Il “Convivio” di Dante: un banchetto di scienza e sapienza

di Luigi Scorrano

Che cosa è il Convivio?

Le comuni reminiscenze scolastiche, davanti ad una domanda come questa, danno una risposta allarmante: il   Convivio è un’opera “dottrinale”. Non ci allarma il titolo dell’opera, assai invitante, ma quell’aggettivo, dottrinale, che calpesta la bella immagine del banchetto ricco e gioioso e ci trasporta nell’atmosfera d’un noioso e pedantesco insegnamento (o noi temiamo che si tratti questo). Dottrinale: un aggettivo/inciampo là dove stavamo percorrendo un cammino senza ostacoli e pregustavamo la gioia del banchetto. Questo perché dottrinale evoca, o sembra evocare, un ambiente di studio e lo studio stesso privi di interesse; qualcosa di forzato che non possiamo evitare ma sentiamo come un appuntamento con la noia. Se la dottrina si configura come stracca ripetizione di formule preparate, non c’è scampo alla noia. Ci troviamo nella condizione in cui si trovava, com’egli stesso ricordò in una poesia intitolata (guarda caso!) Dante, l’alunno Guido Gustavo Gozzano:

Mi rammento la classe, mi rammento

la scolaresca muta che si tedia

al comentare lento, sonnolento;

rivedo sobbalzare sulla sedia

il buon maestro, per uno scolare

che s’addormenta su di te, Comedia.

Se superiamo il vago timore che l’aggettivo dottrinale può suscitare in noi, vediamo che la dottrina stessa, in Dante, è talmente consustanziata alla vita da farci avvertire non la difficoltà delle strutture dell’opera medievale ma il palpito profondo che percorre quelle strutture e giustifica la dottrina come forma alta della vita. Sappiamo che sempre ogni organizzata riflessione tende a farsi dottrina, cioè a comporsi in un armonico disegno di dettami, di imperativi suggeriti non da esteriore necessità di composizione ma dalla riconosciuta necessità di disporre entro linee di sviluppo originate da principi, da fondamentali convinzioni. Non, dunque, un catechismo le cui formule si ripetano fino allo svuotamento di senso ma nutrimento di esplorazione interiore riversato in testimonianza di vita.

Dante sente il bisogno, come l’ha sentito nella Vita Nova, di informarci sul suo modus operandi; vuole darci ragione di ciò che ha inteso fare e del modo in cui lo ha fatto (se la giustificazione è a posteriori) o intende farlo (se la giustificazione ha l’aspetto di un progetto da realizzare). Basta seguirlo là dove, nel trattato introduttivo, spiega intenzioni e modelli del suo procedere. Parte da un’osservazione apparentemente scontata, una di quelle osservazioni che dovrebbero essere chiare a tutti; ma per dare sostanza al suo dire e per appoggiarsi a quella che nel Medioevo, e prima della trionfante riapparizione di Platone sull’orizzonte della cultura europea, era considerata la massima autorità in campo filosofico: Aristotele. È un grande maestro, il maestro per eccellenza, nella filosofia occidentale e soprattutto nel panorama  del Medioevo. Sulla sua autorità non si discuteva. Dante comincia il suo discorso con una citazione di quell’autorità, una citazione che appare assunta come convinzione fatta propria.

Soffermiamoci a delineare, scolasticamente e di necessità, come si presenta l’opera che è giunta fino a noi. Il più antico manoscritto, l’archetipo – come lo definiscono coloro che sanno – si presenta piuttosto malconcio e perciò sull’opera molto ha dovuto lavorare la schiera dei filologi che hanno provveduto a fornire un testo plausibile. Sono da rilevare alcuni risultati eccellenti in fatto di edizione dell’opera: ad esempio l’edizione ad opera di Ernesto Giacomo Parodi e Flaminio Pellegrini (e su questa edizione è stata condotta quella di Cesare Vasoli apparsa nell’edizione dantesca dei classici Ricciardi). All’edizione critica, l’edizione nazionale della Società Dantesca Italiana, ha provveduto Franca Brambilla Ageno con un trentennale lavoro (l’opera, 2 volumi in tre tomi, ha visto la luce qualche anno fa); e all’edizione del Convivio ha provveduto un’altra studiosa, Maria Simonelli,  con risultati diversi: e questo dice che verità assolute non ne possiede neanche la filologia in mancanza di un autografo. Tralasciamo però questi problemi che appartengono ad un ambito troppo strettamente specialistico e continuiamo a vedere com’è costruito il Convivio. Opera incompiuta (non “non finita”, che sarebbe altro), il Convivio si presenta come il grande troncone di un monumento che solo fino ad un certo punto ha trovato una sua definizione. Eppure questo troncone non finisce di sollecitare la nostra attenzione per i legami che rivela con il resto dell’opera dantesca nel cui complesso rappresenta comunque uno snodo cruciale ed un passaggio che non si può eludere. Il suo disegno è interrotto, ma dal poeta non è negata la sua sostanza anche quando egli avrà superato quel traguardo della sua opera. Il Convivio si può considerare come elemento fecondatore di una riflessione alla quale daranno definitivo suggello l’opera dell’immaginazione e l’impronta, singolarissima, dell’espressione.

Il progetto dell’opera è esposto nel trattato introduttivo. L’opera era stata prevista in quindici trattati: introduttivo il primo, dedicati a vari problemi gli altri quattordici. Ciascun trattato avrebbe costituito il commento, in prosa, ad altrettante canzoni. Ci troviamo dunque, apparentemente, di fronte al procedimento seguito nella Vita Nova: anche il Convivio sarebbe stato un prosimetro, un’opera composta di versi e prosa, e questa a commentare i testi in versi.

Ma dalla Vita Nova al Convivio il poeta non ha dormito. Ha continuato a progettare ed a realizzare nuove opere. Le sue dichiarazioni mostrano che un’impaziente fecondità di pensiero cerca sbocco in lavori di salda struttura, pensati per suscitare un forte interesse in coloro ai quali sarebbero stati indirizzati. Dalla Vita Nova al Convivio qualcosa ha preso un’altra direzione nell’animo del poeta.  Di questi, il Convivio esprimerà l’atto di consacrazione e la devozione alla filosofia; la filosofia, ha scritto Enrico Malato, «assunta come nuovo polo dei suoi affetti e dei suoi interessi intellettuali».

I quattordici trattati avrebbero affrontato temi di grande impegno, rilevanti sul piano della riflessione filosofica e di quella poetica. Gli indizi contenuti nel testo portano l’inizio della composizione al 1304, quello dell’interruzione del lavoro al 1306-

1308. Sono anni cruciali per la vita di Dante. Del 1302 sono due condanne. La prima è emessa perché Dante, cui è stato ingiunto di presentarsi davanti al podestà per difendersi dall’accusa di baratteria e di guadagni illeciti e per pagare la multa dovuta per questi crimini, non si è fatto vivo. E la condanna arriva puntuale: due anni di confino e interdizione dai pubblici uffici. La data è il 27 gennaio; l’anno continuerà il suo corso portando al poeta nuovi affanni. La seconda  condanna – sempre nel 1302 – commina la pena di morte per il mancato pagamento della multa. Dante perde i propri beni che, secondo le abitudini e le leggi del tempo, sono oggetto di confisca e di saccheggio. Dante deve andar via da Firenze e tra il 1302 e il 1304 cercherà asilo presso vari signori: sarà a Verona alla corte del signore Bartolomeo della Scala. A Firenze, nello stesso tempo, si recherà un legato del papa, il cardinale Niccolò degli Albertini, per tentare una conciliazione tra le parti in lotta. Dante scriverà un’epistola in risposta a questa iniziativa, parlando per la Parte Bianca.

C’è uno scontro militare, la battaglia della Lastra il 20 luglio 1304: i Bianchi vengono sconfitti e Dante, i cui consigli non erano stati ascoltati dagli uomini della sua parte, si allontanerà da loro, deciso ormai a farsi parte per se stesso.

In questa agitazione di tempi e di uomini, in queste vicende così drammatiche, Dante non perde la serenità della saggezza, quella che gli serve per costruire la propria opera e, nel tempo stesso, vede nella scrittura l’attività che può qualificare la sua posizione di intellettuale dei cui servizi i signori, presso i quali egli si ferma più o meno provvisoriamente, possono giovarsi. In questi stessi anni, accanto alla composizione del Convivio, si può collocare un’opera che tratta un problema che sta a cuore al poeta, il problema della lingua. L’opera sarà il De vulgari Eloquentia. Intanto si è aperto il grande cantiere della Commedia.

