di Antonio Prete
Abitato da una inestinguibile passione per la biblioteca, per i territori sconfinati del libro, per la mappa disordinata e complessa dei saperi. E, allo stesso tempo, teso a cercare nel sapere la possibilità dell’azione, nell’erudizione la premessa per le scelte di vita, nella scrittura la gioia dell’affermazione di sé insieme all’esplorazione del mondo. Giovanni Papini rappresentò per più di cinquanta anni la pulsione dell’intellettuale a viversi in pubblico, ad essere sempre in scena: così trasformò la sua formazione di lettore onnivoro in predicazione morale, la sua ricerca interiore in racconto esemplare. Fece della sua strenua avventura di autodidatta un romanzo, delle sue quotidiane contraddizioni uno spettacolo, della sua passione politica un esercizio di scrittura. Ma a differenza di D’Annunzio, questo suo essere in scena non si colorò di eroicità, rimase nei confini di un’azione intellettuale: la rivista fu il suo vero teatro, la confessione in pubblico il suo strumento, la polemica il suo stile. Rivendicò il diritto a contraddirsi, a esporsi e sottrarsi, a schierarsi e convertirsi.
La prima metà del Novecento letterario italiano fu segnata dalla presenza di Giovanni Papini. E tuttavia, quando lo scrittore fiorentino morì settantacinquenne, nel 1956, la distanza dal suo mondo culturale, dalle sue passioni, dal suo stile, dalle sue polemiche, era già fortissima. Vittorini aveva mostrato un altro modo di essere intellettuali: privo di esibizioni, con lo sguardo rivolto davvero al mondo degli uomini, alle loro tragedie, alla loro povertà, ai loro sogni. Con un’idea del rapporto tra scrittura e azione fondata sulla messa in questione dello stesso ruolo intellettuale. E Pasolini aveva già delineato un altro modo ancora di vivere la parola: l’attenzione alle radici corporali del linguaggio, la necessità di non separare la parola dalla sua ferita, la funzione intellettuale dall’indignazione, la meditazione dalla denuncia. Oggi può apparire bizzarro chiedersi quanto, dietro il nuovo modo di intendere la funzione intellettuale, avesse influito la generazione delle riviste, quella generazione del primo Novecento che ebbe appunto in Papini la figura più attiva e sollecitante, più instancabile e irrisolta. Eppure questa domanda eviterebbe di osservare la nostra storia letteraria secondo schemi convenzionali, secondo la borsa-valori del momento.
La cultura italiana procede spesso per rimozioni. Fa della dimenticanza un metodo di conoscenza letteraria. Papini è un personaggio archiviato. Non è naturalmente il solo. E’ forse quello che ha contribuito di più, da se stesso, con lo stile gridato di una presenza, con la conversione al cattolicesimo prima e poi con l’acquiescenza al fascismo, a questa archiviazione. Ma cerchiamo di togliere la polvere dall’archivio e, liberi come siamo dall’impulso della sistemazione storiografica, della collocazione per schieramenti e ideologie, guardiamo alla scrittura di Papini, al di là delle successive classificazioni.
L’avventura delle riviste –luogo di incontro di intellettuali e tribuna nazionale- ebbe in Papini un grande animatore. Dal “Regno” al “Leonardo”, da “La Voce” a “Lacerba”, condividendo progetti e impegno di volta in volta con Corradini, Prezzolini, Soffici, il giovane Papini consumò nelle riviste entusiasmi e fedi, rivolte libresche e sperimentazioni, atteggiamenti tribunizi e confessioni. Sul piano politico, la parabola muoveva dal nazionalismo verso un sovversivismo antigiolittiano, da una certa tensione verso il rinnovamento morale del Paese, condivisa con molti “vociani”, al torbido e violentissimo bellicismo interventista dell’ultima fase di “Lacerba”. E sul piano della scrittura, una disinvolta attitudine al saggio, all’elzeviro, all’articolo di fondo, d’intonazione provocatoria e ironica, eloquente e sferzante, si mescolava, o alternava, all’osservazione di sé, a un certo intimismo e frammentismo, anch’esso di appartenenza “vociana”. Si aggiungeva, come intervallo “salutare”, l’esercizio della poesia, spesso di maniera, tardocarducciana, ma talvolta non priva di semplicità e grazia. Una tastiera vastissima di esperienze, anche filosofiche –si pensi alla lettura di Nietzsche, e al credito dato al pragmatismo- che si compendia e allo stesso tempo decanta nella prosa accesa e vibrante di Un uomo finito (1912), romanzesco bilancio di una sfida e di una passione, della sua esteriorità gridata e del suo incavo, del suo vuoto. Proprio laddove il giovane Papini riesce a guardarsi al di là delle maschere, a misurare dentro di sé il varco tra curiosità intellettuale e interrogazione, tra sete di sapere e finitudine, la pagina trova una lingua e uno stile propri, sinceri, e anche sorprendentemente meditativi. Come nella poliedricità spesso esteriore di forme, di passioni, di generi, sia riuscito a tenere viva, almeno nella giovinezza, la cura non esteriore dello stile, e persino del linguaggio della poesia, è davvero sorprendente. Come è sorprendente che quello che per me è il suo libro più riuscito sia stato scritto nell’estate del 1914, quando la rivista “Lacerba” diventa tutta politica, e Papini scrive editoriali già interventisti e nazionalisti. Intendo dire di Cento pagine di poesia, stampato dalla Libreria della Voce, un libro di prose che uniscono profondità di sguardo e finezza linguistica. Prosa d’arte, a tratti, ma anche tersa scrittura di paesaggio, introspezione, sguardo creaturale sugli animali e sugli elementi della natura, diario e descrizione di piccole figure della vita quotidiana osservate in città e in campagna. Una prosa che cerca di liberarsi dal bozzettismo e che fa pensare a certe pagine del Tozzi di Barche capovolte, di Cose e persone, di Bestie, ma anche a certe pagine di Nicola Lisi e di Carlo Betocchi.
La conversione al cattolicesimo coincise con la scrittura della Storia di Cristo: con una lingua piena di toscanismi e un po’ espressionista, gli episodi evangelici sono portati dalla loro semplicità verso una sorta di teatrale mess’in scena da Passione popolare. Léon Bloy da una parte e Giuliotti dall’altra non erano estranei alla natura del cattolicesimo di Papini. Che amò misurarsi con temi diversi, anche arrischiati, in libri come Lettere agli uomini di Celestino VI , Il diavolo e il postumo Giudizio universale. E oscillò, curiosamente, tra francescanesimo e devozione popolare, tra fumisterie teologiche e fascinazioni ereticali.
Gran parte della scrittura di Papini è oggi insopportabile. Eppure, contro la rimozione sopravvenuta e contro la convenzione della critica, c’è qualcosa che, a mio parere, di Papini è ancora oggi rilevante, e che già alla sua epoca era poco considerato. Anzitutto il modo di rapportarsi –con un uso per dir così vivo– con i classici della nostra letteratura, a partire da Dante. Poi il fatto di cogliere negli scritti di Croce, suo costante bersaglio polemico, la grave persistente incomprensione della modernità, della poesia e dell’arte moderna, delle avanguardie e anche della rivoluzione “simbolista”. Inoltre, attraverso la proclamata distanza dal dannunzianesimo, l’aver preparato il campo –e questo è un giudizio di Carlo Bo che condivido- alla nuova poesia italiana (non dimentichiamo che in “Lacerba” sono ospitate le prime poesie di Ungaretti, e di Campana, ma ci sono anche testi di Sbarbaro, di Jahier, oltre che di Apollinaire e di Jacob). Infine, ed è questo forse il punto più interessante, l’avere scritto alcuni racconti brevi che, dalla soglia del primo Novecento, annunciano, per intensità d’apologo, per atmosfera enigmatica, per eccezionalità delle situazioni, la narrativa di scrittori come Loria o Landolfi. Penso a raccolte come Il tragico quotidiano, Il pilota cieco, Parole e sangue, Strane storie. Pagine che, se muovono da Poe o da Hoffmann, hanno venature modernissime di introspezione e una curvatura metafisica. Che la vera cifra stilistica di Papini, al di là della sua vis polemica e del suo ostinato diritto alla contraddizione, fosse quella del racconto fantastico? Non a caso è questo il Papini che piaceva a Borges. Cosa non di poco conto.
(2012)