allora ad innamorarmi di quella Puglia che non conoscevo, e non sapevo ancora che sarebbe diventata anche la “mia terra”.
Le frequentazioni letterarie ed artistiche: in casa Moro ne avvenivano? E fuori?
Donato amava incontrarsi e conversare con gli amici più cari, ai quali riferiva dei suoi studi, leggeva le sue poesie, trattando gli argomenti che in quel momento più interessavano i suoi ospiti. Ne scaturivano discussioni, a volte anche animate, ma sempre improntate al rispetto delle opinioni altrui e alla reciproca stima.
Le persone che più spesso frequentavano la nostra casa erano Nicola De Donno, amico fin dai tempi della Normale (Donato curò la versione in lingua italiana della sua prima raccolta di poesie dialettali “Cronache e Parabbule”); il pittore Luigi Mariano, che inventò le sue xilopitture ispirandosi proprio alle liriche di Donato; il poeta Giovanni Francesco Romano e, soprattutto negli ultimi anni, il prof. Gino Pisanò.
Quando gli era possibile, compatibilmente con i suoi impegni di lavoro, che spesso lo costringevano lontano da Galatina, Donato partecipava a incontri organizzati dall’Università di Lecce o da altri enti culturali (come la Fondazione “Girolamo Comi” di Lucugnano) ed a Convegni di studio letterari e storici, nel Salento e fuori, ai quali era spesso invitato come relatore.
Un aspetto del profilo umano di Donato che, secondo lei, meglio lo caratterizzava.
Donato aveva il grande dono di mettere sempre a loro agio i suoi interlocutori, fossero uomini colti o persone semplici; sapeva trovare la parola giusta che rispondesse alle esigenze di ciascuno, e ciò accadeva con i suoi alunni, piccoli e grandi, con gli amici di partito e anche con gli avversari politici, con i colleghi insegnanti, presidi e ispettori. Con il suo calore umano, con la sua cordiale partecipazione ai problemi degli altri sapeva trasformare in amicizia qualsiasi rapporto; e io ancora adesso mi commuovo incontrando qualche persona, a me quasi sconosciuta, che mi parla di lui con affettuoso rimpianto. Qualche giorno fa un’insegnante di un liceo in cui, anni addietro, si cominciava a svolgere una sperimentazione seguita da Donato per incarico del Ministero, ricordava: “Gli incontri con l’ispettore Moro, anche quelli in cui si affrontavano argomenti tecnici un po’ aridi, davano a ciascuno di noi più di quello che eravamo andati a chiedere”.
Ci fu in Donato qualche censura, forzata o inconsapevole, col suo vissuto politico o anche culturale? Cosa di cui lui aveva a rammaricarsi, e lei stessa si rammarica?
Quando Donato decise di dedicare un periodo della sua vita alla politica attiva, sapeva che ciò avrebbe significato interrompere, o almeno rallentare il ritmo dei suoi studi, ma volle ugualmente affrontare il rischio. Egli, memore degli insegnamenti sulla dottrina sociale della Chiesa appresi nella Fuci, riteneva la politica come un impegno a “servire tutti coloro che hanno bisogno (e sono tanti!) del tuo appoggio, del tuo consiglio, o almeno del paziente ascolto delle loro pene” (sono parole sue). Anch’io ero piuttosto perplessa, perché sapevo che per lui lo studio era molto importante e gli avrebbe dato le maggiori soddisfazioni. Tuttavia volle affrontare con senso di responsabilità e con entusiasmo, anche questa esperienza, e voglio lasciare a lui stesso il commento di quello che ne aveva ricavato.
Il 18 ottobre 1964, in una lettera al segretario provinciale della Democrazia Cristiana, in cui gli comunicava che non intendeva più ripresentarsi come candidato al Consiglio Provinciale, egli scriveva: “…Per nove anni credo di aver servito il prossimo con abnegazione e con spirito di sacrificio… Oggi, che sto per toccare il limite dei quarant’anni, ho la ferma volontà di tornare agli studi, alla mia preminente e tuttora prepotente vocazione, cui non mi rivolgerò con l’atteggiamento malinconico di chi crede di aver perduto degli anni in sterili vagabondaggi, ma di chi si sente accresciuto di una vasta e salutare esperienza di uomini e cose, di chi insomma si sente più ricco e provveduto su un piano pratico e culturale”.
La Città, secondo Lei, può far tesoro della sua figura e della sua testimonianza di fede, d’impegno nella cultura e nella stessa politica?
Mi auguro che i galatinesi che l’hanno conosciuto e apprezzato non dimentichino quanto da lui fatto per la sua Città che tanto amava.
Donato moro è una rarità. Quando ci capita di leggere il suo nome si percepisce la gioia di un diamante tra le mani.
Mi ha fatto piacere leggere questa intervista. È stato un caso. Ho scoperto solo nel 2010 che Donato scriveva poesie. È stata la moglie Maria a comunicarmelo ed a farmi omaggio dei suoi volumi di poesie proprio nel 2010 quando la informai che gli organizzatori di un Bando Letterario di Lecce, su mia segnalazione, avevano deciso di donare una targa alla memoria di Donato Moro, poeta.
Ero in giuria e fui io a dare un passaggio, andata e ritorno, a Maria per farle consegnare il gradito pensiero degli organizzatori del Bando e presentare la figura di Donato Moro ai partecipanti alla premiazione ed al comitato organizzatore del premio.
Anche mia madre scriveva poesie e fin da piccolo mi aveva cresciuto a poco pane e tanta poesia (e la poesia era utilizzata anche per far fronte alle privazioni della guerra e farmi dimenticare il poco pasto che poteva fornirmi durante quei drammatici mesi dopo la fine della guerra del settembre 1943, con mio padre disperso sul fronte di Albania o Montenegro dopo essere scappato dal campo di prigionia dei tedeschi).
Mia madre aveva sposato suo cugino e l’avere appreso che un altro parente si era dedicato alla poesia mi ha fatto molto piacere anche perché questa coincidenza confermava che i geni poetici di cui ero anch’io fornito potevano essere stati ereditati in par misura sia da parte materna che da parte paterna, visto che mia nonna era la sorella della mamma di Donato Moro.
Le mie poesie sono in grandissima parte sulla pagina del portale http://www.poetare.it/santoro/santoro5.html (e pagine precedenti) che da anni mi ospita.
Il Webmaster di questo portale è il Prof. Lorenzo De Ninis di Lignano Sabbiadoro (Udine) che è componente di rilievo della Giuria del Bando Letterario Europeo Città di Montieri (GR), che organizzo in questa città e lo è stato anche per le prime tre edizioni del Bando Letterario Internazionale di Poesia, Narrativa e Saggistica Veretum che ho gestito a Patù nel basso Salento.
Dott. Salvatore Armando Santoro
Grazie per questa testimonianza.
G.V