di Paolo Vincenti
I miei amici cantautori: Giorgio Lo Cascio
Per me conserverò una cosa sola:
il fatto di sentirmi libero
di cercare di scegliere e di sbagliare e questa è libertà.
( “Primo messaggio” – Giorgio Lo Cascio)
Una sera di settembre, conversando di musica e autori con Rudy Marra, salta fuori il nome di Giorgio Lo Cascio. Infatti Marra, cantautore e scrittore di origini salentine, ha vinto il premio Lo Cascio nel 2007. Si tratta di un premio assegnato ai giovani esponenti della canzone d’autore, che si svolgeva a Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, in Calabria, fino a qualche anno fa, con la giuria presieduta dal giornalista musicale Enrico Deregibus. Quella notte, ritornando a casa in macchina, cerco su Youtube qualche canzone di Giorgio Lo Cascio per rinverdire la memoria. E subito salta fuori dal mio telefonino “Il poeta urbano”, una delle sue più belle e dense di significato. Giorgio Lo Cascio è scomparso troppo presto da questa vita terrena ma era scomparso dalla vita musicale molto prima della sua dipartita. Il suo nome è legato a quella temperie artistica dei primissimi anni Settanta romana, a quel sodalizio musicale del Folkstudio, di cui protagonisti, insieme a Giorgio, ne erano alcuni giovanissimi come De Gregori, Edoardo e Stelio, Renzo Zenobi, Ernesto Bassignano, Venditti. E fu proprio con De Gregori e Venditti che Lo Cascio mosse i primi passi nella produzione musicale. Con De Gregori pubblica un album registrato dal vivo durante una delle loro serate, intitolato “Folkstudio 24-1-1970”, con interpretazioni di canzoni originali scritte da Francesco e da Giorgio e traduzioni di Leonard Cohen e Bob Dylan, accompagnati in alcune canzoni dalle percussioni di Antonello Venditti.
Questo primo esperimento di album ormai del tutto irreperibile, è interessante anche per i fans di De Gregori perché fa capire che la sua carriera inizia ancor prima del famoso “Theorius campus” del 71, pubblicato a quattro mani con Venditti e che i referenti musicali del “Principe” erano fin da allora Cohen e Dylan, e inoltre è significativo perché vediamo che apre la sua carriera con un live, e De Gregori è il cantautore ad avere pubblicato più live della storia della musica italiana. Insieme, De Gregori e Lo Cascio si presentano alla It, storica etichetta discografica di Vincenzo Micocci, e insieme vengono messi sotto contratto. E’ chiaro che di tutti i colleghi sicuramente i due autori sono quelli che più si sono influenzati a vicenda. Per rendersene conto basta ascoltare i loro dischi per notare quanta somiglianza ci sia persino nella voce, oltre che nei temi trattati, e nella scrittura musicale e dei testi (pressoché identica) fra il Principe e “il poeta urbano”. Il sodalizio però si scioglie subito per divergenze di carattere tecnico e Lo Cascio pubblica da solo il primo disco mentre De Gregori si unisce a Venditti. Rimane fra i due una forte amicizia e la solita intesa artistica, come scrive lo stesso Lo Cascio, anche giornalista musicale, nel suo libro su De Gregori (“De Gregori”, Franco Muzzio Editore, 1990). Infatti la copertina dell’album “Alice non lo sa” è di Lo Cascio il quale pubblica intanto il suo primo disco, “La mia donna”, con la produzione di Venditti, dedicato alla compagna Ivana, poi divenuta sua moglie e alla quale dedica il pezzo omonomo contenuto nel suo secondo disco. In questo album, in cui suona alle chitarre Renzo Zenobi, vi sono tracce notevoli come “Ho cercato di dirti” e “La mia donna”. Il secondo album, “Il poeta urbano”, è ancora più centrato, come si suol dire, e viene pubblicato nel 1976, con dieci brani dalle connotazioni decisamente politiche e sociali ma orecchiabili e accattivanti. Bellissime, oltre alla title track, “Primo Messaggio”, “Per Te Che Mi Sei Compagna”, “Sull’Orlo Del Vulcano” (versi ripresi da De Gregori in “Sangue su sangue”), “Rotolando Per Le Scale” (anche questi versi ripresi da De Gregori in “Cercando un altro Egitto”), e “Per Liberare La Mia Terra”. Bellissimo anche l’album successivo, “Cento anni ancora”, del 1977, con pezzi memorabili come “Fiori chiari, fiori scuri”, “Coppe bastoni e danari”, “Storia di un mistero” e “Saremo liberi”. Connotati da forte impegno, etico, sociale, politico, anche gli album successivi, “Punto e a capo”, del ’78 e “Il vaso di Pandora”, dell’89, inciso insieme a Stefano Iannucci. Si ritira per un lungo periodo dalle scene anche se la sua passione per la musica e soprattutto la sua militanza a sinistra non vengono mai meno. Pubblica diversi volumi sui cantautori fra cui “Venditti. Canzoni” Roma, Lato Side, 1981. Muore prematuramente nel 2001 a causa di un tumore, ma il suo nome continua a circolare grazie anche all’affetto dei suoi amici De Gregori e Venditti (il quale lo ricorda insieme a De Gregori e Bassignano nei primi versi, “ io mi ricordo, quattro ragazzi con la chitarra”, della nota “Notte prima degli esami”). Le sue canzoni continuano a girare, sia pure presso il pubblico ristretto degli appassionati ed intenditori, ma credo che la sua musica abbia piena dignità di stare accanto a quella dei più titolati colleghi. Un messaggio ancora attuale, che non è venuto meno con la sua scomparsa.
