di Franco Martina
Quando alcuni anni fa mi capitò di leggere gli articoli che Peppino Virgilio aveva pubblicato in giornali e riviste tanto preziosi quanto introvabili, mi augurai di poter vedere quel lavoro raccolto o rifuso in un volume, perché in quel modo ne sarebbe risultato più evidente il disegno organico e ne sarebbe stata più facile la fruibilità. Si può comprendere perciò con quale gioia ho visto realizzato quell’augurio e quanto mi faccia piacere parlarne questa sera. Debbo confessare tuttavia di non essere completamente a mio agio, perché mi sento, o comunque mi sforzo di essere, uno storico degli intellettuali; mentre il libro di Virgilio è, anche, una ricostruzione di vicende storiche specifiche, di episodi, di fatti, di personaggi. Spero perciò di non deludere troppo chi si attende una discussione puntuale di questi aspetti. Vorrei invece provare a discutere il libro partendo da un problema più generale. Approfitto di questa occasione (e chiedo anticipatamente scusa se alcune considerazioni iniziali che farò potranno sembrare a prima vista un po’ estranee al tema della serata) non solo perché, dicevo, gli spazi della discussione, qui da noi, in Provincia vanno sparendo (non ci sono quasi più riviste …), ma anche perche il libro dell’amico Virgilio si presta bene a questo tipo di riflessione.
Il problema è quello che può essere ricondotto alla domanda: qual è oggi l’utilità di un libro come questo? o, più chiaramente qual è oggi il senso di un impegno storiografico centrato su una realtà locale. Come ho detto, il libro di Virgilio non è estraneo a questo tipo di riflessione. Nella “Premessa”, mentre definisce i principi di quella “concezione immanentistica della realtà” che pone a base del suo lavoro, Virgilio inquadra anche con precisione la polarità dialettica che inevitabilmente si pone nel momento stesso in cui si sceglie come oggetto di indagine (ma verrebbe di dire come campo dell’agire, comunque inteso) la realtà “locale”:
“La concezione immanentistica della realtà, egli scrive, ci ha indotti altresì ad allargare la sfera della storicità dall’angustia della comunità cittadina… di cui abbiamo studiato le tendenze pratiche, gli affetti sociali e di classe, gli atti e i caratteri dei suoi uomini e delle sue donne, all’ampiezza delle vicende nazionali”.
1- Dunque, riflettere sul nesso locale/nazionale, ma più correttamente occorre parlare di locale/globale, significa affrontare il problema del senso che ha oggi una simile ricerca. Una riflessione che, se deve essere condotta con la massima apertura culturale possibile, deve, per altro verso, partire proprio dalla determinata realtà interessata; da quella specifica, circoscritta dimensione (geografica, sociale, linguistica…) che rappresenta il corno dialettico che volta per volta si contrappone alla globalità e perciò rappresenta una somma di problemi, di valori che ne fanno una dimensione unica e irripetibile.
Una dimensione raccolta in una tradizione culturale, indagata da una storia locale ben consapevole di sé, che di tempo in tempo ha risposto a precise domande poste non solo dalla circostante realtà ma anche dalle più generali congiunture storiche. Non è mia intenzione di fare qui una sorta di storia della storiografia salentina: non è il caso. Anche se credo che mai come in questo momento tornerebbe utile uno sguardo critico retrospettivo, anche in questo campo. Tuttavia, alcuni passaggi si possono indicare. D’obbligo è il testo di Baldassar Papadia, citato anche da Virgilio. Nelle sue Memorie storiche della città di Galatina nella Japigia, ottimamente introdotte qualche anno fa da Giancarlo Vallone per l’editore Congedo, si può leggere:
“E mi do a credere che mi si condonerà se ho fatto servir l’istoria alle nostre picciolezze; consapevole abbastanza, che destinata a percorrere l’immensità, e la grandezza di tutto ciò, che merita d’esser conosciuto presso le principali nazioni, obbligata essa non è a discendere, ed abbassarsi al racconto di piccole avventure di paesi che spariscono talvolta agli occhi de’ nazionali”.