Il Convivio, dunque, nasce sia da un bisogno di organizzare saldamente una serie di temi filosofico-morali e linguistici, sia dal più stringente bisogno, per vivere e per soccorrere la sua famiglia, di accreditarsi in un ruolo ambito e remunerativo. Tagliato fuori dalla vita politica fiorentina, minacciato dalla pena che gli pende sul capo, si augura che giunga – risolutrice del problema – un’amnistia che restituisca a Firenze e ai suoi cittadini una possibilità di pacifica convivenza. Il suo tentativo di accreditarsi come intellettuale al servizio della comunità in cui stabilmente vive o in quella in cui si trova momentaneamente, non è la carta d’identità solo ad uso dei non fiorentini; la segreta speranza del poeta è che i suoi concittadini gli riconoscano un ruolo di moderatore. Ma i suoi concittadini, gli “scelleratissimi fiorentini di dentro” (quelli che sono nella città e la dirigono) non si lasciano commuovere da una simile prospettiva. L’abbandono del Convivio sarà determinato anche dalla constatazione amara di un conflitto che non si ricompone? O il grande disegno della Commedia, forse già chiaro in tutte le sue parti, ha indotto ad abbandonare un’opera che, utile ed importante che potesse essere, non poteva sfruttare le risorse dell’immaginazione, la sua forza di rappresentazione?

Il Convivio è un’opera filosofica; lo dicono le strutture ragionative ed il linguaggio ben diverso da quello della Vita Nova. È proprio Dante, in veste di critico di se stesso, a valutare la differenza richiamando l’attenzione del lettore alla specificità della prosa delle due opere. Scrive, infatti:

E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo’ che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene. Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; perché certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra […]. E io in quella dinanzi, a l’entrata de la mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso  la letterale istoria ragionata; sì che l’una ragione e l’altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati. Li quai priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene a la sua grida, che non al mio volere ma a la mia facultade imputino ogni difetto; però che la mia voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace.

Dante introduce qui il tema, che verrà esaminato nel IV trattato, delle età della vita, ma ci fa vedere se stesso impegnato in un’opera di autosorveglianza sulla propria scrittura. Rilancia l’immagine del banchetto sedendo al quale i suoi convitati avranno pane e vivanda. Allegoricamente le canzoni e poi il commento.

A chi si rivolge Dante? Chi ha chiamato al banchetto, con la sua grida, con il suo bando di invito, che ha preparato? Importante è saperlo perché nella individuazione dei suoi invitati c’è la profonda verità dell’opera. La giustificazione della propria scelta consente al lettore di individuare  il tipo di pubblico al quale il poeta si rivolge.

Filosofia è opera di dotti; teologia è opera di sottili esegeti dei testi sacri. La filosofia è scienza, la teologia è sapienza. Su questo accostamento delle materie e di loro cultori sarà fondata la rappresentazione delle corone dei sapienti nei canti X-XIV del Paradiso. Materie ardite, filosofia e teologia, che non si possono accostare con leggerezza e per trattare delle quali occorre utilizzare una lingua non confusa con il quotidiano linguaggio della tribù. Ma è proprio questo che Dante intende fare. In questo è la sfida ardimentosa con le consuetudini e le persuasioni del proprio tempo.

Abbiamo evocato, fuggevolmente, il nome di Aristotele. Dante cerca in una affermazione del filosofo la battuta d’avvio:

Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa,  da providenza di prima natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti.

S’appoggia all’autorità di Aristotele per ricordare che in tutti gli uomini si manifesta un naturale desiderio di sapere. E in poche righe ripete quel naturalmente sul quale intende richiamare l’attenzione. Il desiderio di sapere è un impulso naturale e riguarda tutti gli uomini.

