Lo sguardo di Camilleri sul fondo dell’infanzia

di Antonio Errico

Un grande, Andrea Camilleri. Un grande. Con l’ultimo libro, Esercizi di memoria, ha superato i cento: libri. Per quanto riguarda il conto degli anni, corrono i suoi novantadue. Un grande Andrea Camilleri. Un grande. Non ho ancora finito di leggere gli Esercizi, ma durante la lettura, al principio anzi della lettura, mi veniva in mente il passo di quel libro strabiliante che è Dialoghi con Leucò in cui Cesare Pavese dice: “abbiamo tutti una montagna dell’infanzia. E per lontano che si vagabondi, ci si ritrova sul suo sentiero. Là fummo fatti quel che siamo”.

Ma poi mi veniva un altro riferimento, un’associazione forse non proprio improbabile, di uno scrittore della sua stessa terra, della sua stessa isola, che si chiama Elio Vittorini. Nel Diario in pubblico scrive: “Io penso che sia molta umiltà essere scrittore. Lo vedo come fu in mio padre, ch’era maniscalco e scriveva tragedie, e non considerava il suo scrivere tragedie di più del suo ferrare cavalli”.

Il passato si deve onorare. Ma il passato non è un’astrazione. Il passato ha volti, voci, luoghi. Allora si onora ricordando quei volti, quelle voci, quei luoghi. In un’intervista al Corriere della Sera, il maestro Camilleri dice che tutto ha inizio nella casa dei nonni; tutto ha inizio dalla lettura di Alice nel paese delle meraviglie che gli fece sua nonna Elvira. Fu lei a parlargli di Alice, del gatto senza ghigno, del cappellaio magico.

Archetipicamente, la narrazione appartiene ad una voce femminile.

Adesso non scrive più, Andrea Camilleri. Adesso detta i suoi racconti, i suoi ricordi.

E’ stato avvolto dalla cecità.

Un altro archetipo, dunque: il narratore cieco.

Un altro ancora: la narrazione orale.

Così, attraversando gli esercizi e la memoria di Camilleri, mi tornava una pagina di “Amore lontano” di Sebastiano Vassalli,

Esattamente la prima pagina, dove si dice che gli antichi attribuivano ai ciechi una capacità di inventare, di elaborare e di raccontare le storie degli uomini, superiore a quella di coloro che vedono. Avendo meno percezioni, i ciechi avevano più vita interiore. Erano dei veggenti che sapevano riempire il buio in cui vivevano di figure apparentemente reali.

Andrea Camilleri racconta e riempie il suo buio reale con un universo di colori immaginari, fantastici, con un meraviglioso onirico che in qualche modo compensa il suo sguardo sbarrato.

Ha sognato di trovarsi alla stazione di Milano vestito da clown. Con una valigetta in mano, e gli scarponi da clown, correva per prendere il treno. Sui binari a destra c’era un vagone pieno di clown coloratissimi che lo incitavano a correre. Sui binari a sinistra un vagone di persone normali che applaudivano vedendolo cadere perché pensavano che fosse un numero comico.

Chissà verso dove correva Andrea Camilleri nel fondo del suo sogno rigonfio di colori.

Forse correva verso la sua infanzia. In molti sogni accade che si corra verso la propria infanzia. Forse correva verso i conigli, i cavalli, i muli, le caprette, il pulcino senza una gamba al quale lo zio aveva costruito una protesi di cannuccia. Forse correva verso la capra girgentana, pelo lungo marrone, corna alte e attorcigliate, che si chiamava Beba. Forse correva verso l’origine.

A Teresa Ciabatti che gli domanda se Esercizi di memoria sia uno svelamento a posteriori, Andrea Camilleri risponde che un libro così non si può scrivere a quaranta, a cinquanta, a sessant’anni; un libro così si può scrivere soltanto a novanta. Perché la vita è prima, e poi te la ricordi.

Già. C’è un tempo per ogni scrittura. C’è un tempo per la scrittura come una cattedrale gotica e un tempo per la scrittura come un capanno sulle dune.

C’è un tempo per la scrittura, come per ogni altra condizione della vita.

Adesso, per Andrea Camilleri, è il tempo di una scrittura essenziale. Per una scrittura irripetibile. Come il giorno, l’ora, l’istante di una vita: irripetibili. E’ un segno del corpo, sul corpo.

Che insieme ad esso diviene, con esso si assimila, s’identifica. Una linea sul palmo della mano. E’ una scrittura come specchio al quale rivolge domande sul senso dell’essere stato, in un’altra ora, un altro luogo, con le stesse creature, con creature diverse. E’ una scrittura che dice del tempo. Perché non può dire nient’altro se non il tempo; non può dire altro se non la nostalgia, se non il dolore, le gioie, gli stupori, i sogni, i trasalimenti, le emozioni, i rimpianti, i travagli, nella trasparenza di un’immagine, in una parola, in una scena che riaffiora dalla profondità della lontananza.

Mentre corrono i suoi novantadue anni, e i cento libri sono ormai passati, Andrea Camilleri squarcia il velo della sua cecità, e guarda in fondo. In fondo: dove si è fatto l’uomo e il grande narratore che è.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 22 ottobre 2017]

 

 

 

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