Quanta nostalgia nei ritorni sui luoghi della memoria

di Antonio Errico

Giornata FAI d’autunno. Oggi. Luoghi da scoprire. Da riscoprire. Un’arte. Un paesaggio. Un percorso a tema. Un’abbazia basiliana che sorveglia l’orizzonte da un’umile altura. Una torre di scolta a strapiombo sull’infinito. In compagnia. Da soli. (Meglio). Per esempio: da soli per i luoghi dell’anima. Per esempio: i luoghi dell’infanzia. Una vicolo cieco con la ghiaia, un cortile con il glicine, un giardino con l’altalena tra i rami di un melograno. Luoghi che ricordiamo a stento, galleggianti, sfumati nel pensiero, come paesaggi nel fondo di un dormiveglia.

I luoghi non sono mai come li ricordiamo. Sì, forse resta qualcosa: il verde forte, rugoso, screpolato, del portone di una casa che nessuno abita più, un tufo che fa da gradino, l’insegna arrugginita di una barberia; sì, forse resta qualcosa, come fosse una ruga riconoscibile in una fisionomia mutata; resta qualcosa ma i contesti si trasformano, i particolari vengono sostituiti, non ci sono più i volti che si ricordavano, non ci sono più le voci, le piccole storie che sembravano universali.

Itaca si fa irriconoscibile, inappartenente, estranea. Così accade a Odisseo. Per tutto il tempo che dura il suo viaggio, non riesce a pensare ad altro se non al ritorno. Itaca è il luogo perduto che vuole ritrovare. Itaca è la sua origine, la sua idea di destino; è in quel luogo che vorrebbe concludere la sua esperienza d’uomo. Poi ritorna e si accorge che Itaca non è come l’ha lasciata, non è come per lunghi anni l’ha configurata nel ricordo. Non la riconosce. Non si riconosce. Si sente spaesato, forestiero. Il tempo ha trasformato i sentimenti degli altri, i sentimenti suoi. Fra il luogo della memoria e quello che si ritrova davanti, si è scavato un fossato che gli provoca una nostalgia irresistibile, spinosa. Allora lo assale un’insoddisfazione, il desiderio di una ripartenza, di un altro viaggio senza un dove, la smania di riprendere il mare, di rientrare nella condizione dell’erranza, della peregrinazione. Itaca non è più sua. Lui non è più di Itaca. Né può dirsi che vale qualsiasi altro luogo, Itaca. Anzi, qualsiasi altro luogo forse può valere anche più di Itaca, perché gli può consentire il ricominciamento, perché può salvarlo dall’assedio della nostalgia.

Tutto questo Omero lo racconta magicamente e forse non si possono fare paragoni. Ma c’è un altro poeta che dice la stessa cosa in cinque versi, che dice il mancato rispecchiamento, la fratturata reciprocità, l’impossibilità di riconoscersi nei luoghi, l’interruzione della loro relazione con l’esistenza, la differenza che si spalanca fra la realtà e la memoria.

“Un’altra volta ti rivedo,/ ma, ahi, me non rivedo!/ S’è rotto lo specchio magico in cui mi rivedevo identico,/ e in ogni frammento fatidico vedo solo un pezzo di me:/un pezzo di te e di me”.

Sono gli ultimi versi di “Lisbon revisited (1926)” di Alvaro de Campos, eteronimo di quell’enigma che fu Fernando Pessoa.

Forse non si dovrebbe ritornare mai. Lì dove si sono indurite le ossa e si è fatto tenero il cuore, forse non si dovrebbe ritornare mai.

Perché i luoghi sono la rappresentazione del rimaneggiamento che il tempo fa di noi.

I luoghi della memoria, del sentimento, dell’affetto, quelli che ci richiamano con prepotenza, poi ci frastornano, ci disorientano, provocano rimpianto per com’erano, per com’erano le creature che li abitavano, per come eravamo noi e non siamo, non possiamo essere più.

Forse non si dovrebbe ritornare mai.

Nei luoghi che abbiamo amato, in quei luoghi dove, come direbbe Vittorio Bodini, si è fatto il nostro volto, non si dovrebbe ritornare mai.

“Qui s’era fatto il mio volto”.

Qui: “ dove ogni cosa, ogni attimo del passato/ somiglia a quei terribili polsi di morti/ che ogni volta rispuntano dalle zolle”.

Un volto che si fa è una condizione della crescita, della maturazione, del confronto con l’ altro che abita un luogo, con i suoi innumerevoli volti, con la loro freschezza di gioventù, poi con le rughe che segnano le stagioni che vengono e che vanno. Il volto si fa con i segni del sole sulla pelle, con le venature della tristezza, con le occhiaie scavate dall’insonnia, con i pensieri che lasciano un alone incancellabile di malinconia, con quelle parole – in qualche caso poche – che costituiscono il lessico interiore, con la bellezza generata dalla passione.

Così il volto è la combinazione, spesso indecifrabile, di affettività e di storia, l’esito di una reciprocità a volte inconscia; è un radicamento nella materia antropologica, una mappa dell’esistenza.

C’è sempre una differenza – lo scarto di un ricordo, la nostalgia per una distanza, una condizione di separazione, la sfumatura per il tempo che passa, l’offuscamento dell’orizzonte – tra la realtà di un luogo e la nostra idea di quel luogo, tra la sua sostanza concreta e la nostra memoria fluttuante, tra il nostro desiderio di consegnarlo ad una figurazione immutabile e il suo trasformarsi continuo, la sua mutazione incessante.

Ogni luogo che ci appartiene è fatto di storie, volti, voci. Anime. In ogni luogo che ci appartiene abbiamo inevitabilmente lasciato qualcosa di noi: un pensiero, un trasalimento, un’emozione; di ogni luogo conserviamo un odore, un riflesso, un colore. Sono cose che fanno parte del nostro universo intimo, interiore, che non vogliamo consegnare alla trasformazione che il tempo comporta.

Allora non si dovrebbe ritornare mai. Per la giornata FAI d’autunno, meglio un luogo sconosciuto, un’altra conoscenza: un luogo che diventi nostro. Magari anche per poterne avere una bella e buona nostalgia.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 15 ottobre 2017]

 

 

Questa voce è stata pubblicata in Prosa e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *