Foto di memoria salentine: da don Tonino a Verri

di Augusto Benemeglio

E poi,  in un balzo, eccomi ad Otranto,  a osservare sulla banchina altri innumerevoli volti disfatti di albanesi, maschere allucinate da speranze e furori troppo a lungo repressi.  Ma dalla piana delle matineès  rosate viene loro incontro don Tonino con un fascio di spighe di grano, e quel suo sorriso pieno di miraggi e di utopie, tipo la sua chiesa del grembiule – Non vi abbandonerò – dice – in questo giorno di abbandonati, non vi abbandonerò in mezzo alle croci, al deserto e  alle macerie, alla puzza di vomito e di sudore, e poi va in tivù, nell’arena, nella trappola di Telekabul, che Michele il Rosso gli ha teso per darlo in pasto ai leoni, come Daniele. – Era destino che si dovesse perdere la ragione , e perfino il pudore, lacerarsi i sensi e fare un falò del tuo decoro, per inseguire una follia della santità. – La santità è come la genialità,  non si eredita, è un dono che richiede – tuttavia – un esercizio costante e paziente  di feroce umiltà.  E solo allora, l’anima intimidita entra nella spirale dell’immensità, e non cerca più nulla, poiché nulla è da cercare e da capire: è solo Amore, e l’amore non ragiona!

Non il vedere per primo qualcosa di nuovo, bensì il vedere come nuovo l’antico, ciò che è già anticamente conosciuto e che è da tutti visto e trascurato, contraddistingue la mente diversa”.  Mi ricordavo un po’ Turoldo e un po’ Nietzsche, un po’ Ravasi , un po’ (chissà perché) Empedocle, tra le balaustrate di pietra e le simmetrie dei chiostri domenicani, coi finestroni lobbati, l’altare di Dio e i luoghi un tempo solcati dai torrenti. Me ne andavo come un girovago smemorato, metà viaggiatore e metà pellegrino,  per le vie e per le piazze del Salento, in direzioni da me non volute. Chi mi portava avanti, chi spingeva i miei passi per i labirinti  del granchio e della vite, per seguire una stella cometa già spenta, tra i campi liberi di Lancellotto, la Madonna di Costantinopoli e il menhir di Montebianco?  Ecco Vernole, tra le serre di Martignano e il litorale,  e l’albero di pino col suo profondo silenzio, chiuso e segreto, i suoi casali bianchi, e Acaia, dentro le sue mura e il suo grandioso castello, che celebra la sagra della pittula. “Più non conosco la fame/ più non conosco la tavola vuota/ il piatto vuoto di orzo e di cacio/ il focolare senza fuoco”, scrisse la poetessa Luigina Corciulo,  una sorta di Emily Dickinson salentina, che soffriva di epilessia, malattia di cui allora ci si vergognava e si faceva divieto a chi ne fosse affetto di contrare matrimonio. 

“Ciò che fa la storia non può essere dedotto esclusivamente dalle fonti: occorre una teoria delle storie possibili perché le fonti possano cominciare a parlare”. Con un sentimento di luttuoso sgomento vedevo muovere le labbra mute del Grande Istrione, erede di Maramonte, antico sacerdote del menhir “Candido”, nel covone di grano di Campi, vicino alla zona dei quattro casali distrutti dai saraceni. “Senza contrari non c’è progresso. Attrazione e Repulsa, Ragione e Energia, Amore e Odio sono necessari all’umana esistenza…” . Tra noi non una parola, non una parola. Non ci siamo mai salutati, nelle bettole di Trastevere, o sull’aereo Roma-Brindisi,  all’uscita del teatro Valle, o a Otranto, a casa di Florio Santini, e perfino – una volta – a Johannesburg, dopo aver visto i negri uscire dalle miniere di diamanti e messo una benda nera di vergogna sui nostri occhi. Perché?  E’ difficile dirlo. Ma forse è ancora quella benda nera che acceca la mia memoria. Lui non mi guardava affatto coi suoi occhi da zombi. In realtà era altrove, cassa sonora di sublime e raro talento fatta per parlare senza dire nulla.  Sono momenti molto lunghi e difficili da dire, fanno parte del mio esilio segreto, del mio tempo di mezzo: mezzo marinaio e mezzo scrittore, mezzo pellegrino e mezzo viaggiatore, in fondo  uno senza meta che ogni notte arde brevemente come un fiammifero per cercare di illuminare e ritrovare un po’ l’anima delle cose, come la Mimì della Bohéme che ha perduto la chiave: “Chi arde non si consuma, e se vuoi ritrovare la tua anima bisogna che tu la perda!”

Una capra ricca, tra le stelle e gli ulivi, il paese che non c’è, dove un giorno venne Eugenio Barba a fare le prove del suo teatro etnico, a cielo aperto. Cento attori e danzatori per cinque spettatori.  Qui riposa Verri, il poeta con l’occhio strabico e l’eloquio incespicante, uno di quei “maledetti”  delle terre salentine con il cuore tagliato a spicchi e con la sua lingua di carta, uno che non sapeva danzare, né andare in bicicletta. Vendeva le sue poesie in mezzo al traffico di  Lecce, questo “fabbricante d’armonie”: cento lire al foglio! – Ecco, signori, disse un giorno con la sigaretta tra le labbra al limite del crollo nervoso, questa è la Grotta Romanelli, dove l’uomo cominciò – inconsciamente – dodicimila anni fa la sua lunga liturgia del mistero, della magia  e della sacralità  del sangue, che si sarebbe perpetuato nel tempo. Ma è  difficile amare  Colui che viene nel sangue e nella polvere, amarlo nelle garze infette e la saliva amara, in ciò che disperde senza radice, in ciò che deborda nella cenere fredda, amarlo nel viso pieno di sputi e di spine, nella sua nudità di uomo esposto ad ogni fragilità.  Nessuno cancelli dalla mia memoria le mie intramontabili passioni del venerdì santo, quando i miei lunghi studi senza aiuti e compensi mi rendevano gli occhi semi-ciechi e la mente che  sembrava  scoppiare da un momento all’altro. “Qui – scrive Vittorio Bodini – “c’erano accademie/ e monaci sapientissimi: /o città gloriose / di sporcizia e d’abbandono!”.

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