di Tazio Purzleber
I difensori della tradizione misero in giro la voce che era stato il nemico a sobillare la rivolta, istillando nei caratteri di piombo un veleno: l’idea che non ci fosse nessuna distinzione fra lettere vere e lettere false, ma solo tra lettere pesanti e lettere leggere. Come poteva Letterlandia lasciarsi incantare da una simile sciocchezza? Chi fosse caduto nell’inganno sarebbe andato incontro a un futuro di servitù o si sarebbe semplicemente disfatto, pur di entrare in un vassoio luminoso.
Di contro, i fautori del progresso andavano vociando per la pianura che il futuro era di chi aveva meno peso e aggiungevano, con una punta di sarcasmo, che destinati a finire nel nulla erano proprio quelli che non volevano assottigliarsi. Ne scaturì un braccio di ferro tra i sostenitori dell’isolamento e i sostenitori dell’assottigliamento. Mentre le lettere più turbolente cercavano di intimidire quelle più silenziose, per fortuna c’era anche chi continuava a ragionare. I contrasti si spostarono sul piano delle idee, tra famiglie di lettere senza simboli matematici e famiglie di simboli matematici senza lettere. Cosa mai successa prima, gli ideogrammi cercarono di mediare. Inutilmente, perché riuscirono solo a farsi dare degli spintoni così forti che li trasformarono in irriconoscibili lettere alfabetiche.
Per rispetto al contenuto dei libri, a Letterlandia non c’erano mai stati né scettici radicali sull’utilità dei libri né fedeli di qualche religione che prometteva una vita eterna a chi avesse letto un libro. Fu proprio allora che la scena cambiò. Un serrato confronto ebbe inizio, quanto mai astratto per la verità, sul se e sul come lettere spruzzate potessero pensare. E poi, che dire dell’ipotesi che le lettere leggere esistano? Era sensata? Se qualcosa esiste, continua a esistere anche fuori da un vassoio. Le finte lettere no. Cominciano a esistere solo una volta spruzzate sulla carta? “Ma cosa siamo davvero?” si chiese una lettera greca, la φ per l’esattezza (che si pronuncia “fi”). La solita Z le rispose in modo secco: “Noi siamo lettere ed esistiamo indipendentemente da carta e vassoi!”. Di qui si passò a discutere sull’esistenza stessa di Letterlandia e sul senso della vita di ogni singola lettera. Le famiglie di simboli matematici furono considerate entità fittizie e di conseguenza furono ridotte in schiavitù dalle altre famiglie. Tra i custodi della tradizione ci fu chi gridò: “Il libro della natura è scritto in carattere non matematici!”.
Nessuno, in realtà, aveva intenzione di capire quel che era successo di là dalle montagne. In quel confronto di idee, sempre più acceso e sempre più astratto, ci fu perfino chi osò affermare che, per le lettere, il piombo era solo una prigione. Alcuni teppisti cercarono di ricoprire il punto-cerchio di piombo fuso, trasformandolo in un idolo eretto alla Materia.
Stava per scatenarsi la guerra civile. Per fortuna, se ha senso ammettere l’esistenza della fortuna, il caos seguito all’impoverimento della valle suggerì a tutti di tornare a trattare in modo più pacato. Se non la civiltà, almeno la sua forma esteriore doveva essere salvata. E poiché le uniche cose che funzionano sono semplici, si finì per esagerare: Letterlandia si ritrovò divisa in due fazioni che sostituirono abilmente il problema irrisolto con un altro: dato che una voleva instaurare la Repubblica dei Bastoni e l’altra voleva restaurare il Regno delle Grazie, bisognava decidere la forma dello stato. Poi i due problemi furono confusi l’uno con l’altro, perché non c’era tempo e bisognava agire subito.
Ecco come si presentava una famiglia di Bastoni:
A B C D E F G H I J K L M N O
P Q R S T U V W X Y Z
Ed ecco come si presentava una famiglia di Grazie:
A B C D E F G H I J K L M N O
P Q R S T U V W X Y Z
L’una e l’altra fazione rivendicavano un diritto uno e trino: in caso d’intesa con i barbari, il diritto a essere il loro interlocutore privilegiato, in caso contrario, il diritto a prendere la decisione di aprire le ostilità e, in ambedue i casi il terzo e conclusivo diritto, cioè il diritto a scegliere la strategia che avrebbe condotto alla vittoria, in un modo o nell’altro, cioè con l’asservimento dei Vassoi Luminosi o con la loro distruzione. Ogni famiglia avrebbe dovuto fornire delle lettere-freccia, disposte a sacrificarsi per la suprema causa: alcune si sarebbero scagliate a tutta velocità contro i Vassoi Luminosi; altre, da scegliersi fra quelle usate per le note a piè di pagina, si sarebbero incuneate nelle tastiere; altre ancora avrebbero fatto perdere l’orientamento ai topolini tenuti al guinzaglio.