Satura mix
Referendus-referenda-referendum. “Vuoi che alla Regione siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?” E’ questa la domanda posta dal Referendum del 26 ottobre sull’autonomia di Lombardia e Veneto. Una domanda facile facile, no? Di questo passo, si potrà anche chiedere agli elettori: “vuoi una politica più efficiente per il Paese?”, oppure “vuoi una classe politica che non rubi?”. E perché non anche: “vuoi la pace nel mondo?” Gesù, Giuseppe e Maria! Sono sempre stato contrario allo strumento referendario, specie se questo è inutile e dannoso come nel caso del referendum di domenica. Ho scritto più volte che la classe politica dovrebbe essere in grado di fare delle scelte, prendere delle decisioni, dato l’alto compito cui è chiamata, senza interpellare gli elettori, almeno senza farlo ad ogni piè sospinto. I politici sono pagati per governare il nostro Paese, il popolo conferisce loro un mandato sulla base del quale essi dirigono l’azienda Italia, ne sono il legale rappresentante o l’amministratore delegato che dir si voglia. I governanti ci rappresentano, agiscono in nome e per conto degli elettori che li hanno votati. Ricorrere allo strumento referendario dovrebbe essere l’extrema ratio, quando si tratti di questioni davvero importanti, come, che ne so, Monarchia o Repubblica, entrare o uscire dall’Europa, trasferire la capitale d’Italia a Cosenza, oscurare “Uomini e donne” di Maria De Filippi o “Pomeriggio Cinque” di Barbara D’Urso, estradare pericolosi sovversivi come Paolo Barnard, Klaus Davi o Diego Fusaro. La nostra Costituzione è già una costituzione regionalista e federalista, in seguito al referendum del 2001 sulla modifica del Titolo V della Seconda parte, voluto dal Governo Berlusconi (proprio Silvio Berlusconi, l’evasore seriale, quello degli infiniti processi e delle infinite condanne). L’allora Governo Berlusconi infatti, ostaggio della Lega secessionista, volle dare un forte imprinting alla Magna Carta per realizzare uno Stato federale indorando la pillola a Bossi e company. I referendum costano e non raggiungono quasi mai il quorum. Prendiamo il referendum del 1997: ben sei quesiti dei quali nessuno raggiunse il quorum; obiezione di coscienza, abolizione dell’ordine dei giornalisti, progressione delle carriere dei magistrati, erano i più importanti; ma si può chiedere agli elettori se i cacciatori possono accedere nei fondi privati o se i magistrati possono prendere altri incarichi extra? E chi se ne frega? O ancora, il referendum del 2009 sulle pluricandidature: ben tre quesiti per impedire che alle elezioni le liste si colleghino fra loro per ottenere il premio di maggioranza oppure che i candidati possano presentarsi in più di un collegio. E sono questi i problemi che affliggono l’Italia? I referendum sono un inutile sperpero di denaro pubblico. Quando i proponenti vogliono proprio farli passare, li indicono confermativi e non abrogativi, come appunto quello del 2001, ossia che non c’è bisogno del quorum. Pensiamo alle ultime ardimentose imprese degli incontinenti referendari, come il referendum sulle trivelle, dell’aprile 2016, o quello costituzionale voluto dal Governo Renzi del dicembre 2016. Bocciati! Quelli di domenica invece hanno raggiunto il quorum e sono stati un successo. E allora, in seguito a questo risultato, la Lega e certa stampa di destra cantano vittoria, i cori degli Osanna si levano verso il cielo, a dispetto del Pd, o buona parte di esso, e dei partiti dell’estrema sinistra, che hanno osteggiato il referendum. Ma che cosa hanno da festeggiare i giubilanti Maroni e Zaia? I due governatori dovranno andare a Roma a contrattare con il Governo Gentiloni. Compito molto difficile, dati anche i tempi stretti prima delle elezioni del 2018. Ma in ogni caso, quella delle regioni ad autonomia differenziata è una via già tracciata dalla Costituzione al terzo comma dell’art.116, e infatti questa strada della negoziazione diretta ha imboccato la Regione Emilia Romagna. Non potevano fare la stessa cosa Veneto e Lombardia? Ora Berlusconi, quello del conflitto di interessi, del caso Mills, di Dell’Utri e Previti, e con lui Forza Italia, cavalca il risultato elettorale, e se alla vigilia del voto si dimostrava tiepido, quasi super partes, adesso, visto il plebiscito, si affretta ad intitolarsi la vittoria e anzi a rilanciare, affermando che il referendum federalista deve essere allargato anche alle altre regioni. È la logica di questo federalismo, secondo me, ad essere sbagliata. Autorevoli studiosi rafforzano la mia opinione. Trattenere una parte del gettito fiscale sui territori del Nord è una rivendicazione meschina, antistorica, egoista, sebbene nasca da un malcontento diffuso che va, esso sì, dal nord al sud del Paese. L’assunto è che lo Stato ha dimostrato di non sapere utilizzare in maniera virtuosa le risorse che entrano dal fisco. Vero. In pratica, dove vanno le tasse che io pago, è la domanda del contribuente, se poi non ho servizi adeguati? Allora non pago, evado, e vaffanculo ai ladroni romani! Inoltre, se il nord produce di più da sempre, perché non può godere maggiormente dei frutti del proprio lavoro e deve invece spartirli con il sud parassita e nullafacente? Per quale motivo le risorse devono essere dilapidate a danno del nord virtuoso e a vantaggio del sud pachiderma? Tutto vero. La rabbia dei settentrionali è più che comprensibile. Ma la classe politica, che è il vero cancro del Paese, cosa fa? Invece di impegnarsi per rilanciare il Sud, per una redistribuzione equa delle risorse, per far valere il peso dello Stato, di uno Stato unitario, centrale, forte, che pensa e ragiona con la testa e non con la pancia, avalla le spinte populistiche e sovversive e cavalca il malcontento del pueblo per fini elettorali. Lo Stato è uno solo ed è come un padre, o una madre (sennò si offende la Boldrini), che si dovrebbe comportare equamente con i propri figli. Che cosa fa una madre di fronte a due pargoli che chiedono da mangiare? Ne sfama uno e lascia l’altro a digiuno, oppure dà da mangiare ad entrambi? Le richieste dei referendari sono assurde. Se già in Italia soffriamo di un enorme gap fra il nord e il sud del Paese, dovremmo aumentare ancor di più questa distanza? Il Nord diverrebbe sempre più ricco ed il Sud ancor più arretrato. Forse questo andrebbe bene in un’ottica del tutto velleitaria per alcuni razzisti mangiapolenta, ma per il Paese non sarebbe una botta di salute. E in ogni caso, per accelerare davvero la cosiddetta devolution, occorrerebbe un nuovo referendum (ohimmè), stavolta nazionale, perché si tratterebbe di una riforma costituzionale, cioè dovrebbero pronunciarsi tutti, polentoni e terroni. Invero le regioni del Nord non chiedono privilegi ma diritti, quelli che sono stati calpestati da sempre. Essi possono essere concessi attraverso la via diplomatica, con la mediazione politica, se la politica assolvesse il compito cui è stata chiamata. Invece, gli agit prop leghisti cavalcano la tigre dell’insurrezione referendaria. “E io pago!” Paghiamo tutti noi, anche per i tablet! Ma si può?
Ora, se la massiccia partecipazione al referendum viene intesa come un forte segnale che ha voluto dare il popolo al Governo di Roma perché si muova ad uscire dal pantano in cui sguazza la politica politicante, indipendentemente dal merito del referendum stesso, e se questa era l’intenzione dei proponenti, ossia di dare una scossa ad un establishment troppo schiacciato sulla difesa dello status quo, come sostengono i giornali di destra, allora andrebbe anche bene; anzi, andrebbe appoggiato e condiviso. Ma fuori dal fattore ribellista, movimentista, e non suffragata da una buona causa, la tornata elettorale di domenica scorsa rischia di essere un buco nell’acqua, l’acqua putrida di quel pantano di cui sopra. A che cosa serve? Non se ne può più di questi masanielli alla Puigdemon che combattono per l’autonomia. È’ una visione del tutto miope quella di chi si batte per le piccole patrie. La Spagna è un esempio in negativo di quanto potrebbe accadere anche in Italia. Se si concede l’autonomia alla Catalogna, poi che si fa con i Baschi? La loro lotta per l’autonomia è ancora più antica di quella catalana. E poi, che dire della Scozia, in Gran Bretagna? Anche la Scozia è agitata da fermenti separatisti da tempo immemore. E se si separa la Scozia che cosa farebbe, di grazia, il Galles? E l’Irlanda del Nord? E che dire della Corsica, che vorrebbe staccarsi dalla Francia? Ma sì, ridisegniamo la carta geografica d’Europa, torniamo al Congresso di Vienna! Gesù, Giuseppe e Maria!
Riprendendo le cose di casa nostra, ora le manovre all’interno del centro-destra in vista delle elezioni politiche subiranno una accelerata, Salvini a maggior ragione rivendicherà la candidatura a Premier per la sua coalizione. Ma Berlusconi, quello della Bossi-Fini, l’amico dei potenti del mondo, il delinquente abituale, non si farà certo mettere nel sacco dalla giovane camicia verde. E Giorgia Meloni, che poi non era nemmeno favorevole al referendum autonomista, non starà certo a reggere il moccolo a Sua Emittenza Berlusca e al celodurista Salvini. Che Babele, questo paese dei campanili e dei referendum!
Bongo bongo. Così definivano gli immigrati africani, ed anche con epiteti più grevi, alcuni importanti esponenti della Lega Nord fino a qualche tempo fa. Il fenomeno dell’immigrazione è un grande business in Italia e non solo per le cooperative di accoglienza che ne traggono lauti guadagni, ma anche per le forze politiche che cavalcano l’onda del malcontento popolare per un tornaconto elettorale, parliamo dunque delle destre che strumentalizzano e avallano il razzismo, e per le forze moderate di centro sinistra e per le sinistre che sono per l’accoglienza e l’ecumenismo, facendo in parte propria la lezione della Chiesa e di Papa Francesco. Un business inoltre, l’immigrazione, per le trasmissioni televisive di intrattenimento politico e per i giornali più oltranzisti come “Libero”, “Il Giornale” e “Il tempo”, che conducono una campagna di tolleranza zero nei confronti degli immigrati, e di converso per quelli più democratici come “Avvenire”, che spingono per l’integrazione e la carità cristiana. Ma anche, verbi gratia, per uno scemo come Povia, che può costruire una pessima canzone, “Immigrazia”, ed ottenere un quarto d’ora di celebrità grazie alle violente polemiche che ne scaturiscono. Povia, cantante fallito che ormai ha deciso di riciclarsi come menestrello della estrema destra, nella recondita speranza di ottenerne una qualche rendita di posizione, magari alle prossime politiche, è torrenziale, riempie i suoi post su facebook di parole che legge perché magari scritte da altri, senza prender fiato, con un sincopato e incalzante ritmo, che se trasferito in musica avrebbe più successo del becero pop che invece si ostina a fare. Tenendo fermo che sempre di trash musicale si tratta. Ma il poco ispirato Povia è da condannare non tanto per i concetti che esprime nella canzone, quanto per l’orrenda falsa rima “che per mandare avanti il pil vogliono i nuovi schiavi qui”. Un affare, l’immigrazione, anche per Forza Nuova e Casa Pound perché questi temi da sempre sono il loro cavallo di battaglia. I movimenti sociali di base infatti, che non hanno rappresentanza parlamentare, devono sfruttare al massimo l’onda mediatica di certi fenomeni per avere attenzione, e far più casino possibile, perché così la pubblicità è assicurata e gratis. Chi non trae guadagni dall’immigrazione è la stragrande maggioranza della popolazione italiana. Per noi, il fenomeno dell’immigrazione non è un affare, una mucca da mungere, come per le comunità di accoglienza, ma è solo un problema, un grande interrogativo che interpella le nostre coscienze.
OTTOBRE 2017
I miei amici cantautori: Edoardo De Angelis
Regalami una parola
Che non debba cadere mai
Piu forte della paura
Piu forte della paura
Regalami una parola
Che non debba cadere mai
Più forte della paura
Quando la troverai.
