L’assenza del padre nell’indifferenza dei nostri tempi

di Antonio Errico

Alcuni giorni fa, in un articolo sul “Messaggero”, Luca Ricolfi analizzava puntualmente le ragioni che hanno determinato quella che si può definire una società senza padre.

Vecchie e nuove ragioni. Tutte giuste, probabilmente. Alle quali si potrebbero aggiungere quelle che non si riescono a individuare, a riconoscere precisamente. Ragioni collettive, individuali, profonde, superficiali, storiche, recenti.

Per i motivi che in tanti espongono circostanziatamente, per altri che qualcuno riferisce ancora vagamente, essendo la materia di una complessità psicologica, sociologica, culturale estrema, la scomparsa del padre è ormai definitiva e senza rimedio, e con il padre è scomparso un universo di riferimento, si è interrotto il rapporto con il senso delle storie di cui il padre era il narratore, si è ridotta o forse addirittura azzerata la motivazione del racconto, si è messa a rischio perfino la sopravvivenza della narrazione e della letteratura, se si vuole seguire la direzione accennata da Roland Barthes, quasi quarantacinque anni fa, ormai, nel “Piacere del testo”.

Diceva Barthes: “La morte del Padre toglierà alla letteratura molti suoi piaceri. Se non c’è un Padre, a che raccontare delle storie? Ogni racconto non si riconduce forse all’Edipo? Raccontare non è sempre cercare la propria origine, dire i propri fastidi con la Legge, entrare nella dialettica dell’intenerimento e dell’odio? Oggi si chiude con l’Edipo come col racconto: non si ama più, non si teme più, non si racconta più”.

Si potrebbe anche dire che la scomparsa del padre sia stata provocata da una frantumazione del concetto e della funzione che assume l’esperienza. Quello che è stato non interessa al figlio e non interessa neppure al padre. Non interessa il modo in cui è stato; non interessa avere conoscenza di come sono stati il deserto o la foresta o il mare che colui che c’era prima, colui dal quale si proviene, ha attraversato. Che cosa ha visto, con quali mostri di fiaba e di realtà ha combattuto, da quali splendori è stato abbagliato, da quali sirene è stato richiamato, quali incanti e disincanti ha avuto, quali amori e disamori, quali timori e quali spavalderie, quanti treni ha preso e quanti ne ha persi, quali vizi ha avuto e quali virtù, con quali errori si è confrontato, quali meriti gli sono stati riconosciuti o negati. Al figlio non interessa avere conoscenza; al padre non interessa avere memoria.

Nessuno dei due sa che cosa farsene dell’esperienza e della memoria.

Se poi l’esperienza e la memoria hanno una qualche relazione con la storia, allora non si sa più che farsene della storia.

Nel processo multiforme, composito, articolato, che ha avuto come esito la scomparsa del padre, forse si è salvata la dimensione affettiva, quindi esclusivamente soggettiva. Forse si è salvata – ma è inevitabile chiedersi ancora per quanto – quella dialettica dell’interenimento, del dialogo silenzioso, della reciprocità sentimentale, della memoria malinconica, dell’intimità protettiva che trovano una sintesi essenziale, lirica, idealizzata, nella meraviglia di una poesia di Alfonso Gatto, che voglio riportare: per memoria.

“Se mi tornassi questa sera accanto/lungo la via dove scende l’ombra/azzurra già che sembra primavera,/per dirti quanto è buio il mondo e come/ ai nostri sogni in libertà s’accenda/ di speranze di poveri di cielo/io troverei un pianto da bambino/e gli occhi aperti di sorriso, neri/neri come le rondini del mare./Mi basterebbe che tu fossi vivo,/un uomo vivo col tuo cuore è un sogno./Ora alla terra è un’ombra la memoria/della tua voce che diceva ai figli:/– Com’è bella notte e com’è buona/ad amarci così con l’aria in piena/fin dentro al sonno – Tu vedevi il mondo/nel plenilunio sporgere a quel cielo,/gli uomini incamminati verso l’alba”.

Però, poi, ad un certo punto, viene spontaneo domandarsi, ancora, quale connotazione abbia questa scomparsa del padre.

Ogni generazione ha rimosso i padri. E’ una fase fondamentale del processo di crescita. Ma forse la contemporaneità si ritrova in una situazione che nessun tempo ha mai vissuto. Forse non c’è una rimozione del padre da parte del figlio, ma un rifiuto, più o meno intenzionale, di esserci da parte del padre, un suo ritrarsi, un destinarsi volontariamente all’esilio. Non c’è una negazione dell’esperienza del padre da parte del figlio ma una convinzione da parte del padre che non esista un’esperienza significativa da raccontare. Come se dicesse: ho fatto errori ma non so insegnarti a non rifarli; non ho avuto meriti, virtù, non ho avuto incanti, non ho avuto nemmeno disincanti, né passioni, illusioni, delusioni, non ho avuto battaglie né riposi dopo le battaglie, non ho avuto sconfitte e non ho potuto cercare rivincite, non ho avuto furori né astratti né concreti, non ho guadagnato niente e non ho perso niente. Non sono stato buono e neppure cattivo. Non sono stato nessuno, perché non ho voluto esserlo.

Forse è questo il sentimento del padre. Non potrebbe raccontare altro che il proprio non essere stato, il proprio non essere. Così decide di scomparire. Si traveste: da amico del figlio, da compagno di giochi. Frequenta i suoi amici, i suoi stessi luoghi. Indossa gli stessi abiti.

Il padre non è scomparso. Il padre c’è. Però avverte di non avere nulla da dire, nulla da insegnare. Di non avere esperienza. Sente che ha bisogno di crescere. Non vuole pensare che si sia fatto tardi. E’ per questo motivo che si traveste: per poter ritornare ai quindici, ai diciotto anni, e poter avere il tempo di crescere, di realizzare un’ esperienza da poter raccontare. Quella frenesia triste che hanno i padri di questo tempo, quel loro camuffarsi da ragazzini, quella loro costante allegria artificiosa, forse derivano dal contrasto fra quello che sono e che hanno e quello che vorrebbero essere ed avere.

Forse derivano dal rammarico per una mancata identità. Forse derivano dal segreto dispiacere di non rassomigliare ai padri sapienti che hanno avuto.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 12 novembre 2017]

 

 

 

 

 

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