di Guglielmo Forges Davanzati
Gli episodi recenti di attacco al paesaggio e alla terra nelle aree del Mezzogiorno, e del Salento in particolare (assumendo il caso TAP come emblematico), inducono a riflettere sul ruolo che l’economia meridionale riveste nella fase di ristrutturazione del capitalismo italiano (e su scala mondiale) nella crisi. In estrema sintesi, il capitalismo contemporaneo è caratterizzato dall’intensificarsi di fenomeni di finanziarizzazione (ovvero di acquisizione di profitti attraverso attività puramente speculative, in un’ottica di brevissimo periodo – il c.d. short-termism) e di globalizzazione (ovvero di accelerazione dei movimenti internazionali di capitale). L’aumento delle misure protezionistiche messe in campo su scala globale negli ultimi anni mostra che i processi di globalizzazione stanno diventando meno rilevanti rispetto agli scorsi decenni. Fenomeno che da alcuni osservatori viene imputato alla reazione USA all’aumento delle esportazioni, in particolare, tedesche e cinesi, in una tipica dinamica di conflitti intercapitalistici su scala globale.
Queste dinamiche non interessano soltanto la sfera economica. Hanno a che vedere soprattutto con la redistribuzione del potere politico fra gruppi sociali (in particolare l’aumento del potere politico dei percettori di rendite finanziarie) e, poiché non si manifestano in modo uniforme nei diversi territori, anche con una riconfigurazione del potere politico dei territori stessi.
In termini generali, le politiche di redistribuzione del reddito non sono neutrali rispetto al potere politico dei soggetti in campo – in questo caso le regioni. Ed è ciò che sta accadendo nel Sud o meglio nelle nuove configurazioni che ha assunto il rapporto fra Nord e Sud del Paese. Le maggiori dosi di austerità imposte al Mezzogiorno (area popolata, in larga misura, da imprese di piccole dimensioni molto dipendenti dal settore bancario) ha dato luogo a una spirale perversa così ordinabile: la riduzione della spesa pubblica ha ridotto i mercati di sbocco, riducendo conseguentemente i profitti e aumentando il grado di insolvenza delle imprese (o generando fallimenti), con conseguente restrizione del credito (o aumento dei tassi di interesse), riduzione degli investimenti, dell’occupazione e del tasso di crescita.
Tradizionalmente, le posizioni ‘meridionalistiche’ si sono basate sulla convinzione, esattamente opposta a quella che è a fondamento della teoria degli effetti di sgocciolamento, secondo la quale la crescita del Mezzogiorno è semmai una pre-condizione per la crescita del Paese. Con la massima schematizzazione, si è ritenuto (e si ritiene) che l’aumento del tasso di crescita al Sud implichi un aumento della domanda rivolta alle imprese del Nord e, dunque, un più ampio mercato di sbocco per queste ultime. E, in effetti, nei periodi nei quali la crescita delle aree meridionali è stata sostenuta, lo è stata anche la crescita delle altre aree del Paese
Una possibile ipotesi interpretativa che dia conto del totale abbandono del Sud, in questi ultimi anni, può partire da questa considerazione. Il Mezzogiorno oggi, come SVIMEZ certifica, è oggetto di un vero e proprio tsunami demografico: gli imponenti flussi migratori degli ultimi decenni, soprattutto di individui con elevata scolarizzazione, hanno determinato un processo di progressivo invecchiamento della popolazione residente associato a un significativo calo delle nascite. Il combinato della deindustrializzazione, e dei connessi fenomeni di ‘ritorno alla terra’, e della crescente incertezza, imputabile alla crescente precarizzazione del lavoro, ha ridotto la propensione al consumo, accrescendo i risparmi per motivi precauzionali. L’aumento del tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, ha contribuito – e sta contribuendo – in modo rilevante a ridurre i salari e quindi i consumi dei residenti nelle regioni meridionali. La conseguenza è che il Sud non è più un rilevante mercato di sbocco. E peraltro lo è sempre meno se si considera che, rispetto a qualche decennio fa, la totale deregolamentazione dei flussi commerciali, unita alla notevole compressione dei costi di trasporto, rende possibile, per le imprese del Nord, individuare agevolmente mercati di sbocco in altri Paesi. L’ultimo Rapporto ISTAT-ICE certifica che la crescita delle esportazioni italiane è essenzialmente imputabile all’aumento delle vendite di imprese localizzate al Nord e che queste imprese esportano prevalentemente in Germania e Francia, all’interno dell’Eurozona, e negli Stati Uniti.
In questo scenario, le prospettive economiche del Mezzogiorno sembrano andare sempre più nella direzione di un modello di sviluppo basato su produzioni a bassa intensità tecnologica, in settori maturi (agricoltura e turismo). Avvalorando la retorica che vuole che compito dell’azione politica sia semplicemente assecondare le “vocazioni naturali” del territorio, anche se queste rischiano di accentuare e prolungare la recessione e amplificare i divari regionali.
Ma anche voler assecondare le presunte vocazioni naturali del Sud incorre in seri problemi, sui quali sarebbe auspicabile un’ampia riflessione. Ciò a ragione del fatto che la crescita dei divari regionali si associa a una redistribuzione del potere politico fra macro-aree. E’ vero che il Mezzogiorno sconta rilevanti problemi di selezione di una classe dirigente che sia in grado di tutelarne gli interessi, stante le dovute eccezioni, ma è anche vero – o quantomeno ragionevolmente ammissibile – che ciò è semmai l’effetto della continua contrazione del suo tasso di crescita. Si può, cioè, stabilire che bassi valori della ricchezza prodotta in loco sono associati a un’elevata ‘ricattabilità’ (p.e. in termini di negoziazione sui trasferimenti pubblici e di tassazione) e che, a sua volta, l’elevata ricattabilità si traduce nell’uso di quel territorio per produzioni ad alto impatto di danno ambientale; produzioni più difficilmente allocabili in aree ricche. In altri termini, il capitale finanziario globale – in una logica di acquisizione di profitti di breve periodo – usa i territori ‘deboli’ in funzione estrattiva, ovvero li impoverisce anche per quanto attiene alle loro risorse naturali (paesaggio, ambiente). E’ ciò che si sta verificando: ed è ciò su cui occorrerebbe agire per evitare che anche le modeste fonti di crescita delle aree deboli (turismo in primis) vengano messe a rischio. Giacché gli interessi del capitale finanziario che opera in una prospettiva di acquisizione di profitti di brevissimo periodo strutturalmente collidono con la tutela dell’ambiente e del paesaggio.