Anche le famiglie più restìe a schierarsi si trovarono a scegliere o l’una o l’altra fazione. Il che significava modificare anche la propria forma: certi bastoni si fecero tatuare delle grazie sulle proprie aste e certe grazie si sottoposero alla chirurgia estetica per eliminare l’inessenziale, pur di sembrare bastoni. “Scegliere non per scelta. Come Cicerone, tra Cesare e Pompeo. Oh, li conoscevo già” pensò orgogliosamente Alice. “Certo che li conoscevo. Lo zio ama declamare in salotto un discorso che un certo Antonio fece quando Cesare morì. Curioso … lo zio li ha chiamati Julio Kaesare e Pompeo Maghno”. Alice si ricordava di quando, sulla panchina in riva al lago, era voltato via un foglio e lo zio aveva iniziato a riassumerle alcuni pensieri, presi dalle lettere inviate da Cicerone al suo amico Attico, anche se l’idea che qualcuno potesse leggere le sue lettere l’aveva un po’ preoccupata. “Peccato che il temporale abbia impedito a Zio Dogson di leggermi le parole di Cicerone. E Attico, chissà cosa gli ha risposto”.
“Attico”. Alice era rimasta colpita da questo nome. “Che bello, mi sarebbe piaciuto chiamarmi Attica se non mi fossi chiamata Alice”. Ah, i bambini colgono la verità ma non ne vedono subito le conseguenze; le vedono quando sono grandi e allora dimenticano le verità che avevano colto. Non era turbata dal fatto che, se si fosse chiamata “Attica”, non ne sarebbe stata necessariamente contenta e, chissà, avrebbe perfino desiderato chiamarsi “Alice”. Comunque, cioè, anche se ne fosse stata contenta, avrebbe provato una contentezza che la bambina che si chiamava “Alice” non provava e allora lei non sarebbe più stata la stessa. Quella contentezza, quella e non altre, poteva se non altro aiutarla a uscire da un pur infinitesimo guaio che l’Alice non contenta di chiamarsi “Alice” non sapeva superare. Una simile eventualità non era contemplata da Alice perché il desiderio di chiamarsi “Alice” sarebbe stato diverso dai desideri di Alice.
Un attimo, non sempre desideriamo volere quel che vogliamo e non sempre vogliamo fare quel che facciamo. Qualche volta sì, però, e non conviene dimenticarlo. Alice provò a rassicurarsi: “Dopotutto, Cesare voleva attraversare il Rubicone e lo attraversò”. Se non l’avesse attraversato o non avesse voluto attraversarlo, sarebbe rimasto la stessa persona? Anche se lo fosse rimasto, la storia sarebbe stata diversa. Però … può esserci una storia diversa se tutti restano quel che sono? Alice scosse la testa. Non era sicuro che sarebbe rimasta del tutto uguale a se stessa se non avesse voluto chiamarsi “Attica”. “Oh – le diceva zio Dogson – l’ingenuità è così bella … quando ne siamo usciti. Quando non ne siamo usciti, non è né bella né brutta. Non è neppure ingenuità”. Perciò Alice, ripensando a quelle parole dello zio, avrebbe potuto concluderne che non era ingenua.
La situazione in cui ora si vedeva coinvolta suo malgrado non era tale da consentirle altre divagazioni, che per lei, del resto, non erano tali. Ne andava del destino del Paese, s’intende, delle Lettere. E forse il suo desiderio di scendere dal sasso aveva un parte nel destino.
***
Nel Paese delle Lettere, avevano sempre contato le famiglie e, quando c’era un problema, le famiglie si riunivano intorno al punto-cerchio e trovavano un accordo. Sempre piccole questioni. Ora no, la questione era grossa. Tutti erano a conoscenza di quel che succedeva a tanti familiari, che si ribellavano, s’intristivano, fuggivano e in un modo o nell’altro perdevano il loro bell’aspetto. Bisognava uscire dalla Grande Deformazione e per farlo bisognava decidere quale strada prendere, senza che nessuno avesse una chiara idea delle conseguenze. “Chissà se Cicerone ragionò così. Meno male che quando lo zio è rimasto senza lavoro, non si è deformato.” Una E con il bordo già così sciupato che sembrava una L rimproverò i familiari: “Perché avete paura? Anche se la strada fosse quella sbagliata, non sarebbe peggiore della realtà”. Una irriconoscibile M ribatté che non c’era fine al peggio: “Avremmo dovuto saperlo: il nostro è il peggiore dei mondi possibili”. Alcune Z di varie famiglie la misero a tacere.
Appunto per decidere cosa fare era stato indetto il grande concilio, come sempre intorno al punto-cerchio. Una X gridò che Alice non aveva titolo a stare al centro dell’attenzione guardando tutti dall’alto in basso. Doveva andarsene. “Oh sì, su questo sono d’accordo anch’io”, commentò Alice e proseguì in tono eccessivamente orgoglioso: “Siete voi che mi avete detto NOOOO, imponendomi di non muovermi. L’imposizione mi esime da stare in un altro posto. Comunque, è per me un onore trovarmi al centro del Concilio che deciderà le sorti del vostro paese”. La X non ebbe tempo di replicare perché fu trascinata via da un’onda d’urto che pervase l’intera sua famiglia, ma riuscì ugualmente a lanciare contro Alice una piccola virgola che s’impigliò nelle sopracciglia e ci rimase.
Una volta riunitisi, i due schieramenti si fronteggiavano guardandosi in cagnesco. Ogni tanto una famiglia passava direttamente alle mani, cioè, alle aste, contro un’altra famiglia. “Smettetela, per favore”, disse Alice, “Continuando così, vi sciuperete tutte”. La polizia formata da asterischi di tutte le famiglie si interponeva e ristabiliva l’ordine, ma sempre quando l’ordine si era già ristabilito per conto suo. Zio Dogson le dice che così fanno gli sceriffi del West.
Si dibatteva animatamente, in un tumulto di voci e, come Alice aveva potuto verificare con le varie lettere che le erano finite nei capelli, dopo poco si finiva per tornare allo scontro fisico. Gli asterischi si facevano nuovamente valere quando gli animi si erano già calmati, e così via.
A proposito, l’essere di piombo apriva di per sé alla terza dimensione e, benché quei getti fuori dal piano fossero vissuti con terrore dalle lettere più ansiose, le lettere che avevano studiato i libri di fisica erano arrivate a concludere che valeva la regola della mano destra, che però era per Alice la sinistra. Questa regola assicurava che lo spazio fuori dal piano era necessario che ci fosse, che le strane correnti che solcavano il piano obbedivano a questa regola e che la terza dimensione non avesse confini. Cosa che le lettere ignoranti non hanno mai voluto ammettere e continuano a non ammettere, dicendo che sopra al piano del Mondo Liscio c’è solo uno spaziettino indispensabile all’esser fatte di piombo. Anche lì gli ignoranti non sono pochi. E Alice? Non era la più lampante smentita? No, per loro era solo un’illusione: ”Bastano e avanzano due dimensioni e mezzo! La regola della mano destra è solo un’ipotesi e non autorizza a credere che ci sia una terza dimensione, forse infinita, cioè non arrotolata. Atteniamoci ai fatti e quelli che non sono fatti sono illusioni.” Alice aggrottò le sopracciglia, come ogni volta che non capisce (ma la virgola non cascò), limitandosi a osservare: “Io non sono un’illusione! E quando avrò studiato la fisica tornerò qui a dimostrarlo!”
A quegli sciocchi, qualcuno ricordò la grande scoperta di un giovane assistente dell’ingegner Riemann: la pesantezza è più stabile in uno spazio con un numero dispari di dimensioni. Perciò, siccome lo studio di queste cose appartiene alla scienza, siccome la scienza non è un’opinione e siccome la scienza è risparmio di idee e di cose, il numero di dimensioni doveva essere minimo, ma certo non poteva essere 1, altrimenti ci sarebbe stato solo un mondo senza lettere, quindi doveva essere 3. I più fedeli custodi della tradizione avevano apprezzato molto la scoperta e anche in quella occasione, sicuramente inappropriata a discutere di questioni così sottili, conclusero: “È scritto nel Libro della Natura: le false lettere non dureranno!”
Questo e tanti altri spezzoni di ragionamento incuriosivano Alice, che non mancò di intrattenersi amabilmente con delle minuscole d in corsivo e delle enormi S che, disprezzando le discussioni irrazionali, erano a loro volta incuriosite da Alice. Purtroppo manca il tempo per riportare, non tanto integralmente, ma neppure una porzione infinitesima del dialogo che ebbero con Alice. Fatto sta che i riccioli di Alice, da lisci come sono, si fecero tutti seghettati. Fortunatamente durò solo un attimo. Né vale la pena riportare i successivi spezzoni di ragionamento, continuamente mischiati a offese reciproche, parolacce e onde d’urto che, con un colpo di pollice, facevano schizzare le lettere fuori dal piano.
Se non altro, grazie a un tanto vivace dibattito Alice aveva stabilito molti altri contatti. Incontrò di nuovo la H che appena giunta a Letterlandia si era ritrovata in mano. Ma che fosse la stessa lo sappiamo noi. Giustamente, Alice non poteva essere sicura che fosse davvero la stessa H. Per lei era solo una H.
(continua)