Nel momento in cui sceglie la comunità cittadina come proprio destinatario (“la brama di far sapere a miei cittadini, pe’ quali scrivo principalmente, è quella che mi ha posto in mano la penna per compilare le patrie memorie”) Papadia sembra porre la storia locale come su di un piano parallelo rispetto a quello della storia universale, cioè in una condizione che non consente facili scambi e interferenze. In realtà, la cultura locale, quella riconducibile a una tradizione di un certo rilievo (di cui fa peraltro parte Papadia), anche quando ha sentito e denunziato tutto il peso dell’isolamento di questa terra, non si è mai, dico mai, chiusa in se stessa, ma ha cercato per mille vie di aprirsi e di comunicare. Addirittura negli anni immediatamente postunitari, il rilancio della cultura locale nella prospettiva nazionale divenne una politica culturale calata nelle istituzioni. Un’operazione mai più ripetuta. D’altra parte, se guardiamo al campo della storia letteraria e in particolare alle personalità e agli esiti più rilevanti, possiamo facilmente constatare che la realtà locale è stata sempre indagata con l’obiettivo di cercarvi tesori nascosti e di riportarli alla luce contribuendo così all’arricchimento (ma anche alla formazione) del quadro complessivo della storia nazionale più equilibrato e veritiero. Dalla regione per la nazione è, com’è noto, il titolo di una raccolta di importanti saggi di argomento salentino scritti da Mario Marti; il quale, tra l’altro, ha intitolato la più importante raccolta di testi, dopo quella di epoca postunitaria di Salvatore Grande, Biblioteca salentina di cultura. E’ inutile che ricordi quanto in questa medesima direzione abbiano contribuito i lavori di Aldo Vallone.
Diverso orientamento, diverso impianto, ma analogo intendimento si può ritrovare alla base della non esigua mole di studi storici dedicati al movimento operaio e alle idee che a esso in vari modi si sono richiamate. Né poteva essere diversamente, perché l’archetipo a cui, più o meno consapevolmente ci si richiama in questi casi è un testo di Carlo Rosselli:
“Bellissimo tema in particolare — scriveva in uno degli ultimi suoi scritti—sarebbe la storia di un piccolo centro provinciale che abbia sentito, per tempo, I’influenza o il contraccolpo della propaganda socialista; un tema che potrebbe venire affrontato dagli studiosi di provincia (i quali lamentano, nel loro isolamento, di non poter lavorare) col semplice ausilio il più delle volte, della biblioteca e del1’archivio comunale. Bisognerebbe cominciare col rendersi conto quale fosse, agli albori della vita unitaria, la costituzione sociale del paese prescelto proporzione tra i vari ceti, rapporti reciproci, risorse locali, condizioni economiche e morali della classe lavoratrice, ecc.; e poi, o prima ancora, ricercare l’atteggiamento assunto dai vari gruppi di fronte ai problemi dell’organizzazione politica (contributo positivo o negativo o nullo alla creazione dello Stato unitario stato d’animo della popolazione di fronte alla realizzata unità, divisione in partiti politici; influenza della Chiesa e via discorrendo); tenere d’occhio a mezzo della stampa locale e di memorialisti paesani— ce ne furono tanti in Italia, anche in tempi recenti, e sono cosi poco sfruttati — o di carteggi locali, il primo disegnarsi di una organizzazione autonoma fra i lavoratori, e le reazioni da essa suscitate, e l’urto eventuale, in seno ad essa, di tendenze divergenti; seguire le successive prese di posizione della classe lavoratrice di fronte a importanti avvenimenti della vita nazionale, e i progressi delle loro organizzazioni e il loro entrare in rapporto con altre consimili della provincia e della regione; indagare l’effettivo grado di autonomia dei lavoratori organizzati (rapporti con gli intellettuali propagandisti) e, pian piano, le forme e i limiti della loro partecipazione alle lotte politiche e amministrative, e via cosi. La storia di dieci o dodici paesi di provincia, a economia agraria o industriale o marittima, del nord, del centro o del sud, di pianura o di montagna, questa storia, narrata su fonti autentiche, con scrupolo di verità, senza intenzioni di “rivendicazione”, non ci fornirebbe forse un materiale prezioso per la più grande storia d’Italia negli ultimi tre o quattro decenni del secolo passato?”.
Com’è evidente qui non si trova solo una traccia di lavoro, ma sono indicati insieme agli strumenti metodologici, anche gli obiettivi politici generali, verrebbe di dire etici, del lavoro storiografico stesso: attraverso la ricostruzione delle realtà particolari si tentava di tessere quella trama sociale unitaria che il Risorgimento politico non aveva saputo abbozzare. La storia delle vicende particolari del Movimento operaio doveva diventare il tessuto connettivo su cui poteva crescere una nuova coscienza sociale e unitaria. Penso che molti di noi, più o meno esplicitamente hanno lavorato in questa prospettiva tracciata da Carlo Rosselli, anche quando non si sono esplicitamente conosciuti nelle sue specifiche posizioni politiche e valutazioni storiche.
Tanta ricchezza di storia, tanta tradizione, mi chiedo, come possono essere utilizzate, oggi, di fronte ad una situazione completamente nuova e ai problemi indotti dalla straordinaria accelerazione della storia e dai cambiamenti profondi che investono simultaneamente l’umanità e i singoli fin negli aspetti più particolari.
Mi riferisco al fenomeno della globalizzazione, di cui consentitemi di richiamare i caratteri con le parole di un pensatore che credevamo definitivamente sepolto sotto le macerie del muro di Berlino:
“Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni”.
Il brano è, come sapete, nel Manifesto del Partito Comunista di Marx. Un brano oggi ampiamente ricordato, ma non nella parte che riguarda gli aspetti più spirituali del processo di globalizzazione, là dove egli afferma:
“E come per la produzione materiale, cosí per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale”.
E’ possibile resistere a questo destino? E’ possibile smentire un’altra volta Marx?
C’è un innegabile lato positivo in questa prospettiva: l’universalità come ideale orizzonte di liberazione. Oggi, però, sentiamo qualche minaccia latente. Se guardiamo agli aspetti comunicativi della globalizzazione, lasciando da parte gli aspetti più passivi e soffermandoci su quelli che interessano quanti hanno un atteggiamento attivo con le nuove tecnologie, appare chiaro che lo sviluppo della telematica e dell’informatica consente a chiunque di accedere senza particolari difficoltà e senza discriminazioni alla dimensione del cosiddetto spazio virtuale e di partecipare così a mille comunità virtuali. Possibilità, va detto subito, che aumentano la libertà individuale, che esaltano le potenzialità comunicative degli uomini. Ma il fatto è che l’uomo, almeno noi che parliamo qui oggi, non nasce in un cyberspazio e in quanto individuo in carne e ossa non può annientarsi nelle comunità virtuali, ma fa parte di una comunità ben precisa, di un luogo abitato da altri uomini in carne e ossa. Dunque, proprio il dilatarsi infinito delle potenzialità che le nuove tecnologie consentono rende essenziale per l’individuo la consapevolezza della propria appartenenza, della propria “identità”. Le lusinghe delle promesse e le paure delle minacce, fatte balenare dagli sviluppi della civilizzazione, sembrano oggi giocarsi sulla capacità di tenuta delle diverse identità.
Porre, di fronte alla globalizzazione, il problema dell’identità, in temi regionali o locali, come ormai sentiamo fare quotidianamente (ed è un segnale della profondità del problema stesso), significa doversi guardare da due possibili atteggiamenti pericolosi, che sono stati ben descritti recentemente dal filosofo francese André Tosel:
“D’une part, écrasés par une mondialisation non analysée en ses mécanismes ou acceptée inconditionnellement, nous ne savons plus quoi demander à l’histoire, et convaincus de la panne irréversible des grands récits de l’émancipation, nous nous contentons de nous raconter des petites histoires jugées plus modeste et réalistes et de faire la théorie sobre de la narration historique.
D’autre parte, nous vivons une division et une entreprise globale qui nous déracine et nous transforme en voyagere errante, nous nous replions sur la seule dimension locale ou privée, jugée plus consolante, d’identités plus ou moins immaginaires.Cette situation qui fait époque, notre époque, est celle des plus grand dangers. La premère positions l’immersion impensée ou acceptée dans le contraintes du marché mondiale, détruit nos points de référence et notre individualité personnelle ou de groupe. La seconde position, le repli sur des identités fictionnelles, vise à nous isoler dans un lieu qui ne peut se soustraire à son milieu historique effectif et qui se constitue en lieu d’exclusion pour tous les ‘autres’ devenus de potentiels agresseurs”.
D’autre parte, nous vivons une division et une entreprise globale qui nous déracine et nous transforme en voyagere errante, nous nous replions sur la seule dimension locale ou privée, jugée plus consolante, d’identités plus ou moins immaginaires.Cette situation qui fait époque, notre époque, est celle des plus grand dangers. La premère positions l’immersion impensée ou acceptée dans le contraintes du marché mondiale, détruit nos points de référence et notre individualité personnelle ou de groupe. La seconde position, le repli sur des identités fictionnelles, vise à nous isoler dans un lieu qui ne peut se soustraire à son milieu historique effectif et qui se constitue en lieu d’exclusion pour tous les ‘autres’ devenus de potentiels agresseurs”.
Non si può vivere voltando le spalle al futuro, né si può vivere chiudendosi in casa per guardarsi allo specchio. Non si tratta, quindi, come pure è stato fatto, di elaborare argomentazioni contro “l’identità”, considerandola artificiosa, non naturale. Anzi proprio la constatazione che l’identità dell’individuo, come delle comunità più o meno larghe, non può essere ricondotta al principio A=A, ma che va considerata come un processo, come una ‘costruzione’, offre uno straordinario terreno per ripensare la storia locale nell’inquietante orizzonte della globalizzazione.
Ha osservato con molta efficacia Claudio Magris che
“L’identità non è un rigido dato immutabile, ma è fluida, un processo sempre in divenire in cui continuamente ci si allontana dalle proprie origini, come il figlio che lascia la casa dei genitori e ci si ritorna col pensiero e col sentimento; qualcosa che si perde e si rinnova in un incessante spaesamento e rientro. L’amore della patria, sempre piccola e sempre grande, l’ha espresso non chi ha barbaricamente celebrato la zolla e il sangue, dimenticando che questo è sempre meticcio, ma chi ha fatto esperienza dell’esilio e della perdita, ed ha imparato dalla nostalgia, che una patria e un’identità non si possono possedere come si possiede una proprietà”.
L’identità come processo ma anche come sforzo di acquisizione, resa paradossalmente più facile dalla lontananza. Giovanni Jervis, che non possiamo non ricordare qui, anche come uno dei componenti l’equipe di De Martino al tempo della Terra del rimorso, sempre partendo dalla convinzione che l’identità non è un dato originario, unico e immodificabile, osserva che essa è un ‘processo’ “che si organizza sulla base di identificazioni” o più significativamente, come una ‘costruzione’ “in continua trasformazione sia nel singolo che nella comunità”.
Il termine ‘costruzione’ (più di quello sviluppo, che fa pensare ad uno schema idealistico) è stimolante e carico di ‘senso’. Esso ci rimanda infatti ad un testo freudiano del ’37, Costruzioni in analisi. In esso Freud, modificando significativamente alcune sue precedenti conclusioni, osserva che l’analisi non è la ricostruzione di una verità restituita alla coscienza nella sua originaria connotazione, quanto la ‘costruzione’ di una memoria proposta dall’analista a chi l’ha direttamente vissuta e che ne può accettare la plausibilità. Un lavoro che Freud assimila pur con significative differenze, a quello dell’archeologo e che ritiene possa essere applicato non solo alle singole individualità ma “all’umanità intera”.
In un aureo libretto di tre anni fa, significativamente intitolato Libro della memoria e della speranza, Remo Bodei osservava:
“La natura dell’identità non è infatti quella di un unico filo, quanto piuttosto di una corda lentamente e pazientemente intrecciata, che si snoda anche attraverso fasi di lungo e sanguinoso conflitto. E composta così dall’avvolgimento di più fili, ciascuno dei quali appartiene a una propria storia, più o meno strettamente connessa ad altre nello spazio e nel tempo. Questa corda si rafforza tanto più, quanto più vengono resi visibili i fili da cui è composta, che, a loro volta, possono diventare il bandolo per nuovi nodi. E tanto più si indebolisce, almeno nel lungo periodo, quanto più si riducono o si recidono le connessioni verso l’esterno. Siamo tutti ‘meticci’…”
Ed esplicitamente sottolineava che l’identità è qualcosa da “costruire e non solo da rammemorare”.
Ora l’orizzonte della globalizzazione impone la ridefinizione del ruolo della storia locale. Dunque, le promesse e le minacce della globalizzazione si incrociano con le promesse e le minacce della storia locale. A essa spetta infatti il compito di ‘costruire’ l’identità e, per questa via, di creare un terreno di confronto tra la comunità, resa consapevole di sé, e le forme più varie di universalizzazione. Un lavoro tanto più proficuo quanto più raffinati e avanzati sapranno essere gli strumenti storiografici utilizzati. Credo che non si tratti, dunque, di pensare il locale nel contesto di una improbabile philosophie de l’histoire, quanto di adattare le metodologie della storia locale alle nuove consapevolezze e urgenze. Ma quale sia la soluzione del problema, cioè quale metodologia ci può meglio aiutare a ‘costruire’ un’accettabile identità, questo non lo so. Come ho detto, in questo lavoro non partiamo da zero. La ricca e varia tradizione che abbiamo alle spalle è fondamentale, proprio perché essa non si è chiusa in una romantica Heimat, con cui ha identificato la verità e il fine della storia (“nell’origine è la meta”, secondo l’espressione di Karl Kraus).
In tale tradizione dobbiamo mettere anche questo volume di Peppino Virgilio. Né deve trarre in inganno che egli lo presenti come “memorie”. La memoria lungi dall’entrare in conflitto con la storia, creando una sorta di cortocircuito tra la sua natura di accentuata soggettività e le istanze scientifiche proprie del lavoro storiografico, realizza nell’opera di Virgilio un equilibrio, peraltro esaltato dall’ efficace ordito narrativo. Del resto, Virgilio spinge la memoria anche su terreni e vicende di cui non è stato testimone in prima persona e ciò gli consente di infilare l’analisi nei particolari, facendoli risaltare e vivificandoli in contrasto o in sintonia sia con griglie interpretative generali, sia con le vicende politico-culturali nazionali. In linea con quella tradizione di cui ho parlato prima, anche Virgilio non isola nell’analisi l’aspetto locale dall’insieme delle relazioni più complesse. Da questo punto di vista per gli esempi c’è solo l’imbarazzo della scelta. Dal saggio su Antonio Vallone a quello, raccolto come appendice, dedicato a Pietro De Marianis, dove l’analisi delle idee e delle posizioni del giornale “Il Pensiero” viene sbalzata sullo sfondo degli avvenimenti politici e del generale dibattito pedagogico-culturale. Insomma, il ricorso alla memoria gli consente un’analisi storico-politica capace non solo di calarsi nei riflessi particolari, ma di non esaurirsi nella ricomposizione di inerti parti del passato, mirando invece a scoprire di questo la nervatura ancora sensibile. In tal senso vanno ricordate tutte le parti relative all’analisi sul fascismo a Galatina. Il fascismo per Virgilio non si riduce allo schema togliattiano di “regime reazionario di massa”, che egli pure condivide in generale. Proprio l’interesse ad individuarne l’effettiva consistenza attraverso la varia fenomenologia nella specifica realtà locale, gli consente di affermare:
“Il fascismo però non è stato unicamente reazione agrario-capitalistica, ma ha compreso nello stesso tempo molti altri elementi: un movimento delle masse piccolo-borghesi rurali, e mezzadri, affittuari, piccoli coltivatori agricoli sono stati in gran numero all’avanguardia del movimento fascista. Bisogna aggiungere che il fascismo è stato anche prassi di lotta politica condotta da certi rappresentanti della piccola e media borghesia, contro una parte delle antiche classi dirigenti”.
Questa articolazione del discorso vale anche per l’analisi che Virgilio fa delle singole personalità, tra cui spiccano per l’importanza complessiva che hanno avuto sulla vita della comunità cittadina (e più generale salentina) le figure del repubblicano Antonio Vallone e del socialista Carlo Mauro. Ho l’impressione, tuttavia, che Virgilio faccia poggiare tale importanza su una valutazione politica generale, nel senso che riguarda un dato di fondo decisivo per l’evoluzione democratica della vita politica galatinese. Al di là degli scontri anche aspri, come quello delle elezioni del 1904, quando alla candidatura Vallone i socialisti opposero quella di Michele Assennato, Virgilio sottolinea, invece, solamente gli elementi di convergenza fra i due. Egli vede come un limite di fondo delle forze democratiche l’incapacità di elaborare una strategia politica che sapesse creare un’alleanza tra ceti popolari e borghesia medio-piccola. Esattamente ciò che, forse in forme parallele, ricercavano tanto Antonio Vallone quanto Carlo Mauro. E comunque proprio in ciò Virgilio coglie il più significativo lascito del socialista galatinese.
“C’è un problema che Carlo Mauro ha lasciato in eredità ai comunisti galatinesi, e che i vari gruppi dirigenti che lungo gli anni si sono succeduti alla testa del partito non hanno saputo o voluto risolvere. Esso consiste nel rapporto della sinistra con la piccola e media borghesia, tema questo tra i più ardui della storia del Mezzogiorno”.
Tuttavia, più che nei capitoli politici l’utilità dell’uso della memoria si fa più rilevante in quella sezione del libro che Virgilio definisce ‘antropologica’. Lì, infatti, egli cerca di scandagliare il sostrato umano che si trova oltre le istituzioni, le ideologie, i rapporti ufficiali e che costituisce quindi la radice di comportamenti destinati a modificarsi non facilmente.
“Qualche volta, scrive descrivendo il tipo dello studente galatinese, si sente il bisogno di ridestare o di riconoscere i sepolti affetti del proprio passato, di ritrovare attraverso di essi stati d’animo originali e autentici. Accade così che dalla superficie delle cose si scenda al loro fondo vivo e mosso e si rimanga attratti dal muto tesoro di profonde impressioni. Coordinando queste impressioni, si ricrea tutto il tessuto di un’epoca o di una società o di un momento di vita collettiva. Gli affetti della giovinezza rivivono, se si danno ad essi forme concrete”.
In questo modo la memoria non solo restituisce corpo e plasticità ai ricordi, ma consente di verificare in che modo le grandi scelte politiche come le grandi idee vengono vissute, sentite, dai semplici; a quali reazioni li portano e quali modificazioni producono. Da questo punto di vista le pagine che Virgilio dedica alla vita dei contadini galatinesi sotto il fascismo mi sembrano non solo letterariamente degne, ma una testimonianza storicamente significativa.
Per inciso va detto che Virgilio mi sembra prendere le distanze dalla letteratura della “civiltà contadina”. Quando descrive la realtà di vita quotidiana del contadino galatinese sembra rifarsi più a Nino Palumbo che non a Levi o a Scotellaro. In quel mondo egli non vede valori immediatamente universalizzabili, ma un ambiente “angusto e meschino”, da cui gli stessi contadini vogliono uscire. Questo non gli impedisce, tuttavia, di tracciare di quel mondo una serie di quadri nei quali la pulsione narrativa, tenuta a freno nei saggi politici, si impone sovrana. Eccone un brano:
“Per l’uscio di strada si entra nell’unica stanza che costituisce l’abitazione del bracciante o del contadino. A seconda della stagione si spande per essa un afròre di zucche, cocòmeri e poponi conservati sotto il letto o disposti in bella vista sull’assito che divide in due la stanza grande. Da agosto a novembre, e anche dopo, quando avviene la consegna all’opificio, gruppi di filze di tabacco pendono dal soffitto. Se la famiglia è numerosa, una scala posticcia di legno mena al palco, cioè ad un piano fatto di travi o di assi connessi tra loro. E’ la parte di casa riservata alle donne, specialmente a quelle giovani. Lì esse dormono e gestiscono la loro sfera privata. Quando invece lo spazio tra il palco ed il tetto è così basso da non poter essere utilizzato come soffitta, si ha il palco a tetto o palco morto, per riporvi provviste, arnesi, recipienti ed altro. Il pavimento è fatto di lastre di pietra leccese e viene imbiancato con polvere di tufo specialmente nei giorni di scirocco, quando l’aria è pregna di umidità. Accanto alla porta, sulla strada, un usciolino si apre e si chiude girando sui cardini. Esso nasconde, per mancanza di fogne, una cameretta sotterranea murata in cui vanno a finire gli escrementi.”
