di Paolo Maria Mariano
Ettore si allontana tre volte dal campo di battaglia e tre volte lì ritorna. Alle porte Scee saluta la moglie Andromaca e il figlio Astianatte, e sa della fine, perché altra fine non è data: Achille non si può uccidere se non si colpisce quella piccola porzione di tallone, quella che sta lì nascosta, quella che più tardi, troppo tardi per Ettore, la freccia di Paride, guidata dal caso o da Apollo, colpirà. Sì, proprio lui, l’inconsistente Paride, uccide l’eroe Achille; ma di quel punto debole Ettore non sa. Così Ettore ha paura, però va: questo il punto. Va perché altro non riesce a fare, perché infine fuggire da quella guerra che non è sua vuol dire perdere la propria natura, la sua appartenenza al suo popolo, alla sua città, … forse provare infine vergogna … aidòs. E quella non è forse neanche la guerra di Achille che vi è stato spinto e ora insegue Ettore per vendetta più che per vittoria: Patroclo è morto e con lui parte di Achille. E Achille continua a combattere con la veemente furia della sua quasi totale intangibilità, con superbia e mestizia, cercando Ettore, sapendo della vittoria e della fine sua – lui fatto di materia superumana – che il fato ha prescritto poco distante da quella dell’eroe troiano. La storia è nota … ed è il canto di Omero, sia egli un singolo bardo cieco o sia, altrimenti, una moltitudine cui attribuiamo quel nome.
La questione di Ettore riguarda l’onore, la percezione di sé, il giudizio che può avere dalla società di cui egli è espressione ma anche riferimento per ciò che egli è, e per come nella società egli agisce. Questo è il senso greco del proprio ruolo e della dignità. E il pensiero greco è alla radice della cultura europea.
L’aidòs, cioè la vergogna, presuppone, per essere percepita una struttura sociale e la volontà di essere parte integrante di tale struttura. Così ricorda Nicola Gardini in un’analisi articolata su “7”, supplemento del Corriere della Sera, di giovedì 4 ottobre 2017. Scaturisce l’aidòs dalla consapevolezza che vi sia un valore rispetto al quale confrontarsi, un “osservatore” giudicante, sia pur esso ideale, tale da far maturare anche solo un giudizio interiore nel soggetto, un giudizio che non è neanche pubblico, ma è pur sempre un giudizio. Ciascuno di noi, infatti, guarda allo specchio se stesso, anche se altri non vede, e perfino se egli stesso coscientemente non si vede, anzi solo si illude in quel che resta del giorno. L’assenza di aidòs, cioè l’incapacità di provare vergogna per qualcosa, testimonia il rifiuto della struttura sociale in cui si è collocati, anzi, nelle forme patologiche, perfino il desiderio di reinventare valori di riferimento che siano solo proiezione di sé. Ed è questa una proiezione mutevole che segue l’evoluzione del soggetto che la esprime e che, in essa, non si sente quindi mai manchevole. Aggiungo che l’assenza di aidòs è in sé un rifiuto culturale, e quando è radicale, quando cioè esprime un’assenza costante, è una mancata percezione del senso della storia, della consapevolezza del mondo e degli altri nel mondo. Indica perfino il desiderio di modellare un giudizio culturale sull’immaginazione delle proprie capacità, piuttosto che su una realistica misura di esse, misura che avviene sempre in un paragone basato sulla prospettiva storica, non altro. Può anche sostenere ed essere sostenuta – l’assenza di aidòs, ancora – da una percezione della realtà che sia alterata rispetto a quello che un’analisi critica, lucida e consapevole, riesce a evidenziare nel continuo ritornare sui fatti per scarnificarli, riflettendo allo stesso tempo su quanto la motiva (intendo l’analisi critica stessa) e sui principî che la regolano.
Si può obiettare che il senso di vergogna possa essere associato a una qualche struttura di valori che sia sbagliata. Dire, però, che la struttura in questione sia giusta o sbagliata presuppone che vi sia un altro sistema di valori, a essa “superiore”, che sia il metro del giudizio, un sistema cui si aderisce e rispetto al quale si può quindi provare aidòs. La questione si sposta, ma si ripresenta ed è ineliminabile come lo è la rotazione della terra intorno al sole, fintanto che entrambi staranno lì a guardarsi.
L’aidòs – invero la sola possibilità di provare vergogna – accompagna la dignità. Quest’ultima non è qualcosa di ridondante, come vorrebbe Shopenhauer e con lui vorrebbero epigoni minori come Macklin, semmai è di difficile definizione perché può essere interpretata in maniera differente nell’ambiente storico-sociale in cui si colloca e si sviluppa la sua analisi. Nonostante ciò, la dignità, come concetto, si nutre anche di questioni primordiali, legate alla nostra struttura biologica e alla conseguente lotta per la vita, prima ancora dello sviluppo culturale. Ha a che fare con il valore, ricordano Kant e San Tommaso, quasi continui nell’interpretazione del concetto di dignità. Ha a che fare con la libertà. Ha a che fare con il rispetto per gli altri e quindi per sé. Riguarda ciò per cui vale la pena … Poco altro rimane.