( “Cinque parole” – Edoardo De Angelis)
Quella di Edoardo de Angelis è una carriera molto lunga e ricca di stimoli e soddisfazioni, per quanto anch’egli rientri in quella nicchia dorata dei cantautori di seconda fascia, come potrei definirli, ma non per capacità artistica e bravura, ma solo per notorietà. Notorietà che invero arriva subito a De Angelis per via di “Lella” la sua canzone più famosa (“Te la ricordi Lella la moje de Proietti er cravattaro, quello che c’ha er negozio su ar Tritone”) reinterpretata da tanti altri cantanti a partire dai Vianella, ossia Edoardo Vianello e Wilma Goich, che in quei primi anni Settanta ancora furoreggiavano. Gli inizi sono legati a Stelio Gicca Palli, col quale forma il duo Edoardo e Stelio. Nel 1972 pubblicano l’album “Il paese dove nascono i limoni”, che ha scarso successo. Ma è nell’ambiente del Folk Studio che Edoardo trova la dimensione a lui più congeniale fra colleghi quali Venditti, De Gregori, Giorgio Lo Cascio, Rino Gaetano. In particolare si lega a De Gregori, col quale nasce una collaborazione che durerà per sempre. (Fonte delle informazioni: Wikipedia). De Angelis inizia anche a scrivere testi per altri e a produrli, in particolare a lui si deve la scoperta di Amedeo Minghi, che poi farà una brillante carriera, dei Capitolo Sei, ma lavora anche per Marisa Sannia, che produce insieme a De Gregori. La sua canzone “Lella” viene cantata anche da Lando Fiorini e dalla Schola Cantorum. De Angelis produce gli album di De Gregori “Alice non lo sa” e “ Francesco De Gregori”. Collabora anche con Claudio Baglioni all’album “Sabato pomeriggio”. Ma le collaborazioni più importanti e durature della sua carriera sono senz’altro quelle con Minghi e De Gregori. Dopo tre album con la Schola Cantorum, nel 1977 pubblica “Il tuo cuore è casa mia”, nel 1978 “Piccola storia di libertà” e nel 1979 “Edoardo De Angelis”. In questi lavori viene fuori il vero De Angelis, il suo mondo poetico, la sua scrittura che ricorda da vicino quella del primo Vecchioni. De Angelis, che assomiglia a Bobo, il personaggio di Staino, inizia una lunga serie di tour che lo porteranno in giro per l’Italia. Nel 1981 pubblica “Anche meglio di Garibaldi” che riscuote un buon successo, con pezzi come “Una storia americana” e “Ramirez”. Successivamente pubblica “Cantare in italiano” e “Mia madre parla a raffica”, dove nella canzone “Maracanà” è ospite Stefano Rosso. La sua è una voce limpida e cristallina che, sebbene non personalissima ( e riconoscibile come quella di un Venditti o di un Renato Zero), sa toccare le corde più calde ed è affabile, amichevole, simile a quella dei crooner americani.
Nel 1986 pubblica “Cammina cammina”, una raccolta dei vecchi successi più due inediti, cioè la title track e “Brutta storia”, in cui canta con il Banco del Mutuo Soccorso.
I testi di De Angelis si potrebbero definire impegnati secondo la definizione storica data dalla critica ai cantautori degli anni Settanta. In realtà, c’è spazio nei suoi testi per il sentimento e sono tante le canzoni d’amore cantate con un filo di voce. De Angelis ha un portamento signorile e non difetta di umiltà, dote rara a certi livelli. Ha il piglio del comunicatore in conseguenza del fatto che egli è anche giornalista e docente e quindi nei concerti è tutt’altro che ritroso o addirittura scontroso come il suo amico De Gregori. De Angelis intervalla i pezzi suonati a lunghe conversazioni che intrattiene col pubblico e sa creare così momenti di coinvolgimento e forte empatia.
Dopo alcuni anni in cui si dedica ad altre attività, torna alla canzone nel 1992, e pubblica “La gara di sogni”, una raccolta delle sue vecchie canzoni. Nel ’93 pubblica “ De Angelis”, un’altra raccolta, e nel 1995 pubblica “Parole nel cuore”, con pezzi come “Così vicino così lontano”, “Fratellino”, “Condizionale”. Nel 1997, “Antologia d’autore”, uno dei suoi dischi più belli in cui le sue canzoni vengono cantate in duetto insieme ad alcuni colleghi, come Antonello Venditti che canta in “Lella”, Ron in “Luci fuochi e stelle”, Tosca in “Incendiare questa mezza notte”, Lucio Dalla che canta in “Sulla rotta di Cristoforo Colombo”, Amedeo Minghi in “La gara di sogni”, Paola Turci in “Lettera per te,” Mario Castelnuovo che canta in “Rosso”, Angelo Branduardi in “Novalis” e Luca Barbarossa in “Cantare in italiano”.
“Il coraggio delle parole” è del 2003 e “Le allodole di Shakespeare” del 2005.
Nel 2008 pubblica “Historias”, disco in cui affianca ad alcuni dei suoi successi gli inediti “Cinque parole”, “Un’altra medicina”, dedicata a Ernesto “Che” Guevara, “Mamèn” e “L’anima intera”. L’album, pubblicato dal quotidiano “Il Manifesto”, è caratterizzato da arrangiamenti in stile sudamericano, curati da Fabrizio Guarino e Paolo Cozzolino. E’ uno dei suoi album più belli, ispirato alla cultura latino americana e in particolare agli scritti di Luis Sepulveda e al film di Valter Salles “I diari della motocicletta”. Dopo la pubblicazione dell’album, esegue alcuni concerti insieme a Mario Castelnuovo, suo vecchio compagno d’avventure.
De Angelis continua a svolgere altre attività collaterali, in particolare cura alcune rubriche musicali televisive e radiofoniche e tiene dei corsi nelle scuole superiori e nelle Università sul valore letterario delle opere dei cantautori italiani. Nel 2010 pubblica il libro autobiografico “Te la ricordi Lella”, accompagnato da un cd antologico, a cui fa seguito nel 2011 il nuovo album “Sale di Sicilia”, che vede la partecipazione, tra gli altri, di Neri Marcoré, Franco Battiato ed Andrea Camilleri. Un album interamente dedicato alla Sicilia con canzoni di De Angelis che parlano dell’isola oppure semplicemente nate sull’isola o ispirate da alcuni colleghi siciliani. Nel 2014 esce “Non ammazzate Anna”, un progetto musicale che prende il titolo da una sua vecchia canzone, in cui De Angelis ha raccolto alcune “canzoni dedicate alla Donna e ha così dato vita a questo album, un cd nato dalla viva esigenza di dire basta alle tante violenze che le donne subiscono ormai quotidianamente”, come si legge nel sito dell’autore.
Nel 2016 esce il suo ultimo album, “Il cantautore necessario”, prodotto da Francesco De Gregori: una raccolta di cover di suoi colleghi cantautori, De André, Fossati, Endrigo , con un duetto con lo stesso De Gregori in “La casa in riva al mare” di Lucio Dalla. Molto variegato l’universo musicale di Edoardo, che invito chi non lo abbia già fatto a conoscere o chi lo abbia dimenticato a riscoprire.
Satura 6
Immigrazione e integrazione. In Italia oggi non si parla d’altro che di emigrazione e integrazione. In ispecie gli intellettuali e gli anchor men televisivi se ne sciacquano la bocca. Gli studiosi, i professoroni che pontificano dai media, soprattutto gli esponenti del Pd, che sono la punta di diamante del moderatismo e dell’accoglienza, hanno un bel dire con il loro finto ecumenismo che porterebbe ad abbracciare tutti quelli che arrivano. I ragazzi, immigrati di seconda generazione, giovani e aitanti, che vengono invitati nelle trasmissioni televisive, sempre molto preparati e determinati, che parlano con l’accento romano o fiorentino o siciliano, contribuiscono a questa sorta di operazione simpatia voluta dalla politica democratica e progressista del Pd, ma sono uno specchio deformato, non veritiero, della realtà. Questi giovani vanno in tv per chiedere la cittadinanza italiana, per denunciare le storture di un sistema burocratico farraginoso che non permette loro di acquisire quello cui legittimamente aspirano. Ed hanno ragione. Ci sarebbe però da aggiungere che anche gli attentatori dell’Isis ormai sono tutti cittadini naturalizzati, francesi, spagnoli, inglesi, ecc., e dunque non tutti i naturalizzati italiani sono belli e bravi come quelli che appaiono in tv e soprattutto non basta nascere su suolo territoriale per essere italiani più veri di Toto Cutugno. Molti immigrati sono ottusi, ignoranti, proprio come gli italiani, e non hanno mai voluto integrarsi con il nostro popolo. Conducono vita a parte, frequentano la loro comunità di appartenenza, indifferenti, impermeabili alle nostre tradizioni, ai nostri usi e costumi. Qui lo dico e qui lo nego, e sono pronto ad essere impiccato a testa in giù, ma non sono il fratello illegittimo di Alessandro Sallusti, né il cognato “litigato” di Maurizio Belpietro, né il nipote sfortunato di Paolo Del Debbio.
La vera integrazione avviene solo attraverso la cultura. Imparare l’italiano è condizione essenziale ma non sufficiente. Gli insegnanti delle scuole primarie conoscono bene l’argomento, essi hanno il polso della situazione perché si ritrovano ormai in classi multietniche nelle quali il difficile cammino dell’integrazione è all’inizio, e quindi la formazione di base dei figli di extracomunitari è, per maestri e maestre, lavoro quotidiano ed essi sanno quante difficoltà debbano affrontare questi bambini all’incontro-scontro con la realtà italiana, ciò perché non vi vengono preparati dai genitori, e la scuola si trova sola, come unica agenzia educativa, con l’enorme responsabilità di “fare” i nuovi italiani, senza il supporto delle famiglie. Lo Ius soli è una legge che non risolve il problema, nella esplosiva situazione che viviamo in Italia. E questo si può affermare anche senza essere un pericoloso sanguinario di destra, un puzzolente razzista. L’impegno del Ministro Marco Minniti nel fermare gli sbarchi è encomiabile, ma ancora non basta. È da tutti riconosciuto che l’impegno deve essere non solo quello dei paesi frontalieri, ma di tutta l’Europa, facendo corpo unico di fronte alla più grande emergenza umanitaria del secolo. Dunque, più che di ius soli o di reddito da inclusione, bisognerebbe parlare di ius culturae. Ma il dibattito su questo tema oggi è animato da scontri faziosi e preconcetti, da divisioni farisaiche fra chi è contro gli immigrati senza se e senza ma e chi invece vuole riceverli tutti. Non è così che si può procedere, nel sommovimento in corso. Ci vorrebbe uno sguardo illuminato, frutto di un pensiero lungo, di studiosi e governanti alieni dalla demagogia e bassezza morale, da interesse e disonestà intellettuale. E chi ha uno sguardo de travers sull’oggi? Non vedo illuminati pronti a indicare la via, in questo desolante panorama.
Referendum 26 ottobre. Un referendum che non serve a nulla. Solo una bandierina che la Lega Nord può issare in quella Padania già teatro delle ardimentose imprese del Senatùr Bossi e delle sue provocazioni folkloristiche secessionistiche. Una consultazione popolare dove si poteva votare col tablet che però in Lombardia si è inceppato, fra lo scorno della casa produttrice dei tablet (pare che la ditta fornitrice sia olandese) e le difese d’ufficio del Governatore Maroni. Ma perché sostituire il voto cartaceo con quello elettronico? Va bè, io sarò vecchio, e la mia opinione conta come il due di picche. Ma Zaia e Maroni, comunque, questa partita di bridge dovranno giocarla col gentile Gentiloni a Roma per trattare tempi e modi dell’ autonomia. Ma dovranno stare attenti che Gentiloni non bluffi e che questa trovata del residuo fiscale, lungi dal migliorare i servizi al Settentrione, non lasci tutto così come è, con la sola differenza che il Sud annasperà ancora di più nel sottosviluppo e nella assenza di prospettive.