3- Peppino Virgilio ha svolto questa riflessione sulla realtà di Galatina oltre che su «Il Galatino», prevalentemente su «Il Corriere di Galatina>>, dal ’78 divenuto «Il Corriere Nuovo>>. Animati dalla intelligenza e vivacità di Carlo Caggia, quei fogli fanno da soli un pezzo della storia salentina, perché negli anni Settanta, in una fase di importanti cambiamenti e di speranze, sono stati un non secondario punto di riferimento per la nostra cultura . Insieme alle presenze di uomini della levatura di Ottorino Specchia, Luigi Manna, Aldo Vallone, Donato Moro, Luciano Graziuso, si possono registrare quelle di una intellettualità di sinistra, giovane e meno giovane, che svolse su quei giornale un lavoro intenso non solo di elaborazione e di orientamento teorico-politico, ma anche di scavo storico culturale. Lì Carlo Caggia doveva pubblicare le ben note Cronache fra due secoli, poi raccolte in volume (Congedo, Galatina, 1978).
Continuo a pensare che gran parte di quell’esperienza, per ciò che riguarda le singole personalità di sinistra che vi presero parte, fosse fortemente segnata dalla lezione di Gramsci. Una lezione che incideva in un duplice senso: perche dava un ruolo di protagonismo politico all’intellettualità, con una forza e un’intensità pari solo a quelle esercitate dal liberalismo crociano nel periodo fascista, ma anche perché offriva più che un’appagante Weltanschauung (come pure è stata nei casi peggiori), gli strumenti per un esame critico della realtà sociale e culturale, come anche dei suoi intimi conflitti. E in quest’ultimo senso l’ha usata anche Peppino Virgilio.
Oltre la lezione di questo Gramsci si sente l’esempio di Croce. A lui va ricondotta, in ultima istanza, quella visione immanentistica e laica della realtà, che, tra l’altro, se gli fa condannare le forme paganizzanti di religiosità e l’uso politico della religione, non gli impedisce di sentire con commossa partecipazione la lezione di Paolo Brezzi, docente al ‘Colonna’ negli anni trenta e recentemente scomparso, da cui apprende che
“La fede vera rifugge da ogni compromesso, non diventa mai abitudine passiva o superstizione grottesca e non vanifica la realtà spirituale che nasce dalla fiducia nell’uomo e nelle sue energie migliori”.
E, insieme a Croce, si sente Gobetti, cioè l’esempio di un liberalismo non ‘inesistente’, come di recente si è detto, quanto invece conseguente. Il liberalismo di chi ritiene la giustizia sociale non un limite e una diminutio, ma un’esaltazione della libertà dell’individuo. Croce, Gobetti, Gramsci. Personalità, come è noto, per molti versi differenti e per altri certamente lontane, ma innegabilmente accomunate nella fede per l’uomo come fine e dall’idea della cultura come milizia, come unico strumento di cui l’uomo dispone non per vincere ma per contrastare doverosamente le varie dimensioni dell’oggettività che lo minacciano e in questo modo per produrre coscienza, responsabilità, libertà.
Ripensando a «La Voce di Galatina», all’esperienza giornalistica avviata tra il gennaio del ’46 e il marzo del ’48, Virgilio, pur indicandone limiti e ingenuità, ne ricordava in questi termini la funzione specifica in quel determinato momento:
“Bisognava stimolare la pigrizia mentale, risvegliare le buone energie, bisognava irrobustire il carattere morale e far crollare le sedimentazioni di idee fisse e di pregiudizi che non mancavano nella nostra comunità cittadina”.
Da semplice lettore del suo libro, se l’amicizia non mi fa velo, credo che questo ormai lontano impegno di critica e di stimolo, Virgilio l’abbia coerentemente mantenuto. La memoria di Galatina, il filo che egli ha tessuto per tanti anni, ha cercato di riannodarlo ad altri fili forti, non isolandolo in una splendida autosufficienza, ma facendolo ‘partecipare’ d’un più grande ordito. Questo sarà tanto più solido, quanto più resistente sarà ogni singolo filo; e sarà tanto più vario, quanto ogni singolo filo saprà ‘spiccare’, armonizzandosi con gli altri.
[Relazione letta a Galatina, presso la Sala Fede e Cultura “Mons. G. Pollio”, lunedì 4 gennaio 1999, ore 18.00, in occasione della presentazione del libro di Giuseppe Virgilio, Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Congedo, Galatina 1998. La presentazione rientrava nelle attività dell’Università Popolare di Galatina]