L’ossessione della competitività

di Guglielmo Forges Davanzati

Intervenendo all’apertura dell’anno accademico del Politecnico di Milano, il Ministro Fedeli ha dichiarato: “Le scelte di questo Governo e di quello precedente dicono che si vuole tornare a investire e a puntare su università dopo un triennio dedicato alla scuola. Basta parlare di spese, queste non sono spese, sono investimenti sull’economia della conoscenza che vanno fatti, senno’ non si sta fermi ma si regredisce come società. Il messaggio che questa legislatura sta offrendo è un messaggio di speranza e fiducia nel futuro dell’Italia, che si alimenta non con le parole ma con i fatti, senza ricerca non possiamo davvero competere con successo sullo scenario internazionale”. Dove il passaggio cruciale attiene al nesso fra investimento in istruzione e competitività internazionale. La ratio che è alla base di questa dichiarazione sta nella convinzione che l’aumento della dotazione di competenze accresca la produttività del lavoro, che l’aumento della produttività del lavoro riduca i costi di produzione, che la riduzione dei costi di produzione, consentendo alle imprese di ridurre i prezzi, aumenti le esportazioni e il tasso di crescita.

Questi nessi rilevano non poche criticità.

1) Dal punto di vista di un Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, ci si attenderebbe innanzitutto che le spese per scuola e università non siano e non debbano essere giustificate con l’obiettivo dell’aumento della competitività delle imprese italiane. L’istruzione ha innanzitutto un valore in quanto tale, se non altro perché accresce il grado di civiltà di un Paese (ed eventualmente, in seconda battuta, il suo Pil).

2) Il nesso implicitamente postulato dal Ministro fa riferimento alla crescita delle competenze (il saper fare) non a quella delle conoscenze. Si tratta di una differenza importante. La linea governativa – di questo Governo, come dei governi che lo hanno preceduto – è basata su una visione di breve periodo del ruolo che un’istruzione diffusa può svolgere ai fini della crescita economica, che trascura il fatto che in un’economia con rapido avanzamento tecnico le competenze acquisite oggi tendono a diventare rapidamente obsolete e che, per conseguenza, ciò che bisognerebbe fare è potenziare le capacità critiche di apprendimento (il saper imparare).

In termini più generali, le politiche formative in Italia nel corso dell’ultimo decennio sono state declinate esclusivamente per la possibile soluzione di problemi economici: dai tagli del Ministro Tremonti, finalizzati alla riduzione della spesa pubblica e all’obiettivo di generare avanzi primari, alle proposte (tutte da verificare) per una ripresa della spesa per il settore della formazione questa volta finalizzati all’aumento delle esportazioni. Il primo tentativo è almeno parzialmente fallito. Le misure di austerità adottate a partire soprattutto dallo scoppio della prima crisi greca del 2010 hanno sì generato risparmi del settore pubblico ma anche crescita del debito pubblico in rapporto al Pil, per effetto della contrazione di quest’ultimo.

Il richiamo (ossessivo) alla competitività è poi del tutto fuorviante. Innanzitutto la ricerca scientifica produce risultati di lungo periodo e, come è ben noto, assolutamente non certi. Non a caso, le principali innovazioni nella storia del capitalismo del Novecento sono state rese possibili attraverso un preventivo investimento pubblico in ricerca e sviluppo, a ragione del fatto che le invenzioni possono solo in alcune condizioni (dunque, non sempre) tradursi in innovazioni utilizzabili da imprese private (il c.d. capitale paziente). Cosa che spiega perché le imprese private trovano al più conveniente utilizzare invenzioni già realizzate tramite finanziamenti pubblici, laddove sussistano le condizioni per renderle innovazioni tali da generare profitti. Ciò vale a maggior ragione per la ricerca c.d. di base (p.e. la ricerca in ambito matematico o in area umanistica) dove, ancor più della ricerca applicata (tipicamente quella ingegneristica) i risultati sono incerti e di lungo periodo.

L’obiettivo di accrescere la competitività, per contro, in un contesto di globalizzazione – ovvero di crescente mobilità internazionale dei capitali e di orientamento al profitto di breve periodo – è da perseguire mediante appunto misure che agiscono nel breve periodo. Ciò non significa che la formazione non possa servire per rendere più competitive le nostre esportazioni ed eventualmente per attrarre capitali dall’estero, ma ciò può avvenire per canali indiretti: p.e. perché una diffusa scolarizzazione è associata a bassa propensione al crimine, che, di per sé, a parità di altre condizioni, è un fattore di incentivo agli investimenti.

La dichiarazione del Ministro potrebbe aver senso solo a condizione di pensare al solo finanziamento della ricerca applicata, che, come accade oggi, è di norma su basi competitive. Si tratta essenzialmente di grandi progetti di ricerca finanziati, nel caso italiano, dall’Unione Europea (il più noto è Horizon 2020) che ovviamente devono essere svolti sulla base delle esigenze del committente. La si potrebbe pensare come una modalità aggiornata di mecenatismo. Che nel caso italiano, viola il dettato costituzionale e la libertà di ricerca lì sancita (art. 9, 33 e 34). Il punto critico di queste misure è che nella migliore delle ipotesi possono produrre innovazioni (teoriche e di ricerca applicata) incrementali: per definizione, ovvero perché commissionate e dunque conformi agli interessi di chi le commissiona, non possono produrre ricerche radicalmente innovative. Anche il finanziamento di tipo “premiale” che il MIUR (peraltro con importi irrisori) propone da qualche anno rientra in questa fattispecie. La premialità fa infatti riferimento non al potenziale innovativo di ciò che il ricercatore intende fare, ma al presunto prestigio delle riviste accademiche che hanno ospitato sue pubblicazioni ovviamente di ricerche già svolte. Il fatto che il premiato sia stato un ricercatore ‘eccellente’ – va da sé – non implica che lo sarà.

Quest’ultima considerazione è rilevante per l’ipotesi governativa che fa riferimento al tentativo di bloccare lo sciopero dei professori finalizzato a recuperare gli scatti stipendiali persi dal 2011. Questa ipotesi si traduce nella proposta di selezionare l’attribuzione degli scatti appunto su base premiale, ovvero retroattiva, ovvero sulla base di ciò che docenti e ricercatori hanno già pubblicato. Il problema è che il primo esercizio di valutazione della ricerca (VQR), con tutte le criticità che ha mostrato, è del 2014; il blocco degli stipendi risale al 2011. Come quantificare la qualità della ricerca – ammesso sia possibile farlo – in un periodo che precede l’elaborazione degli algoritmi a tal fine immaginati?

[Pubblicato anche sul “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 23 novembre 2017]

 

 

 

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