Zibaldoni e altre meraviglie. Una rivista per l’avvenire: Massimo Rizzante, De bello Trubbiani

a cura di Enrico De Vivo

di Massimo Rizzante

Trubbiani, grazie alla sua cultura, è antico, miceneo, dorico, greco, etrusco, romano. E medievale, grazie al suo bestiario. E cristiano, grazie al fatto che malgrado abbia lastricato il mare di pericolose navi da guerra, ha sempre presente che Qualcuno, una volta, è riuscito a vincere la gravità e vi ha camminato sopra.

È moderno, grazie alla sua immaginazione, che, come affermava Leopardi, il più antico fra i poeti moderni (e il più fraterno fra i poeti amati da Trubbiani) «è la più feconda e meravigliosa rinnovatrice dei rapporti e delle armonie più nascoste». L’immaginazione, inoltre, rinnova i «rapporti» e le «armonie più nascoste» della storia antica e della storia medievale facendole partecipare alla storia moderna. L’idea stessa di modernità non nasce forse dalla scoperta del passato? Non è forse rinascita? E questa rinascita non è il frutto dell’immaginazione che scopre «rapporti» segreti e «armonie» nascoste tra i diversi tempi storici? Il Rinascimento non è la scoperta degli antichi? E il Romanticismo non è la scoperta del medioevo? E l’arte di Picasso non nasce dalla scoperta dell’arte primitiva?

Tuttavia, secondo Trubbiani, la vera civiltà è qualcosa che supera la Storia: è la convivenza di tutti i mondi, umano, animale, vegetale e materiale. È la città-mondo, o la fortezza ingentilita dallo sguardo delle forme naturali, o la torre da dove sbuca in tutta la sua mansueta maestosità un leone protettore, o il revolver che, invece di un proiettile, esplode un uovo appena deposto da un uccello, o la fabbrica con le sue ciminiere invasa da una fila di coccinelle-operaie, o ancora l’incrociatore che solca una mare in scatola e sulla cui nuvola di fumo sfreccia una squadriglia di anatre selvatiche.

Tutte le sculture di Trubbiani sono composizioni. Nel senso letterale: opere composte da elementi eterogenei (spesso fabbricate con materiali diversi, il ferro, il bronzo, l’acciaio, l’argento), cioè non appartenenti allo stesso genos, alla stesso regno. Non si tratta di assemblaggi, ma di nitidi montaggi in cui oggetti meccanici, animali, mari, alberi, talvolta, molto più raramente, figure umane danno vita a una costruzione unitaria, unica, perfettamente conchiusa.

La domanda delle domande, la domanda che presiede a tutta l’arte è: com’è possibile far coesistere nello stesso spazio elementi così eterogenei senza distruggere l’unità dell’opera?

Nel caso di Trubbiani la risposta è: perché l’opera è preceduta da una visione dell’uomo e da un’intenzionalità architettonica (presente già nella scelta scrupolosa del titolo). Ciò significa almeno due cose. La prima è che Trubbiani, proprio perché ama restituire in modo certosino i dettagli di ogni parte della sua opera, crede che l’opera possa essere un tutto, crede, cioè, che nell’uomo ci sia ancora un’aspirazione alla totalità che è stata ormai rigettata da ogni forma di conoscenza e che forse solo nell’arte trova la sua dimora, o almeno un ricovero. La seconda è che, per quanto pessimistica, demistificatrice o ironica possa essere la sua visione dell’uomo – un uomo assediato dalla tecnica – Trubbiani non ha mai smesso di credere nelle possibilità dell’uomo di sciogliere l’assedio. In ogni sua invenzione estetica, c’è sempre una cura etica. Nel disincanto, l’incanto. Nella guerra delle forme, la forma dell’amore.

Le sue sculture possono essere enigmatiche, ma mai criptiche, ermetiche. Possono sembrare barocche, ma in realtà il loro disegno è classico, luminoso, rasserenante. Se c’è dismisura, questa è propria dell’uomo, preoccupato unicamente della sua felicità, della sua sicurezza, del suo progresso, incapace di osservare gli altri regni che popolano la terra. La dismisura dell’uomo nasce proprio da questo suo limite, che coincide paradossalmente con il suo abbandono di ogni misura. Ecco perché le figure umane nelle opere di Trubbiani sono quasi sempre assenti. Al loro posto ci sono i testimoni della smisurata tecnica umana.
Ecco allora, ad esempio, un cestello su cui è fissata una bomba a mano. E dentro al cestello una civetta (o una gallina). O una famiglia di tartarughe che di notte si inerpica su una salitella in cima alla quale si trova un’ipnotica lampadina.

Di recente Trubbiani ha affermato che il suo «vasto bestiario sofferente, attonito, esterrefatto, colluso, ciclo per ciclo, con ambientazioni differenti» lo ha sempre accompagnato, almeno dagli anni Settanta in poi, e che «se la tecnologia sembra provvidenziale e rassicurante e può, da questo punto di vista, rappresentare a livello antropologico un necessario scatto progressivo, al contrario sarà soltanto un oscuro ripiegamento involutivo e barbarico, certamente non neo-medioevale, perché, malgrado le apparenti asperità, a quell’epoca il punto culminante era rappresentato sempre dalla luce».
Un progresso senza limiti conduce alla barbarie, a un medioevo senza luce, senza gerarchie, senza rinascita.

La civetta appollaiata nel cestello su cui incombe un perfetto ordigno umano è lì a ricordarci, «attonita» ed «esterrefatta» e perfino beffarda, la nostra tragedia. Così come lo sguardo di mamma tartaruga di fronte alla lampadina ci ricorda ciò che abbiamo perduto: la nostra innocenza primaria, lo stupore senza il quale non c’è creazione, non c’è pensiero e non ci sarebbe stata neppure l’invenzione di Edison. E ancora: che la luce inventata dall’uomo non basterà a illuminare il nostro non-medioevo prossimo venturo.

In altre opere di Trubbiani l’animale sembra sostituirsi all’uomo, sembra prendere il suo posto, esserne la metafora: eccolo allora braccato, assediato, inseguito e imprigionato da sofisticate macchine sacrificali, dove tuttavia l’offesa, la tortura o la capitolazione non sono mai definitive.

Si tratta qui del dolore che accomuna ogni essere vivente. Trubbiani sa, con Leopardi, che, nei confronti dei suoi figli, la Natura non è meno indifferente della Storia, e che ogni principio di individuazione è un parto crudele: per ogni nascita, c’è una morte, accanto alle mirabilia ci sono sempre le terribilia. Un prato in fiore non è molto diverso da un campo di battaglia. Polemos è padre di tutte le cose: anche delle emozioni, anche dei nostri fantasmi. L’arte stessa non è altro che phantasmomachia.

Non c’è salvezza se non nella condivisione del dolore cosmico che nasce con ogni vita e si perde con la perdita di ogni vita. C’è una virilità materna nell’opera di Trubbiani, pater amabilis.

 

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Valeriano Trubbiani nasce a Macerata nel 1937. Dopo il diploma all’Istituto d’Arte di Macerata, frequenta l’Accademia di Belle Arti di Roma. Nel 1960 comincia a dedicarsi alla scultura, utilizzando gli arnesi dell’officina paterna (il padre è fabbroferraio, egli stesso erede di una lunga tradizione famigliare che risale all’epoca rinascimentale). 

