I resti di Babele 5. La macchina da scrivere

di Antonio Errico

Così, all’improvviso, senza nessun sintomo, nessun avvertimento, il computer s’inchioda, non va avanti né indietro. Non risponde ai clic. Non si spegne nemmeno. Il gatto sul desktop mi fissa sornione. Il cellulare del tecnico mi informa con cortesia che il cliente che sto chiamando non è, al momento, raggiungibile. Devo scrivere qualcosa da consegnare entro tre ore e non posso farlo con una calligrafia da antico egizio. Su uno scaffale della libreria c’è una Olivetti  44. Credo che abbia più o meno cinquant’anni. Io l’ho usata per più di venticinque. Tra le immagini dell’infanzia c’è mio padre davanti a questa macchina da scrivere, con una carta carbone tra due fogli. La guardo per un istante. Immagino che anch’essa mi guardi.  Mi viene in mente una poesia di Trilussa che definisce i vecchi oggetti come “ patacche dell’epoca, puzzonate der secolo passato”.  L’ansia, però, comincia a placarsi.  La tiro fuori dallo scaffale. L’appoggio sul tavolo. Infilo la carta  nel rullo. Comincio. Ed è una madeleine proustiana. Un’epifania della memoria. Uno straniamento. Un’evocazione. Un ritorno. Il sogno di un altro tempo ad occhi aperti.  Il ticchettio, il lento girare del nastro, il ritmo dei tasti che si piega docilmente alla parola che si pensa e che si scrive, fanno riemergere un mondo che non c’è e non ci sarà mai più, a meno che un giorno tutti i computer non diano forfait ed ognuno di tutti quelli che hanno dai quaranta in su non riprenda la macchina che ha conservato gelosamente da qualche parte. Accettando anche di riprendere i sogni, e tutte le partite della vita vinte e perse.

Una volta, la redazione di un giornale era un’orchestra straordinaria.  Con la sua macchina ognuno suonava in un modo personalissimo. Riconoscevi la frenesia di uno, la pacatezza di un altro. Potevi capire quanto tempo aveva per fare il pezzo dalle pause che si concedeva, dal modo con cui riportava indietro il rullo, dalla rapidità con cui sfilava un foglio e infilava l’altro.

C’è un’immagine che è diventata un’icona: quella di Montanelli  seduto su una pila di libri e vecchi giornali, con il bavero rialzato, il cappello sollevato sulla fronte, la macchina da scrivere sulle ginocchia.
Ma si dice macchina da o per scrivere? I puristi vorrebbero “per scrivere” (giustamente);  le persone impure e normali dicono “da scrivere”. Alla voce “macchina per scrivere”, Luciano Satta in Come si dice. Uso e abuso della lingua italiana sostiene che comunque si raccomanda la forma “per”, in quanto “da” seguito dall’infinito attribuisce al verbo valore passivo. E’ l’antico dilemma se venga prima la pratica o la grammatica.

Il tecnico trova la mia telefonata sul suo cellulare e mi richiama. Adesso sono io che non gli rispondo. Per quella sera non mi serve più. Continuo a scrivere con la Olivetti 44. Si incanta qualche tasto, il martelletto con la lettera “a” resta a metà tra la base e il nastro, lo riporto giù con un dito, e ribatto più forte. Perfetto. Scrivo. Con questa macchina un tecnico non mi serve. Basterebbe soltanto una goccia d’olio. Ma non ho tempo. Scrivo, e ho trent’anni di meno.

[Gli articoli pubblicati in questa rubrica sono una selezione di quella che dal 2010 Antonio Errico tiene, con lo stesso titolo, sul “Nuovo Quotidiano di Puglia”.]

Questa voce è stata pubblicata in Prosa e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

1 risposta a I resti di Babele 5. La macchina da scrivere

  1. Davide scrive:

    Io mi tengo stretta la mia bella Olivetti Lettera 35. Per scrivere lettere agli amici o per appunti personali. Perchè amo le “perfette imperfezioni” della scrittura meccanica, e trovo impersonali i fogli stampati nella mia stampante laser; tutti uguali come precisione di stampa dei caratteri. I nastri li trovo facilmente, non è un problema la loro reperibilità. Allo stesso modo preferisco la fotografia analogica (il mio hobby preferito) rispetto al digitale proprio per il margine di errore insito nelle tolleranze del mezzo (non trovi mai due emulsioni identiche, non otterrai mai due identici processi di sviluppo); non ci sono problemi a reperire le pellicole, sia 35mm che formato 120. “Il digitale è troppo ‘perfetto’ per rappresentare un mondo imperfetto”. Pensate alla differenza tra un clavicembalo, che ogni giorno suona in modo impercettibilmente differente, a seconda dell’umidità e della temperatura dell’ambiente che influenzano sull’accordatura e sulla sua cassa in legno ed una tastiera elettronica, che suona sempre uguale e che dopo un po’ ti stufi di suonare. In campo artistico o ludico-creativo l’analogico non morirà mai.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *