Ercole Ugo D’Andrea: il ruolo del poeta e la sua missione

di Augusto Benemeglio

 I fantasmi

Ercole Ugo D’Andrea, poeta di  Galatone, nato nel 1937 e ivi scomparso nel 2002, è stato celebrato a quindici anni dalla sua morte, nella Biblioteca comunale, come capita ai soliti profeti minori, con odore di incenso, polvere forfora e muffa; hanno detto messa i soliti sacerdoti della cultura che s’affannano, sempre “dopo”, a cercare di riannodare le radici, a rifare monumenti all’ovvietà, a  pesare la sillaba e la goccia di rugiada, la virgola e il grano di luce, la sinestesia e l’istante che folgora. A lui non sarebbe piaciuta quella cerimonia, quella orrenda processione di gente estranea che parlava della sua casa bianca, della sua “curte”, dove viveva con la vecchia madre, delle sue stanze piene d’ombre ancora dense dei suoi odori, delle sue parole scritte rigorosamente con la penna stilografica, screpolate dagli anni o sbiadite, dell’incrostazioni nei cassetti della scrivania, dell’albero delle nespole e dell’allevamento di scorpioni in giardino, del glicine, e della scalinata che si faceva  precipizio  per il salto di giornata; no, non gli sarebbe piaciuto che qualcuno avesse  risuscitato i suoi fantasmi, un fiore sfuggito alla morsa del freddo, essiccato, riposto fra i suoi libri, e poi tra gli angoli remoti, i colpi di tosse e i lunghi silenzi con cui dialogavano i due taciturni, la madre e lui stesso. Era un poeta appartato, alieno a tutto, una specie di scoiattolo che voleva vivere nel suo albero-casa, dove c’era un nespolo che aveva molte braccia e larghe foglie che offrivano riparo alla luna.  Ercole è stato forse l’ultimo “grande” poeta (in lingua italiana) del Salento, uno che se ne è andato davvero in punta di piedi, uno che si sentiva estraneo nella propria terra, come  purtroppo capita a molti poeti.

A differenza di Toma e Verri (entrambi autodidatta), che lo avevano preceduto da poco nel regno delle ombre, D’Andrea era un poeta laureato, un “classico” per formazione, rispetto e riscoperta della tradizione lirica italiana, ma assolutamente moderno per lo spirito, e per quella sua visionarietà che anticipa il futuro. Ma di questo  fatto non sembra essersene accorto nessuno, o quasi, nel Salento. Si fa ancora un gran parlare di Verri e Toma, che, anche cronologicamente, vengono posti subito dopo la triade , o la trimurti salentina (leggi Comi-Bodini-Pagano), ma dell’autore di Ozi e negozi, (Vallecchi,1973), La confettiera di Sèvres (Lacaita 1982) Fra grata e gelsomino (Garzanti 1990), L’orto dei ribes di corallo (Lacaita, 1999) tutti tacciono. Inopinatamente. Stranamente. Paradossalmente, oserei dire, tenuto conto, ad esempio, che un Vittorio Pagano non è stato mai edito da nessuna casa editrice degna di questo nome, e lo stesso barone Girolamo Comi non era certamente un poeta originale, ancorché strombazzato dall’Osservatorio Romano e da qualche suo allievo.

 

L’amico di Luzi

Allora ci domandiamo perché il galatonese, molto apprezzato dall’editoria Nazionale e soprattutto da Mario Luzi, ossia il maggiore poeta italiano  di questi ultimi trent’anni, con cui ha avuto un lungo sodalizio sfociato in Album di poesia di Luzi e D’Andrea, una chicca nel suo genere, è stato dimenticato proprio dalla critica letteraria , dagli studiosi della sua terra, che annovera gente di prima grandezza come Macrì, Marti, Valli, Luigi Scorrano Pisanò e Bonea? Forse D’Andrea ha avuto il torto di snobbare accademie e mass-media, pur vivendo costantemente, soprattutto quando ne era lontano (è stato per molti anni a Firenze), con “l’anima serrata nel Salento“, piccola patria di incontri-scontri, di odio–amore, come era  accaduto a Bodini cinquant’anni prima. Ma, a differenza del leccese, che era fumantino, molto permaloso e passionale, sempre pronto alla scazzottata, e non solo metaforica o  letteraria, D’Andrea era un vero gentleman, evitava qualsiasi attrito, solitario, schivo, appartato, forse timido anche. E uno come  lui  non  poteva fare tendenza, destare interessi,  suscitare  clamori  in  un mondo che vive di frastuono. Viveva troppo rinserrato  in  un  suo  mondo,  talora  accigliato,  scontroso  e  sdegnoso,  straniero  nella  sua  terra,  per  essere  amato  dai  suoi  conterranei. Ma è stato certamente un poeta degno di questo nome, un poeta finissimo, aristocratico, per il quale la poesia era un impegno integrale, un mezzo di esplorazione  della  vita  che  si  realizza  nel problema stesso dell’esistenza. Diceva sempre: “La poesia parte dallo zero e termina sullo zero”, come se nessuna altra poesia l’avesse mai preceduta o potesse derivarne. “Io mi sento poeta per ciò che non dico, in quanto le parole o sono fiumi in piena o sono vuoti come gusci delle cicale”.

Il  dramma  di  D’Andrea fu simile a quello  di Mallarmé,  suo  dichiarato maestro, ossia quello dell’impossibilità di far coincidere l’assoluto con la poesia,  la  sua poesia,  caratterizzata –scrive Donato Valli  in Novecento letterario leccese (Manni 2002), da  un’ascendenza ermetica che in questi ultimi  tempi si  è  andata  sempre  più  modificando  in  una  secchezza  e semplicità  di  dettato di  chiaro  influsso sinisgalliano  (“La  notte  fascia  la casa  di  silenzi,  /  la  mia  casa  vera/  con  calendari  e  piante/libri  negli scaffali/  frutta  nella  fruttiere./ La  mia  casa  come  il  nido/  dell’albero  di stelle/  respira  lo  stellato.  / Forse  qualcosa  sta  per  accadere  /  di  molto finale, o nulla:/ mia madre dorme /contro un muro/ sicuro il suo sonno/, io appunto quest’attesa,/ verrà l’alba o il sonno/ La  casa  sente  su  di  sé  / il  tarlo  celeste”.

Sembrerebbe  una  poesia  un  po’ crepuscolare, quasi intimistica, domestica. In realtà

non gli piaceva affatto essere considerato un poeta dello “spazio domestico”. La sua è una poesia che –per certi aspetti –richiama , oltreché   Sinisgalli,  Emily  Dickinson, Rilke,  Lorca,  Montale  e  lo stesso  Mario  Luzi,  suo  maestro,  amico  e sostenitore.

 

Lecce la morta

Ad  un  certo  punto  della  sua  storia  di  uomo  e  di  poeta, Ercole  Ugo D’Andrea, avverte in modo pressante il compito di istituire un linguaggio  poetico  “parlato”,  fortemente  semantico,  espressivo  e  ritmo-fonico.  Ma  la struttura  sintattica  si  conserva  organizzata  e  chiusa, mantenendo  intatte  le tradizioni  letterarie  alte.  E’  una via  di  lavoro  concreta ,  forse  più vitale  e  resistente  delle  tecniche  di  avanguardia,  che  s’incentra  sui grandi tragici temi del dolore e della morte e sulla sua amata-odiata piccola patria  Salentina, che non riesce a “crescere” o,  meglio, non riesce a proiettarsi nel futuro,  a  sistemare  i  suoi  “allori”.  Lecce  è  morta,  ma

inganna perfino la morte  con  lo sfavillìo  dei  suoi  ori  barocchi .

(E’  allora  che  cominci  a morire,/ nei   tuoi   santi   di   pietra,/ nella   burocrazia   arroccata,/Lecce   la morta,/ specie di domenica, quando c’è la Messa  /e la partita… e così t’ho lasciata  che  pioviscola/ su  vasi  verdi  delle  tue  terrazze,/ mentre  tu  hai  già sistemato/  le  tue  anche,  i  tuoi  ori/ i  tuoi  allori  no/ché non hai i tuoi poeti che ti cantino,/ da perfetta defunta quale sei…)

Nel  poemetto  Lecce  la  morta,  il poeta, -scrive Giorgio Barba – per reazione  ad  una  società  indifferente,  avulsa  dal  contesto  reale,  sempre volta al passato,  sembra volersi rinchiudere nella sua turris eburnea  e  il suo  linguaggio  diventa  aleatorio,  aereo,  volutamente  incomprensibile “.  Il poeta  gioca  con  quel  quid  che  sfugge  alla  vista  comune  per  dilatarla, arruffando goliardicamente  i  pensieri e contaminando la logica. Non è la  poetica della meraviglia, né quella ermetica, ma la poetica del visibile che solo  “il  poeta  malato  di  poesia”  e  dormiente  sa  ritrovare  ricostruendo  il cosmo  da  zero. “Si  aspetta sempre  che  le  foglie,  parole  sibilline  disperse dal  poeta  al  vento,  si  posino  per  avere  una  risposta  alla  domanda  sul ruolo del poeta e sulla sua missione”.

Questa voce è stata pubblicata in Letteratura e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *