L’odore della guerra

Henri Rousseau, 1894, olio su tela, 114×195 cm, Musée d’Orsay, Parigi.

di Paolo Maria Mariano

L’Esposizione Universale, EXPO 2015, è stata inaugurata a Milano ed è stata pubblicizzata in maniere molteplici da eventi fausti e infausti, i primi spesso di non trascurabile garbo, gli altri emersi forse dal senso di potere che dà la devastazione e la fuga dalla responsabilità su di essa. Servizi televisivi sui vari padiglioni sono frequenti. Tutti cercano di evidenziare i modi con cui i vari paesi hanno inteso il tema dell’esposizione: la distribuzione e la tutela delle risorse alimentari. Quando mi capita di intravederne qualcuno mi soffermo con sincera curiosità. La visione genera interesse e motivi di riflessione. Una volta, però, ha provocato (almeno in me e per quello che può valere) un qualche sussulto, improvviso, lieve, un aggrottare di ciglia. La telecamera stringeva su un’immagine non particolarmente estesa nello spazio: un muro incompleto, costruito con pietrisco inserito tra due reti metalliche, un modo di interpretare con le conoscenze di oggi l’idea dell’opus incertum dell’architettura imperiale romana. Una signora animata da sincero entusiasmo, convinta del proprio lavoro, illustrava quella piccola porzione di padiglione evidenziando la versatilità di quella tecnica costruttiva utile per interventi d’emergenza, per così dire, nei paesi in via di sviluppo. A un tratto, forse pensando d’aumentare l’interesse degli spettatori per quell’istallazione, la signora, gradevole nell’eloquio fin lì, chiese d’un tratto all’intervistatrice se riuscisse a percepire quello strano odore che c’era in quel luogo. “Sa! Si tratta dell’odore della guerra. L’abbiamo inserito per far percepire la situazione ai visitatori.” Cosa?! Che cosa, di grazia, voleva intendere quella signora fin lì apparentemente consapevole?

Mi chiedo, cioè, che cosa intendesse per “odore della guerra”. Che sia l’odore della salsedine a Salamina, o quello del sudore dei cavalli e dei soldati in armatura di un tempo, o quello dell’olio bollente che cadeva dagli spalti, o l’odore del sangue, delle viscere e degli escrementi nelle città d’Europa durante la guerra dei trent’anni?

Qual è, di grazia, l’odore della guerra? Può essere l’odore del fango del sangue e della neve sulla frontiera del Piave, quello del vomito dopo un assalto alla baionetta, quello della nafta dei carri armati nel deserto ai tempi di Rommel e di Montgomery o a quelli dell’Iraq? Che sia l’odore dei forni a gas dei campi nazisti? Ma quel gas aveva odore? E se non l’aveva c’era l’odore della paura. E che odore ha la paura?

Qual è l’odore della guerra? Si tratta dell’odore del napalm nel primo mattino? O forse è quello della polvere che si posava a Hiroshima dopo la caduta di quell’unica bomba? O è quello di quell’altra polvere che si posava su Varsavia distrutta, sui fuscelli che cercavano di ricrescere qua e là tra le pietre, sul cappotto dell’uomo barcollante che avanza lungo una strada spazzata dal vento, attonito tra le rovine che a stento emergono dal suolo? È un’immagine sempre riproposta nel filmato d’epoca che proiettano a Varsavia nell’ufficio dei ricordi della distruzione, poco lontano dal Palazzo Reale, ricostruito, dove la domenica si suona musica classica e in maggioranza sono gli adolescenti che vanno a sentire. Non è lo stesso tipo di polvere: la prima era radioattiva, l’altra no, ma era sempre il residuo di distruzione e di uccisione.

Se si riuscisse a individuare in qualche modo a me ignoto un “odore della guerra”, potrebbe quest’ultimo “far percepire la situazione”, come diceva pressappoco la signora a chi la intervistava? Potrebbe, in altri termini, farci sapere del dolore, della disperazione, della perdita della ragione, del tradimento, dell’omicidio e del suicidio, della bramosia di guadagno, del delirio di potere, del sacrificio, dell’impeto ideale, della perdita dell’ideale, della malattia e della morte, della cecità, della perdita dell’udito, della riduzione a brandelli? Potrebbe parlarci dell’immagine di Robert Capa che ritrae il soldato che muore, dell’attesa, dell’onore e della mancanza di onore, del rispetto, dell’omicidio, della psicopatologia quotidiana, della volontà di sottomettere gli altri, del rumore assordante delle bombe, della pazzia? Potrebbe un odore farci percepire gli occhi sbarrati dei bambini mentre le case cadono e intorno a loro avanza la morte? Potrebbe, mi chiedo, riuscire mai a “far percepire” proprio la guerra?

Talvolta si dicono frasi enfatiche su temi essenziali, sulle cose ultime. Paiono frutto dell’illusione, dell’aver soltanto orecchiato qualcosa, senza il minimo approfondimento, senza la riflessione e lo studio necessari. Talvolta qualcuno scrive anche questo tipo di frasi nell’ebbrezza che porta attirare l’attenzione o, forse più spesso, in una pronunciata incoscienza.  E si crede che basti poco per mettersi in vista, inseguendo un’illusione di preminenza, una prova di personale esistenza, lasciando talvolta declinare anche la dignità, come una falena che presto si spegne.

(2015)

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