di Guglielmo Forges Davanzati
L’istituzione di zone economiche speciali (Zes) in alcune aree del Mezzogiorno rischia di incorrere in un duplice effetto negativo.
1) Il primo rischio è di ordine generale. Il provvedimento mira ad attrarre investimenti al Sud prevalentemente attraverso agevolazioni fiscali e semplificazioni amministrative, ma non incide affatto sulle condizioni di contesto che rendono l’investimento privato nel Mezzogiorno, di norma, poco conveniente. In sostanza, le Zes rischiano di riproporre la fallimentare idea per la quale per attivare nuovi investimenti è sufficiente agire sulla leva fiscale. Purtroppo così non è, e così non è stato. In particolare al Sud. L’automatismo che implicitamente regge queste misure si blocca quando ci si interroga sulle variabili che, nei fatti, motivano le imprese a investire. Fra queste variabili, la principale attiene ai profitti attesi. I quali, a loro volta, sono determinati dalla domanda. In una condizione di continua riduzione dei salari al Sud e di aumento del tasso di disoccupazione (o, nella migliore delle ipotesi, di aumento dell’occupazione precaria), attendersi che gli investimenti aumentino perché aumenta la domanda è, a dir poco, irragionevole. Più ragionevole è attendersi che la fiscalità di vantaggio accordata alle imprese si traduca in un ulteriore aumento delle diseguaglianze distributive, proprio nell’area del Paese nella quale queste sono cresciute più rapidamente negli ultimi anni.
2) Il secondo rischio può verificarsi su scala regionale. Il provvedimento concentra risorse nelle aree portuali, laddove – si suppone – possa generarsi un circolo virtuoso derivante dagli effetti moltiplicativi dell’indotto. E’ certo che ciò si verificherà? C’è da dubitarne, se si considera il fatto che le aree portuali (Bari, in primis) sono già le aree relativamente più ricche della regione e che non vi è nessun nesso stringente che determini un trasferimento (successivo) di risorse dal capoluogo ad altre aree della regione. In sostanza, l’effetto ipotizzato appare una variante locale dell’effetto locomotiva, per il quale se le aree più ricche si arricchiscono segue un arricchimento anche delle aree più povere. Nei fatti, questo effetto non si verifica. Anzi. Di norma, provvedimenti che avvantaggiano le aree con reddito pro-capite maggiore generano meccanismi di causazione cumulativa che semmai impoveriscono le aree con reddito pro-capite più basso. Ciò a ragione del fatto che – ammesso che il provvedimento funzioni – la crescente polarizzazione di imprese in alcune zone della regione tende ad attrarre investimenti in quelle aree, sottraendoli ad altre. A ciò si aggiunge una questione puramente politica, che attiene alla inevitabile competizione fra aree per accreditarsi come zone ‘speciali’, ovvero per avere maggiori fondi, con effetti di sostanziale svuotamento del progetto. A titolo puramente esemplificativo, qual è la ratio economica per la quale il Molise dovrebbe, in qualche modo, convergere in aree pugliesi portuali per formare insieme una Zes?
E’ vero che la Puglia è una realtà molto variegata per quanto attiene alla struttura produttiva e alla sua specializzazione produttiva, con aree nelle quali si concentrano produzioni a più alto valore aggiunto e aree il cui sviluppo è demandato a un turismo povero o, ancor peggio, a un’attività agricola spesso sommersa. Introdurre, in questo contesto, meccanismi di premialità su basi competitive può accelerare la doppia velocità con la quale già oggi il tessuto produttivo locale si muove.
Queste criticità derivano da una visione in larga misura distorta del ruolo assunto dal Mezzogiorno nella fase di ristrutturazione del capitalismo italiano e delle misure di politica economica più efficaci. Occorre ricordare che, su fonte Istituto per il commercio estero, a fronte della perdita del 25% di produzione industriale in Italia negli anni della crisi, le poche imprese innovatrici italiane si sono localizzate quasi esclusivamente al Nord, con rapporti di subfornitura rispetto alle imprese del centro-Europa (Germania in primis). Il Mezzogiorno non è più dunque un mercato di sbocco per le imprese del Nord e questo, in buona misura, spiega il sostanziale disinteresse per la ‘questione meridionale’ nel corso degli ultimi anni. Ma, a ben vedere, è proprio nelle fasi nelle quali le divergenze regionali sono state minori che l’Italia nel suo complesso è cresciuta di più.
Il Mezzogiorno ha bisogno innanzitutto, e nel suo complesso, di un rilevante investimento pubblico in infrastrutture. Ciò innanzitutto per una banale ragione di equità nella distribuzione regionale di servizi pubblici, essendo inammissibile il fatto che spostarsi all’interno del Sud sia più costoso, e richieda più tempo, dello spostarsi da Sud a Nord. Le infrastrutture generate da investimenti pubblici possono produrre attrazione di investimenti più di quanto possa farlo la decontribuzione e la semplificazione amministrativa accordata a una Zes. Con altre denominazioni, e in modalità leggermente diverse, il provvedimento che è alla base delle zone economiche speciali è già stato attuato, sostanzialmente senza esito. L’infrastrutturazione del Mezzogiorno ha, per contro, proceduto a ritroso, con un sistema di trasporti (in virtù anche di una maldestra politica di privatizzazioni) che, nel 2017, ricorda, per molte tratte, l’Italia degli anni cinquanta. Sarebbe buona norma non ripetere errori del passato e sarebbe equo ed efficiente ripensare a forme di intervento non straordinario per il Sud nella sua interezza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 5 novembre 2017]