Ci sono, però degli ostacoli che impediscono la realizzazione di quel desiderio. Sono ostacoli di vario genere: dalla parte del corpo e dalla parte dell’anima. Affinché le operazioni dell’intelletto siano realizzabili interamente ed armonicamente occorre che le membra siano ben disposte; se esse sono “indebitamente disposte “sì che [il corpo] nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili”, il pensiero non potrà attingere alla propria perfezione. L’impedimento dalla parte dell’anima è di altra natura; riguarda la “malizia” che spinge l’anima a “farsi seguitrice di viziose dilettazioni” smarrendo così quello che dovrebbe essere il suo naturale percorso. Ma ci possono essere altri impedimenti che ostacolano il raggiungimento “de la nostra ultima felicitade” e sono, gli impegni di famiglia o l’assorbimento nella vita politica, impegni che sono propri della maggior parte degli uomini. Infine ci può essere un difetto di fonti d’informazione, per così dire: “difetto del luogo” dove una persona si trova a vivere: mancanza di biblioteche o di altre istituzioni culturali. Alcuni di questi impedimenti, quelli che non dipendono dalla volontà ma dalle circostanze non propizie, possono essere scusati; gli altri non possono essere che riprovati.

Chiarite in questo modo le cose, Dante scioglie un inno, si può dire, alla felicità del sapere:

Oh beati quelli pochi che seggono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito da la pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi.

Dell’atteggiamento misericordievole si ricorderà Giovanni Boccaccio, forse riscrivendo in altra chiave proprio questo passo dantesco nel proemio del Decameron.

L’immagine del convito richiama ad un’atmosfera di festa, alla gioia serena del colloquio, al gusto soddisfatto dalla visione e dalla consumazione di ciò che è stato posto in tavola. La tavola è un luogo d’incontro ed è anche, perciò, luogo di conversazione, di scambio di conoscenze, d’intreccio di saldi rapporti sociali. La tavola è soprattutto comunione. La metafora del convito si rifà ad una religiosa rappresentazione e forse da quella trae ispirazione se un critico del passato, il Chistoni, aveva evocato la preghiera liturgica che comincia con le parole O sacrum convivium…. Il racconto biblico, al quale Dante tante volte si richiama, non manca di esempi decisivi. Pensiamo alla scena delle nozze di Cana, all’atteggiamento misericordievole di Maria e poi di Cristo; pensiamo al racconto dell’ultima cena, episodio di un dramma alle prime battute ma gravido di gesti simbolici e di significati profondi e, nella istituzione dell’Eucaristia, affidamento di una missione proiettata nel tempo. Il convito, dove si consuma un pasto in comune, è generatore di forza unitiva per tutti coloro che vi partecipano. Lo scandalo che Cristo desta nei farisei (“Perché il vostro maestro mangia con i pubblicani e i peccatori?” Mt 9,11) deriva proprio dal riconoscimento di quelli che sono gli effetti della cena consumata in comune: può un maestro, che quando parla trasmette insegnamenti morali, contraddirsi fino a quel punto? Il convivio che Dante appresta per coloro che desiderano di sapere e ne sono impediti da qualche causa esteriore, offre il pane e la carne. I due alimenti proposti nella loro concretezza sono rivestiti non solo di coperture allegoriche (il pane sono le canzoni che precedono i trattati, la vivanda – cioè la carne – è il commento a quei testi poetici) ma sono portatori di ricchi significati simbolici. Il pane è quello che Gesù distribuisce ai discepoli riuniti con lui nel cenacolo; o a quelli ai quali appare sulla via di Emmaus ed ai quali, cenando, si manifesta proprio col gesto dello spezzar del pane. La carne è, al di sotto dell’immagine, il corpo di Cristo, alimento forte per la vita dell’anima.

Questa componente religiosa è stata poco o per niente notata dai lettori del Convivio. Anche solo sul piano figurativo il racconto dei Vangeli o dell’Antico Testamento esercita la sua suggestione. Quando Dante dice che, partecipe del banchetto di sapienza, non siede a tavola tra gli altri commensali, ma siede ai loro piedi e raccoglie le briciole di ciò che loro dicono si assimila forse tacitamente al Lazzaro della parabola evangelica del ricco, che banchetta ogni giorno splendidamente, e del povero, che siede alla porta sperando almeno nelle briciole di quel banchetto, che gli verranno negate. La situazione è diversa ma l’impianto rappresentativo rivela una forte affinità tra i due racconti. Il paradiso, con le anime beate e le potenze angeliche disposte intorno a Dio, è detto, nella Commedia, “la gran cena / del benedetto Agnello” (Pd XXIV 1-2); ed è da notare che anche in quel passo del poema Dante si mostra desideroso “di quel che cade de la vostra mensa” (Ivi, 5) e lo dice salutando i beati e gli apostoli.

