di Guglielmo Forges Davanzati
“Aiutiamoli a casa loro” è, e non può che essere, solo uno slogan. Così come chiudere le frontiere. Il grande tema delle immigrazioni di massa andrebbe affrontato tendendo conto della ristrutturazione del capitalismo su scala globale e delle nuove contraddizioni che esso produce.
Partiamo da un dato: le economie capitalistiche avanzate sono sempre più deindustrializzate e sempre più finanziarizzate. La deindustrializzazione, connessa alla finanziarizzazione, è una delle cause fondamentali del calo della domanda di lavoro qualificato. Di norma, la forza-lavoro immigrata ha livelli di istruzione più bassi di quelli dei nativi (e, nel caso italiano, spesso non riconosciuti come aventi valore legale). I lavoratori italiani con elevato livello di istruzione sono sempre frequentemente in condizioni di sottoccupazione intellettuale o emigrano. E, peraltro, il numero di laureati è in continua riduzione. Non dovrebbe dunque sorprendere che, per alcuni segmenti del mercato del lavoro, soprattutto per quelli nei quali lavora manodopera a bassa qualificazione, la concorrenza fra immigrati e nativi è effettiva, non solo percepita. E non dovrebbe sorprendere che, proprio in virtù della deindustrializzazione e della conseguente dequalificazione della forza-lavoro nativa, questi segmenti del mercato del lavoro tendono a espandersi e, con essi, la concorrenza fra nativi e immigrati.
In più, le crescenti diseguaglianze distributive su scala globale accentuano i flussi migratori, generando una condizione palesemente contraddittoria, per la quale la riproduzione del sistema necessita di forza-lavoro poco qualificata (già disponibile nelle economie avanzate) mentre non necessita – o ne ha sempre meno bisogno – di forza-lavoro immigrata.
Cosa che pone allo Stato un problema di enorme rilevanza, che innanzitutto ai costi di contenimento e repressione dei conflitti generati da flussi migratori imponenti. E che attiene anche alla legittimazione del sistema, nella forma del mantenimento di un tasso di occupazione dei nativi che possa essere considerato socialmente accettabile. Emerge un conflitto di obiettivi – fra il dovere dell’accoglienza e l’effettiva impossibilità di esercitarlo – che si risolve con l’apparato repressivo dello Stato. Si badi che il dovere dell’accoglienza, al di là di questioni che attengono alle sfera morale, può tradursi nella convenienza all’accoglienza, se non altro perché – come ripetuto, per l’Italia, dall’INPS – a fronte dei processi di denatalità che riguardano i nativi, l’immigrazione contribuisce a generare un saldo demografico positivo e, dunque, un Pil potenziale maggiore. A ciò si associano i contributi pensionistici degli immigrati occupati, che contribuiscono a mantenere in attivo il saldo del bilancio del sistema pensionistico italiano.
Sono comunque estremamente discutibili le due letture dominanti del fenomeno, sia quella che fa riferimento alla teoria marxiana dell’esercito industriale di riserva (giacché se gli immigrati davvero ne facessero parte, il capitale, nell’accezione di Marx, non esiterebbe ad aprire le frontiere senza alcun vincolo), sia quella – di segno opposto – di matrice xenofoba (gli immigrati “rubano” il lavoro). Quest’ultima lettura, evidentemente aberrante sotto il profilo etico, tace sulle cause dei flussi migratori e, segnatamente, sul fatto, ben noto, che questi sono determinati da crescente povertà nei Paesi d’origine, da guerre, dal cambiamento climatico: cioè proprio da fattori che il capitalismo spontaneamente produce.
Si tratta di una fondamentale contraddizione di questo modello di sviluppo, dal momento che esso spontaneamente produce diseguaglianze, le diseguaglianze producono conflitti (nella fattispecie, conflitti fra lavoratori) delegando allo Stato – attore essenziale in un contesto che viene spesso definito neo-liberista – la funzione di repressione del conflitto. A sua volta, la repressione del conflitto comporta costi che gravano sulla fiscalità generale e, più in particolare, dati i rapporti di forza fra imprese e lavoratori nella sfera politica, gravano maggiormente proprio sul lavoro.
A ciò si può aggiungere che l’idea di “aiutare a casa loro” i migranti si presta all’obiezione per la quale, come è quasi sempre storicamente accaduto, i trasferimenti vanno a beneficio di èlite locali che ne distribuiscono minima parte alla popolazione, usandoli in larga misura per consumi personali a fini emulativi rispetto ai consumi delle classi agiate dei Paesi che trasferiscono risorse.
Dovrebbe essere chiaro che l’immigrazione costituisce un problema soltanto perché, almeno nel caso europeo, è sostanzialmente impossibile – dati i vincoli posti sulla finanza pubblica – attuare politiche fiscali espansive, che facciano crescere la domanda interna e dunque l’occupazione. In altri termini, l’immigrazione diventa un problema quando le risorse vengono mantenute artificialmente scarse. Per comprendere le dimensioni del problema, può essere sufficiente richiamare gli ultimi dati forniti dall’ISTAT (Conto Trimestrale della Pubblica Amministrazione): “Il saldo primario delle AP (indebitamento al netto degli interessi passivi) è risultato positivo, con una incidenza sul PIL del 3,8% (4,1% nel secondo trimestre del 2016) … Il saldo corrente della AP è stato anch’esso positivo, con una incidenza sul PIL del 3,1% (2,9% nel secondo trimestre del 2016)”. A dire che l’accumulo di avanzi primari procede speditamente, ovvero che le risorse disponibili per far crescere la domanda interna (e dunque la domanda di lavoro) diventano sempre più scarse.
L’impegno delle associazioni del Terzo settore e del volontariato cattolico è meritevole. Ma – date le dimensioni del fenomeno e il de-finanziamento anche di queste attività – non è ragionevole attendersi che queste iniziative portino a una soluzione del problema.