Celebration. Il più famoso dei critici televisivi italiani dileggia il più famoso dei critici musicali. Divertente. Ma fra primedonne è così. Più si sale in alto e più corrode la gelosia e dilaniano le beghe. Aldo Grasso attacca Vincenzo Mollica. In pratica, per colpire la trasmissione “Celebration”, trasmessa il sabato sera da Rai1 e l’inutile intervento all’interno di essa del giornalista musicale Ernesto Assante, Grasso scomoda il Mollicone nazionale e la sua famosa enfasi che lo porta ad osannare qualsiasi disco o cantante di cui si occupi. A chiusura del pezzo, lo scorpione Grasso trova il modo pure di fare un velenoso riferimento (in cauda venenum appunto) alla trasmissione “Tv Talk” di Raitre che evidentemente non rientra nelle sue simpatie, consigliando al logorroico Assante di andare nella trasmissione di Massimo Bernardini che ospiterebbe, a suo dire, l’ultima frontiera dei critici prestati alla tv.
OTTOBRE 2017
Cinque. Pensieri associativi
Sapessi come è strano
Sentirsi innamorati a Milano
A Milanoooo
(Memo Remigi)
Ah, i pensieri associativi. Vedo dei ragazzi battere il cinque e all’udire lo schiocco delle mani mi viene in mente la vecchissima canzone di Jovanotti, “Gimme five” (alright!). Era il primo Jovanotti, fine anni Ottanta, quello ancora disimpegnato, l’idolo dei ten agers, in cappellino e gilet a stelle e strisce. Quello di “Yo” ed “E’ qui la festa?” Amato dal pubblico ma denigrato dalla critica per il suo sfacciato, troppo ostentato giovanilismo, ché la giovinezza, fuori dall’essere un fattore anagrafico, quando diviene stato mentale, se viene sbandierata, issata come bandiera, cantata, osannata e rivendicata, fa girare le balle più di un bel po’ a chi giovane non è. E Jovanotti, quello di “Spakkiamoci le orecchie” e “Scappa con me”, veniva ritenuto quasi un rimbambito dalla stanca e un po’ barbogia critica di settore dell’epoca. Poi Lorenzo Cherubini avrebbe dimostrato che anche in quel suo disimpegno degli inizi c’era un messaggio molto forte, profondo, e dietro al suo divertentismo, all’apparente leggerezza, maturava una solida formazione che lo avrebbe portato negli album successivi ad essere uno dei più coerenti e ricercati cantautori italiani. Gimme five! 1, 2, 3, 4, 5. E tutti a battere il cinque. In effetti, nella Smorfia napoletana il 5 è proprio la mano. E dalla mano del cinque, i pensieri associativi mi portano al pentagono, la figura geometrica costituita da cinque lati, e dal pentagono, seguendo l’uzzolo, l’onda della mia ispirazione, il ghiribizzo libero e volatile, arrivo al pentacolo, la stella a cinque punte iscritta in un cerchio, simbolo magico, che per associazione mi fa pensare alla letteratura orrorifica e noir e ai tanti romanzi gotici dell’Ottocento che ho letto, in particolare quelli che hanno ad oggetto storie di streghe e di lupi mannari. Ora, il cinque, nei numeri romani, si indica con V, che è l’iniziale del mio cognome, Vincenti, e questo mi fa pensare alla mia casa, nella quale il cinque è un numero ricorrente, anzi il più ricorrente, essendo la mia famiglia composta da cinque persone, io, mia moglie e tre figli. E dunque questo numero mi insegue da presso quasi ogni giorno, nell’espletamento di qualsiasi pratica burocratica che mi tocchi fare. E di pensiero in pensiero, di stazione in stazione, di meraviglia in nostalgia, se guardo i miei ragazzi presi nelle loro occupazioni pomeridiane, lo studio oppure i giochi elettronici, vado indietro con la memoria a quando ero io un ragazzo della loro età. E così seguendo quell’arabesco nell’aria, l’associazione di idee, quella magica consonanza scatenata dal numero cinque, mi rivedo nei lunghi pomeriggi d’inverno nella mia casa natale, e si crea allora una particolare atmosfera che mi fa pensare a Memo Remigi. Sì, a Memo Remigi e a Topo Gigio. Perché Remigi, oltre ad essere un cantante, è stato sempre un personaggio televisivo, avendo condotto svariate trasmissioni in Rai e in Mediaset. E fra queste “L’inquilino del piano di sotto”, un programma per bambini degli anni Ottanta nel quale Remigi era affiancato da Topo Gigio, con Isabel Russinova e Alberto Castagna. Così ricordo anche la sigla di un “Fantastico” di quegli anni che lui cantava, “Gocce di luna”.
Ma più di ogni altra cosa, Remigi mi fa ritornare a Canale 5 e a Milano 2. Penso a quanto dovevano essere pieni di fermento quegli anni a Milano e in Brianza con quell’attivismo proprio del grande sviluppo economico e industriale. La sua canzone più nota, “Innamorati a Milano”, era la sigla di Telemilano 58 che sarebbe divenuta Canale 5. Dunque, ad un certo punto della sua carriera le sorti di Remigi si intrecciarono con quelle del Cavalier Berlusconi. Era destino insomma che il cantante incontrasse il Silvio nazionale. E se dico Silvio Berlusconi e Canale 5, ma Canale 5 di quegli anni, di quei leggendari esordi, io penso a Five, il pupazzo mascotte dell’emittente televisiva cui prestava la voce un giovane Marco Columbro. Eh sì, la suggestione ha qualcosa di fantasmatico, di inquietante, di promettente, abbagliante, confonde e imbroglia. La memoria a volte è come un vecchio juke box che aspettava solo la monetina per partire, come la molla del carillon in attesa della mano che la azionasse, il vecchio telefono nero a corona che voleva essere rimesso in uso. Ed ecco che il pentagono magico della mia fantasia, lo schiribizzo di un pomeriggio invernale, si chiude: dal cinque di Gimmi five al Five di Canale 5. Cinque pensieri associativi, uno per ogni lato del pentagono. Ah, i pensieri associativi…
OTTOBRE 2017
Luigi Grechi: storia di un pastore di nuvole
Gli stivali e la tequila sono complici perfetti
le ragazze e le cantine hann scaldato le mie notti
ma i chilometri percorsi e la gente che incontrai
non riescono a domare tutti i sogni di un cowboy.
(“Stivali e tequila” – Luigi Grechi)
Il viaggio attraverso gli anni Settanta in musica continua con un nome che la stragrande maggioranza dei lettori assocerà subito ad un altro. E del resto questo è stato il destino di Luigi Grechi, straordinario folksinger e talentuoso chitarrista, uno dei protagonisti più stimati della scena underground italiana, ma che viene quasi sempre ricordato per essere il fratello di Francesco De Gregori. Chi lo conosce però sa che la sua è stata una carriera ricca e coerente, un lungo percorso in cui Grechi non ha mai tradito sé stesso, per inseguire quel successo commerciale che evidentemente non gli era riservato. È spietatamente il mercato ad operare una selezione, ma ciò non toglie che Grechi abbia sempre avuto le carte in regola per arrivare al grande pubblico e che, se non ce l’ha fatta, è perché il suo “azzardo”, per citare il titolo di una sua canzone, non è stato premiato. Egli, “stivali e tequila”, da cowboy milanese (anche se romano d’origine) ha solcato, chitarra a tracolla, le fertili praterie della discografia italiana con una grande voglia di dire e tanta ispirazione. E infatti, “da casello a casello”, ha trovato sempre grande affetto e dimostrazioni di entusiasmo da parte del ristretto pubblico che ha seguito i suoi concerti in tutta Italia. Probabilmente il genere country, applicato alla musica italiana, declinato in chiave cantautorale, era davvero una scommessa azzardata, ma Grechi, che alla scuola americana ha fatto l’apprendistato, ha sempre tenuto da conto quelle matrici musicali. E infatti ha viaggiato a lungo negli Stati Uniti, suonando con Peter Rowan e Tom Russell, ha partecipato a festival itineranti con i poeti della Beat Generation, accompagnando alla chitarra Lawrence Ferlinghetti.
Anche gli esordi di Luigi Grechi sono legati al Folkstudio di Roma, dove egli mosse i primi passi e dove poi introdusse il fratello minore Francesco De Gregori, che sarebbe diventato la stella di prima grandezza che tutti conosciamo. Sicché questa si può dire sia stata la più riuscita impresa del talent scout Grechi, il quale invece nella propria carriera musicale, come già detto, non ha mietuto grandi successi. È conosciuto da una ristretta cerchia di appassionati cultori e da questi molto amato, se è vero che i suoi concerti sono sempre intensi e vibranti del calore di un pubblico di aficionados che non lo abbandona.
Luigi Grechi, nato nel 1944, laureato in Letteratura inglese, inizia a lavorare a Milano come bibliotecario, stesso lavoro del padre, Giorgio.
Assunto come nome d’arte il cognome materno Grechi, per sfuggire così ad ogni confronto col più noto fratello minore, nel 1975 pubblica il primo album “Accusato di libertà” per l’etichetta PDU. In questo disco ci sono pezzi già notevoli come “Accusato di libertà”, che diventerà un po’ la sua canzone manifesto, “Il mio cappotto”, e poi due brani scritti da De Gregori, “Questa è una storia antica come il sole” e “Buonanotte Nina”. Nel 1976 pubblica “ Luigi Grechi” che contiene anche due canzoni inedite di Francesco De Gregori: “Rosso corallo” e “La strada è fiorita”. Questi brani costituiscono delle chicche per i ricercatori e gli appassionati di De Gregori.
Nel 1979 è la volta di “Come state?”, nel quale album è presente il brano “Dublino”, scritto con De Gregori, uno dei suoi più belli, e “La regola d’oro” che è una traduzione di “One of us cannot be wrong” da Leonard Cohen, e ancora le importanti “Il rock della crostata” e “Chitarrista cieco”, una delle poche sue canzoni di impegno civile. Del 1987 è “Dromomania”, album prodotto da De Gregori, con “Supergatto” e “Barry”.
Nel 1990 pubblica “Azzardo” che contiene la prima versione de “Il bandito e il campione”, della quale poi si impossessa De Gregori che la pubblica nel suo album live del 1993 portandola al successo. Da quel momento anche il nome di Grechi comincia a girare, dati i riconoscimenti che vengono tributati alla canzone. In seguito Grechi la ricanterà inserendola in tutti gli album e interpretandola sempre dal vivo a volte anche col fratello. Proprio grazie al successo della canzone, Grechi, prima snobbato dalle major del disco, ha la possibilità di pubblicare con la Sony un album, nel 1994, “Girardengo e altre storie”, contenente la sua versione del “Bandito e il campione” accanto ad altre canzoni nuove e ad alcune vecchie riprese. L’album è prodotto da Vincenzo Mancuso, storico collaboratore di De Gregori. Fra le varie tracce, è presente “L’isola di Toni”, che rappresenta la continuazione della storia di Sante Pollastri raccontata in “Il bandito e il campione”.
Nel 1999 esce “Così va la vita”, prodotto da Guido Guglielminetti, che accosta ancora nuove versioni di brani già noti ad altre canzoni inedite come “Pozzo n.9”, “Al primo canto del gallo”, “Senza regole”, e soprattutto “L’angelo di Lyon”, anche questa portata al successo dal fratello De Gregori nel suo album “Per brevità chiamato artista”del 2008 ; in realtà si tratta di una cover di “The Angel of Lyon” del cantautore statunitense Tom Russell tradotta da Grechi. Nel 2003 pubblica “Pastore di nuvole”, che a mio avviso è il suo capolavoro ed è anche il disco col quale io l’ho scoperto. “Eccolo lo stronzo!-Il fuoco e la danza-Le vespe-Diggeridoo-Ma che vuoi da me?-Venti gradi sotto zero-Al di là del confine-Stivali e tequila-Supergatto-Pastore di nuvole”: questa la track list dell’album. “Ma che vuoi da me” è una traduzione del brano “What do you want” di Tom Russell; a suonare l’armonica in questo pezzo è suo fratello, Francesco De Gregori che suona anche la clavietta in “Venti gradi sotto zero”. Chitarre elettriche e acustiche sono suonate da Paolo Giovenchi, collaboratore di De Gregori, fisarmoniche da Dayana Sciapichetti, dobro e pedal steel da Alessandro Valle e il disco è prodotto da Guido Guglielminetti, che suona il basso, mentre Elio Rivagli la batteria.
Dopo due album antologie, nel 2005 e nel 2007, nel 2012 pubblica l’album “Angeli & fantasmi”, utilizzando per la prima volta il suo vero cognome e non quello della madre. Spiega in un’intervista a “Repubblica”: “Devo dire che è stato Francesco a suggerirmelo per primo. ‘Sarebbe ora’, mi ha detto. E aveva ragione. A questo punto non avevo nessuna remora, nessun buon motivo per non farlo. Da giovane avevo l’esigenza di differenziarmi, preferivo evitare di proclamare questa fratellanza, adesso ormai sono anziano, non ho più bisogno, e così attenuo anche il fatto di essere Luigi Grechi ‘il fratello'”. Nell’album sono presenti quattro brani inediti, ovvero “Al falco ed al serpente”, splendida storia di immigrazione, “Ultime della sera” che ci presenta un “newsboy” dei nostri tempi, “Torna il bandito” che è la terza parte de “Il bandito e il campione”, a concludere la saga di Girardengo e Pollastri, e poi “Quello che mi resta”, un omaggio a Stefano Rosso. Viene anche rieditata “La strada è fiorita”, canzone vecchissima di De Gregori mai incisa prima e lo stesso Francesco suona l’armonica in “Senza regole”. Oltre a Giovenchi al basso e Parenti alla batteria, nel disco suona anche Andrea Tarquini, già chitarrista di Stefano Rosso.
Nel 2014 Grechi è protagonista del “Folkstudio happening”, festeggiamenti per il mitico locale romano. Grechi rimise in piedi per l’occasione il duo “I giovani del Folkstudio”. Come è scritto sul suo sito (www.Luigigrechi.it), “I “giovani” (ahimè non più giovani) in questione cominciarono a calcare le scene del Folkstudio di via Garibaldi alla fine degli anni ’60…ebbero l’onore di essere incaricati dal “boss” Giancarlo Cesaroni di dirigere il primo “Folkstudio Giovani” della domenica pomeriggio, uno spazio che poi divenne la fucina della cosiddetta “scuola romana” di cantautori ( De Gregori, Locasciulli, Rino Gaetano, Venditti…). Si facevano chiamare “Cisco & Ludwig” e proponevano un repertorio di folk revival: si persero di vista, uno percorse un’onorata carriera di clinico illustre e professore universitario (Francesco Pugliese), l’altro iniziò a Milano la sua avventura di cantautore con lo pseudonimo di Luigi Grechi, mettendo a segno qualche colpo fortunato (“Il Bandito e il Campione”, premio “Tenco” nel ’93). L’amore per una musica semplice e diretta, lontana da mode e preoccupazioni commerciali, in altre parole lo ” Spirito del Folk”, non li ha mai lasciati e così, quando si sono nuovamente incontrati, hanno deciso di imbarcarsi in questa avventura (con la complicità di un Asino che Vola) per ricreare le atmosfere del mitico locale di Trastevere nel terzo millennio. “Non solo – spiegano Cisco e Ludwig – per una sorta di “operazione nostalgia”: non siamo più negli anni Settanta e anche la parola folk chiede di essere ridefinita, ma in questo non vogliamo essere noi a fare scuola: tutto dipenderà dalle proposte musicali e dal pubblico che riusciremo ad aggregare dopo questa prima serata…”.
Nel 2015 esce “Tutto quel che ho 2003-2013”. Il titolo è un verso di “Ma che Vuoi da Me”, canzone che apre la compilation e ben si presta a introdurre questo artista, come è scritto nel suo sito, “ che è sempre stato in bilico (ma non troppo) fra musica americana (folk e alt-country, per lo più) e tematiche di casa nostra. Così è il cambiamento di scenario, oltre all’uso accorto della lingua italiana (con qualche incursione nelle lingue locali, vedi Venti gradi Sotto Zero) a fare l’originalità del lavoro di Grechi. Lui stesso rifiuta di appiattirsi sulla figura del country-man: semmai è un folksinger, a volte sregolato e imprevedibile, che si è ispirato al mondo musicale d’oltreoceano senza cadere nelle trappole dei luoghi comuni, in un lavoro di ricerca fatto nell’ombra e che ha dato i suoi frutti con i tre ultimi CD i cui brani più rappresentativi sono qui raccolti. A cominciare da quella Il Bandito e il Campione che gli ha dato notorietà e che introduce una sorta di “trilogia del bandito”, con L’Isola di Toni e Torna il Bandito, fino ai “camei” di Francesco De Gregori all’armonica su Senza Regole e Ma Che Vuoi da Me e come autore dell’inedita (per lui) La Strada è Fiorita e, insieme a Luigi, di Dublino. Canzoni di spessore (Il Fuoco e la Danza) ed a volte inquietanti (Aldilà del Confine) oppure surreali come un cartoon di Silvestro (Supergatto), squarci di vita quotidiana vissuti con ironia (Le Vespe). Visioni oniriche (Al Primo Canto del Gallo) e storie di emigrazione (Al Falco ed al Serpente). Fa poi capolino una coppia di innamorati ai tempi di una preistoria felice (Diggeridoo). Oppure il clochard de L’Angelo di Lyon, o lo strillone che vende i suoi giornali (Ultime della Sera), o il forgiatore/chitarrista cieco (Chitarrista Cieco, appunto). Questi i personaggi e gli argomenti tra cui si muove Grechi: che in questo disco presenta il meglio di sé”. Cosa aggiungere? Oggi Grechi vive in Umbria; è sempre on stage e continua a proporre la sua musica senza tempo.