Un problema, in particolare, è posto nel Convivio: quello dei destinatari dell’opera. Un problema che si sporgerà oltre le pagine del trattato e si riproporrà nella Commedia. Abbiamo ricordato che con questa sua opera Dante vuol giovare in qualche modo a chi desidera di sapere e non può conseguire i suoi fini a causa di vari impedimenti. Le esclusioni dalla possibilità ch’egli offre con il suo intervento sono inevitabili: coloro che non hanno gli organi del corpo perfettamente disposti e coloro che all’acquisto di scienza e sapienza preferiscono l’abbandono alle viziose dilettazioni. L’offerta è generosa, ma coloro che vi rispondono non saranno in molti. Nel canto II del Paradiso Dante avverte coloro che l’hanno seguito “in piccioletta barca” a interrompere la navigazione e a tornare indietro: potrebbero smarrirsi non riuscendo a seguirlo. Invece i pochi che si nutrirono per tempo del pan de li angeli, cioè della scienza delle cose divine, possono bene seguire la sua scia. C’è una distinzione che è stata quasi  sempre interpretata come un’esclusione. In realtà Dante vuol solo distinguere una maggiore o minore capacità di comprensione di una materia che si fa sempre più ardua, ma non esclude alcuno. Il Convivio manifesta, con la scelta del volgare, la volontà di democratizzare la cultura adattando al linguaggio comune i grandi temi filosofici e morali esposti dai dotti in opere che avevano acquistato grande prestigio. S’insinuerà poi, anche in questa scelta, quell’anelito religioso che corre sotterraneamente nel Convivio. La tensione a diffondere la conoscenza per mezzo del volgare si farà necessità del poeta-profeta di trasmettere il proprio messaggio “in pro del mondo che mal vive”, a beneficio di tutti e della salvezza dell’umanità. Si può dire che l’audace scelta linguistica sia anche, religiosamente, un segno forte della caritas dantesca, di quella disposizione misericordievole annunciata all’inizio dell’opera.

Di tutte le opere si desidera una definizione sintetica che consenta di riportare facilmente alla memoria il nucleo vitale intorno al qual si stringono i suoi vari temi. Voglio ricordare  quella di Aldo Vallone, tratta dalle pagine del suo Dante:

Il Convivio è […] il punto d’arrivo di una formazione culturale e filosofica che ha trovato un germe fecondo nel pensiero aristotelico-tomistico. È un’opera che va guardata come confessione autobiografica […], come manifesto di diffusione e democratizzazione della cultura […], come puro trattato di scienza laica del mondo moderno. [p. 116]

Opera enciclopedica, anche. Che cosa fosse l’enciclopedismo medievale ci ha ricordato, con un riassunto efficace, Cesare Vasoli:  «ordinata e organica raccolta di nozioni dottrinali di metafisica, teologia, fisica, geografia, “storia naturale” e pure storia sacra e profana, ‘digesta’ attraverso il filtro di un lessico e di uno stile quanto mai appropriato al suo compito». L’esempio più autorevole, per Dante, è quello del Trésor di Brunetto Latini. Ma il respiro del Convivio è più ampio e vivo rispetto a quello dell’opera del maestro.

Tra i temi più impegnativi trattati  nel Convivio spicca quello della nobiltà, dono che Dio concede non col criterio della nobiltà ereditariamente trasmessa, ma “seme di felicitade” messo da Dio ne l’anima ben posta; e ben posta vuol dire collocata in un corpo perfettamente disposto in tutte le sue membra. È un tema polemico che rovescia i pregiudizi, o le difese, che la nobiltà ereditaria poneva a salvaguardia di sé. Quel seme di felicitade della nobiltà era poi un germe da far fruttificare con l’esercizio delle virtù, con l’attiva collaborazione dell’uomo. In questa trattazione s’inserisce una digressione sulle varie fasi della vita umana e sulle virtù ad esse corrispondenti: l’adolescenza va fino ai 25 anni, la giovinezza dai 25 ai 45, la maturità dai 45 ai 70, il “senio” oltre i 70 anni.

Nel Convivio è discussa anche una tesi attribuita a Federico II di Svevia. L’imperatore, richiesto di dire che cosa fosse gentilezza (ossia nobiltà) aveva risposto: «antica ricchezza e belli costumi». La sosta sul tema della nobiltà e la  presenza di Federico II inducono il poeta ad un indugio sull’Impero e sul suo ruolo nella storia. La risposta dell’imperatore, argomenta Dante, è veramente valida? No, risponde il poeta, poiché l’autorità imperiale si esercita soltanto sulle azioni umane soggette alla volontà. Ma Dante pone qui l’avvio di una riflessione che troverà ampio svolgimento nella Monarchia e nella Commedia. Affermerà che l’autorità imperiale è ordinata provvidenzialmente ed è necessaria al conseguimento della felicità umana. Infatti, Dio ha affidato al popolo romano una grande missione (e Dante la ricorderà nel canto VI del Paradiso: pacificare il mondo prima della nascita di Cristo).

Tutto questo è nel Convivio ed è di grande interesse per comprendere la forza e la vastità della visione dantesca, i «numeri brucianti in  eterno» (come li definirà Salvatore Quasimodo) della sua poesia. Ma c’è, nel Convivio, anche la componente autobiografica sulla quale occorre soffermarsi sia pure rapidamente. Dante deroga, lo abbiamo ricordato, ai dettami delle poetiche medievali che escludono, in un’opera, il parlare di sé, della propria esperienza umana. Dante giustifica il suo andare controcorrente perché ritiene che la sua vicenda debba porsi a livello di esemplarità: non la vicenda del cittadino e dell’uomo Dante Alighieri, ma quella dell’innocente perseguitato da giudici prevenuti e feroci, decisi più a giustiziare che a rendere giustizia. Causa del parlare di sé, dice Dante, è stata «non passione ma verità». E richiama un modello illustre che, più tardi, sarebbe stato assunto anche dal Petrarca; sant’Agostino e le sue Confessioni. Lungi l’idea di una strumentalizzazione della propria vicenda. Ma c’è, nel racconto, oltre l’amarezza dell’innocente perseguitato il lamento, umanamente molto più comprensibile al lettore, dell’uomo al quale si è sottratta una funzione di partecipazione ch’egli metteva a disposizione della sua città. Ai suoi buoni propositi ed al suo impegno avevano fatto seguito «essilio» e «povertate». E il lamento del poeta è un grido di rivolta contro l’ingiustizia subita:

Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che mi è dato -, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi di molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel cospetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta come quella che fosse a fare.

L’ingiustizia che ha colpito il poeta rischia di colpire la sua opera; il suo mostrarsi a chi non lo conosceva ha fatto sì che la sua presenza – in quelle condizioni – risultasse inferiore alla sua fama. Dalla confessione emerge un ritratto complesso dell’uomo e del poeta; agnello scacciato dal dolce ovile fiorentino – l’immagine ritornerà in Paradiso XXV 1-6); combattivo e, insieme, stanco; elemosinante per necessità, dimesso l’orgoglio, e peregrino che mostra anche nel suo aspetto esteriore i segni della cattiva sorte; nave sbattuta qua e là, in balia dei venti avversi.

Anche in questa situazione dolorosa, la cui denuncia non si legge senza emozione, Dante resta, si può dire, l’uomo della ragione. Sulla scorta di Aristotele e della sua Etica a Nicomaco, maestro sempre credibile, egli esalta la ragione che dev’essere guida dell’uomo; e la ragione è ciò che distingue l’uomo dai bruti. Scrive Dante:

… è da sapere che le cose deono essere denominate da l’ultima nobilitade de loro forma; sì come l’uomo da la ragione, e non dal senso né d’altro che sia meno nobile. Onde, quando si dice l’uomo vivere, si dee intendere l’uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto de la sua più nobile parte. E però chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive bestia…

Il piccolo tratto conclude con una di quelle espressioni forti tipiche – e memorabili – della poesia dantesca. L’uomo che intende assoggettare la ragione al talento (come dirà nel canto V dell’Inferno) segue l’impulso cieco, la disposizione animale: non vive uomo ma vive bestia.

È un avvertimento che Dante dà agli uomini in generale, in primis ai suoi lettori.

(2011)

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