di Antonio Prete
Corpi lucenti su cartoline da eden e corpi sfigurati e straziati, sabbie con palmizi da pubblicità dell’altrove e cumuli di macerie tra fanghiglia e detriti. Le seconde immagini divorano le prime. Il disastro cancella ogni esotismo, annulla il prima della tragedia, ne mostra l’effimera consistenza. Il maremoto va al di là della sua area di impatto, scivola tremendo nelle regioni dell’Europa, nei suoi miti d’evasione, nel suo altrove formato pacchetto turistico. Ma il disastro si abbatte con maggiore ferocia sulla povertà e sulla miseria delle popolazioni locali, su paesi privi di ogni difesa, di ogni allarme, lontani anche da quel poco che la scienza ha potuto costruire quanto a sistemi di previsione. Appare, in una concentrazione spazio-temporale, e in maniera fortemente intensiva, quella distruzione dei viventi che la storia degli uomini persegue da sempre con le guerre e in modo assiduo, instancabile, violentissimo. Se il disastro provocato dalla natura, dalla sua attività ed energia, è per così dire dispiegato alla vista e ai pensieri degli uomini, tutto esposto nella sua violenta e rapidissima crudeltà, il disastro delle guerre è reso opaco e in certo senso anestetizzato dalle pretese giustificazioni, dalle strategie, dalle esibite ragioni politiche, dal fatto che è diffuso in uno spazio geografico estesissimo, dall’abitudine alla notizia, dallo stesso nascondimento delle immagini: può anche accadere l’assurdo, com’è spesso accaduto, che cioè la guerra-distruzione sistematica degli esseri viventi e della stessa natura- possa essere ritenuta necessaria.
Un disastro e l’altro disastro sono due forme dello stesso tragico. Commuoversi sull’uno e tacere sull’altro significa guardare solo dove i corpi straziati sono immagine, presenza, dove la morte appare prossima, possibile, contigua. Il primo disastro appartiene alla physis, appartiene a quel “ciclo di produzione e distruzione” che gli illuministi vedevano come proprio della natura, della sua vita.
Il secondo disastro è frutto della violenza distruttiva portata da una ratio politica che pensa la guerra come strumento di dominio e di ordine, anche se maschera tutto questo con propositi democratici o, qualche volta, umanitari. Se molto poco l’uomo può dinanzi alla natura che distrugge e quel poco, che consiste nel prendersi cura del paesaggio naturale, nel rispettare la sua armonia, le sue leggi, il suo equilibrio, spesso è eluso o negato- molto può invece dinanzi all’altro ordine distruttivo che è rappresentato dalle guerre. Da più parti si scrive questi giorni, dinanzi alle immagini di miseria e abbandono che vengono dal Sud-Est asiatico, di un “senso di colpa” dell’opulento e finora indifferente Occidente. Per attenuare questo senso di colpa, il rimedio sarebbe molto semplice, di quella semplicità che la politica spesso riconosce come ingenua o utopica o appunto impolitica: dislocare le spese militari, trasformarle in soccorsi e ricostruzione, dislocare gli eserciti di occupazione e trasformarli in eserciti di aiuto civile alle popolazioni colpite. Riprendere il discorso planetario- sul disarmo dovrebbe essere il primo atto di una possibile solidarietà. Perché è ipocrita soccorrere da una parte e distruggere dall’altra. Si è riflettuto, questi giorni, sulla catastrofe, sul pensiero intorno alla catastrofe. Dopo il disastro di Lisbona del 1755 deflagrò nel sapere degli illuministi l’illusione ottimistica, e si avviò una riflessione che da Voltaire via via fino a Leopardi sottrasse certezze al sogno o progetto della “pubblica felicità”: la catastrofe aveva messo allo scoperto la fragilità dell’individuo, del corpo individuale, la sua caducità, la sua insignificanza dinanzi alla lingua della natura, ma anche aveva mostrato l’incongruenza di una urbanizzazione che non assecondava le forme della natura, aveva infine mostrato quanto profonda fosse la distanza dalla natura perseguita strenuamente dalla civiltà. Leopardi, dall’Epistola in versi di Voltaire “sur le dèsastre de Lisbonne” prende soprattutto l’ironia amara sull’ottimismo societario dei filosofi moderni, i quali pretendono di fare “des malheurs de chaque être un bonheur gènèral” (“dell’infelicità del singolo una felicità universale”): Zibaldone, 4175, 22 aprile 1826. Ma la meditazione leopardiana sulla catastrofe è consegnata, come tutti sanno, ai versi della Ginestra (“un’onda / di mar commosso” fa pensare all’evento tragico del Tsunami). Non è certo questo il luogo di un commento ad uno dei più grandi testi della nostra poesia, valga solo l’invito alla lettura, alla rilettura. Tra i tanti straordinari passaggi, ce n’è uno che lega la riflessione sulla distruzione operata dalla natura alla riflessione sulla guerra (in molti passi dello Zibaldone Leopardi parla delle guerre moderne, considerate come effetto della congiunzione tra astrazione e violenza: la tecnica, propria della civiltà, astrae dal corpo del singolo, dal suo essere senziente e vivente, rendendolo invisibile, puro anonimo numero). In un passaggio della Ginestra il poeta dice che tra gli uomini “nobil natura” è quella che è in grado di riconoscere la propria condizione di sofferenza, quella che, sollevando gli occhi, senza veli, al “comun fato”, accetta il proprio limite, “né gli odii e l’ire / fraterne, ancor più gravi / d’ogni altro danno, accresce / alle miserie sue . . . ” Le guerre, infatti, aggiungono miseria a miseria, distruzione a distruzione. Invece il legame tra i viventi, il considerare gli uomini “tutti fra se confederati” dinanzi alla violenza distruttiva della natura, e l’accettare la condizione umana di esposta mortalità, può dare nuovo fondamento (“altra radice”) al “conversar cittadino”, ma anche a “giustizia e pietade”. E’ insomma a partire dal riconoscimento della finitudine che appare necessario il legame tra i viventi: da qui si può ricomporre un principio di convivenza che non aggiunga la distruzione umana a quella naturale. Ma è con l’immagine stessa del fiore che il bellissimo testo poetico consegna alla nostra meditazione sulla catastrofe una figura che è pensiero del tragico, pensiero nel tragico. La ginestra è il fiore del deserto, della lava, della distruzione. Per questo sa della sua mortalità. La finitudine è il suo orizzonte. Il sapere della morte è il suo respiro. La sua fragilità, la sua esposizione alla morte la sottraggono all’orgoglio di un preteso dominio sulla natura e sulla vita, la sottraggono all’illusione, propria degli uomini, di poter opporre al declino e al destino una storia progressiva, con le sue magnifiche sorti. La ginestra vive nella finitudine, nella sua consapevolezza, ma pur stando in questo orizzonte che accetta il limite, “consola” il deserto, cioè quello che è intorno a lei, lo consola con quello che ha di più impalpabile, e leggero, e invisibile: il profumo. Testimone della distruzione, il fiore del deserto, nato sulla lava, non rinuncia al suo essere appunto un fiore, al suo colore, non rinuncia alla sua esistenza leggera e profumata. Questa fragilità che agisce non nell’orizzonte del potere -potere sulla natura, sulle cose, sugli uomini- ma solo nell’orizzonte della finitudine è, certo, la lingua stessa della poesia. Ma è anche, per gli uomini, l’indicazione di un modo d’essere. Di uno stare al mondo. Il fiore sull’abisso: la vita stessa.
[Il 26 dicembre 2004 il terzo più potente terremoto mai registrato (9,1 gradi Richter) provocò un’onda di maremoto che uccise oltre 230 mila persone in 14 Paesi affacciati sull’Oceano Indiano. La riflessione di Antonio Prete sull’evento catastrofico apparve col titolo Lo tsunami e la ginestra di Leopardi, in “Liberazione”, 11 gennaio 2005.]