di Paolo Maria Mariano
Scrivo per suggerirvi di fare qualche salto indietro nel tempo. S’immagini il 1960. Poi si salti fino al 1967. Furono anni, quelli, in cui, tra altri componimenti, Donato Moro scrisse versi che, nella versione ultima del 1967, ridotta rispetto alla prima del 1964, suonano così: “Passa per la mia terra vento di ponente / vento di tramontana / rapina d’ogni vento. / Sempre quieta / sempre immota, / fichidindia di pietra / cave folte d’ombra, / terra priva d’echi la mia terra / terra pelle di capra. / La fionda del gran sole / spinge pecore irsute ad ombre rade di fichi / spinge greggi d’uomini dai secoli corrosi / ai muri delle case / su tormenti di rocce sbiancate dall’arsura.” Per essi il titolo scelto è “Terra pelle di capra”.
Non fu l’ispirazione del momento che portò alla revisione del 1967. Seguì altre prove sviluppate nei mesi e negli anni precedenti, dove i versi avevano assonanze leopardiane come in “Ti ringrazio, ombra amica …” del 1960 e/o una decisa ispirazione rurale – esempi sono “Contadine del Capo” del 1963, poi rivista nel 1967, “E già la zappa sulla specchia affonda” del 1955, con revisione del 1965, o “Raccoglitrice di sale” a cui si attribuiscono gli anni 1957 e 1969 – ed una ispirazione familiare (“Muzzi Papuzzi”, 1961 e 1980, “Epos familiare”, 1958 e 1966, “A mio padre”, 1968), elementi ricorrenti nella produzione di Moro,
È la natura della terra avita a essere protagonista essenziale. E in questo senso la cifra è naturalistica; ma non è il naturalismo che Ralph Waldo Emerson inspirò in Robert Frost, in Wallace Stevens, o nel granitico (altri direbbe monumentale) opus di Walt Whitman.
Nei versi di Moro la natura è vista riguardo all’uomo che dal contatto diretto con la terra trae da vivere. Quella che appare è la natura del mondo contadino, di quel contadino che ha solo la zappa e le sue mani, e il volto rivolto verso terra, gli occhi lontani dall’orizzonte. Un contadino in una società chiusa, visto, ancora, con un salto indietro nel tempo, in una terra dove il mare intorno è solo landa lontana e non via da percorrere. È una natura “aspra”, “arsa”, “acre”, procacciatrice di “fatica”, “amara”, per richiamare termini frequenti nei versi di Moro.
Scrive a proposito Oreste Macrì: “l’aspro, ricorrente insieme con il nero, è qualità etica o segno simbolico delle stesse cose. Aggettivo nei testi citati in fitta sinonimia con «secco, arido, corroso, arsura, arse vecchiezze, erba secca, Salento risecco come foglia screpolata, rugosa la parola, parola su bocche screpolate, bocca riarsa, secchi timi, ruvidi grembi, sacco tabacco, corrode, mano arsa, volto roso dal sale, fiato secco, dai secoli corrosi, arso ricamo di scogli, case corrose, rocce corrose …”. È un brano dell’introduzione ai componimenti di “Segni Nostri”, che Donato Moro pubblicò nel 1993 per i tipi dell’editore Lacaita.
È una natura che sottrae piuttosto che dare, una natura “Terra pelle di capra”, appunto, un titolo che schematizza in un’immagine versi che racchiudono gli elementi caratterizzanti un mondo dove “greggi di uomini dai secoli corrosi” si muovono “su tormenti di rocce sbiancate dall’arsura”. Le rocce sono quindi “tormenti”, null’altro.
La prima versione di “Terra pelle di capra” appare manoscritta con penna a inchiostro nero anche sul passepartout di cartoncino bianco che circonda un’incisione di Luigi Mariano, mio padre. Ed è lì che l’ho letta per la prima volta, testimone diretto, come sono stato, del continuo dialogo sulla materia estetica che ha coinvolto per molti anni Mariano e Moro, talvolta su di un’unica parola di un verso, una virgola appena. Il dialogo portò loro anche a prevedere opere che coniugassero le parole del verso di Moro e l’arte visiva delle incisioni di Mariano, incisioni che partivano dalla natura tangibile delle venature del legno di ulivo per poi diventare cifra astratta. “Non dunque”, ha scritto Pasquale Rotondi di Luigi Mariano, “una xilografia intesa secondo l’ormai plurisecolare tradizione, come mezzo di riproduzione di un disegno” – o di un tema da illustrare, aggiungo io – “imposto dal di fuori al legno e perciò totalmente disancorato dalla particolare conformazione di quest’ultimo; ma una xilografia scaturente da quella stessa conformazione, in una esaltazione controllata e sofferta dei suggerimenti e delle suggestioni nascenti dai molteplici aspetti delle fibre, dei nodi, delle fenditure, dei tagli”.
Prepararono, i due, anche il menabò di un libro, dove si susseguivano immagini di xilopitture, di pitture, e versi, un libro che non pubblicarono mai, sebbene fosse virtualmente concluso. È quella un’opera che sicuramente dovrebbe essere data alle stampe, assicurandosi però che sia distribuita (perché altrimenti la stampa diventa solo autoillusione), e sulla quale ci sarebbe ampio spazio di riflessione. Nel soggetto, però, personalmente trovo insita una difficoltà estenuante, dovuta alla consanguineità con uno dei protagonisti. Ed è questa difficoltà, però, che mi obbliga, nel parlare del tema, a essere più rigoroso di quanto la rilassatezza dell’occasione conviviale per cui colleziono queste parole suggerirebbe e a non dilungarmi inutilmente.
Non si trattò di un tentativo di figurare versi nella tradizione legata all’illustrazione del libro della scuola urbinate, dove Luigi Mariano si era formato negli anni antecedenti alla Seconda Guerra Mondiale. Per nulla. Né tantomeno – così mi pare almeno – si cercò di avere una voce unica, come fecero per una vita intera Carlo Fruttero e Franco Lucentini, o, in poche ma indicative occasioni, Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares. Fu, credo, il tentativo di porre l’una accanto all’altra opere che interagissero. Quel tentativo che in anni più recenti ha fatto Winfried Sebald, innestando nel suo narrare le foto scattate nel percorrere i luoghi della sua ispirazione. Anzi, invertendo il tempo, potrei quasi dire che è stato in un certo qual modo Sebald ad essere un precursore dell’esperienza d’interazione artistica che cercarono di sviluppare Donato Moro e Luigi Mariano, ciascuno dalla propria poetica, ciascuno dal proprio modo di guardare all’essenza estetica delle cose, al di là delle cose stesse, ciascuno percorrendo al contempo la propria strada indipendente. Con ciò sono cosciente di alludere a uno di quei paradossi che Harold Bloom spesso evidenzia nella sua insistita attenzione per l’analisi dell’influenza nella storia della letteratura. Lascio ad altri il tentativo di dipanare il paradosso stesso, ove se ne senta il bisogno. Ciò che resta è il ritmo delle parole nello svolgersi dei versi e la forza visiva delle immagini, aspetti che ognuno può percepire in maniera differente in base alla sensibilità e alla solidità culturale proprie.
[In occasione del ventennale della scomparsa di Donato Moro (Galatina, 1924-1997), pubblichiamo (con qualche variazione dell’autore) l’intervento che Paolo Maria Mariano ha scritto in occasione dell’inaugurazione (20 aprile 2012) del Fondo Moro nella Biblioteca Pietro Siciliani di Galatina.]