Dagli inizi degli anni Sessanta partecipa a rassegne e mostre nazionali e internazionali; tre le presenze alla Biennale di Venezia, nel 1966, nel 1972 e nel 1978; sei le edizioni della Quadriennale di Roma. Nel 1967 è premiato alla Biennale dell’arte del metallo di Gubbio. Nel 1968 si trasferisce ad Ancona. Parallelamente all’attività di scultore, svolge un intenso lavoro grafico e crea alcune piccole produzioni cinematografiche. Per “Volterra 73” realizza sulla torre del Porcellino Le morte stagioni. Nel 1974, a Camerino, erige un monumento alla Resistenza. Nello stesso anno riceve il “Premio Bolaffi”. Nel 1975 inizia il ciclo delle grandi sculture T’amo pio bove e l’anno seguente si trasferisce a Candia, nelle vicinanze di Ancona, in una casa da lui progettata, dove realizza anche uno studio e un’officina da fabbro. Nel 1977, al premio “Michetti”, presenta l’ambientazione Ractus-ractus stato d’assedio. Nel 1979 la città di Ancona gli dedica un’antologica. Nel 1980 Federico Fellini lo invita a collaborare alla scenografia di E la Nave va. Il suo lavoro, già nel 1977, era stato sottolineato dal Premio Nobel José Saramago nel suo romanzo Manuale di pittura e calligrafia (trad. italiana Einaudi, 2007). In questo periodo Trubbiani si dedica particolarmente al disegno e all’acquarello. Il ciclo Le città (Terribilia) viene concluso nel 1984 (Urbis fragilis). Sviluppa in seguito il ciclo dei paesaggi di Insula felix. Una parte della sua produzione di acquarelli viene presentata ad Ascoli Piceno nel 1985. Nel 1987, a Portonovo, gli viene assegnata per meriti artistici la “Ginestra d’Oro del Conero”. Per le celebrazioni del 150° anniversario della morte di Giacomo Leopardi, l’artista propone, a Recanati, un coinvolgente allestimento delle proprie opere nel Palazzo Municipale e all’esterno della Torre del Borgo (nel 1998 uscirà, edito dalla regione Marche, il volume Giacomo Leopardi. Viaggi e transiti. Opere di Valeriano Trubbiani). Riceve il premio per la scultura alla XX Biennale di Milano. Nel 1989 lavora al nuovo ciclo di disegni Paesaggi di terra e paesaggi di sabbia. Nel 1990 esce un’importante monografia in due volumi curata da Enrico Crispolti. Tra il 1990 e il 1991 è presente alla mostra itinerante che espone nei più importanti musei del Giappone. Nel 1991, ad Arezzo, nella Galleria d’Arte Contemporanea, viene allestita una sua personale dedicata al disegno. Nello stesso anno la città di Ancona gli dedica, presso la pinacoteca civica, la mostra Mediterranea-Ciriaco d’Ancona. Con opere grafiche propone nel 1992 Un punto per Piero, mostra itinerante dedicata a Piero della Francesca che toccherà diverse città: New York, Milano, Verona e Urbino. Nel 1993 realizza il volume d’artista Duello che contiene tredici incisioni a colori con alcuni suoi scritti inediti (gli scritti di Trubbiani sono pubblicati in Parola di scultore, a cura di N. Micieli, Jaca Book, 2003 e in Scultura nella parola, Alfabetica, 2006). Nel 1994 è presente a Milano, al Palazzo della Permanente con Omaggio a Melozzo. 22 artisti+uno e, a Pescara, con Artisti contemporanei e Dante. Tra le sue più recenti esposizioni si ricordano: Il sipario Tagliafuoco (Teatro delle Muse, Ancona) del 2002; Appunti allo stadio (Buenos Aires, Cordoba, Santiago, Montevideo, Lima) del 2004; Il mare scolpito (Jesi, Brufa); La scultura moderna in Italia 1950-2000 (Vicenza) del 2005; Sculture alle porte d’Oriente (Brindisi) del 2006; Fabula Terribilis (Museo Boncompagni Ludovisi, Roma) del 2006; Arte italiana del XX secolo (Mosca, Ancona) del 2006 e 2007; Triennale di Arte Sacra (Celano) del 2007; IV Venite adoremus. Omaggio alla Divina Commedia (Roma) del 2007 e 2008; L’onda visionaria (Ancona) del 2008; Historiae Pontis, 58a Rassegna Internazionale d’Arte G. B. Salvi, (Sassoferrato) del 2008; Omaggio a Manrico Marinozzi (Pollenza) del 2011; 54a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Padiglione Italia, Marche del 2011.

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