di Luigi Scorrano
Parlando di Dante nel Novecento è necessario precisare e limitare: esploro qui la presenza di Dante nella letteratura italiana del Novecento soffermandomi solo su qualche esempio. L’argomento, poco o per niente trattato dalla critica nella prima metà del Novecento, ha assunto rilievo a partire dalla fine degli anni Sessanta. Da allora gli studi su questo argomento si sono intensificati.
Il relativo disinteresse per l’argomento derivava probabilmente dalla convinzione che Dante avesse poco a che fare con il Novecento. Fino al primo Novecento funziona un’immagine, ed un’accoglienza, di Dante che si riferisce al ruolo, assegnatogli soprattutto nella letteratura risorgimentale, di simbolo della nazione. Diffuso era il culto di Dante, che si esprimeva in vari modi. Valeva, soprattutto, l’omaggio. La figura e l’opera di Dante erano intoccabili: sacri. Tra fine Ottocento e primo Novecento le cose cominciano ad assumere un aspetto diverso. Con D’Annunzio il culto di Dante padre imbocca una direzione nazionalistica. In Pascoli questo aspetto appare con minore evidenza. Dopo si sperimentano altri modi di accostamento o di distacco. Sono espressioni di questo nuovo orientamento la parodia e l’attentato (uso questi termini come possibili approssimazioni). La parodia, o il filtro di una a volte corrosiva ironia, è nei crepuscolari e in Gozzano in maniera più evidente; l’attacco è nei futuristi. Marinetti dichiara che la Commedia è un verminaio di glossatori, che lui vorrebbe spazzare via. Se la prende, dunque, non tanto con il poeta (che anzi aggrega d’ufficio alla squadra dei futuristi) ma soprattutto con i commentatori di Dante.
Dal secondo dopoguerra matura, invece, un recupero della parola dantesca come sangue della riflessione poetica e come lettura di sé e della contemporaneità attraverso Dante. Si hanno allora situazioni fortemente differenziate. Si abbandona il tipo di lettura univoca che era data dalla tradizione romantico-risorgimentale e si arricchiscono le modalità della lettura e del recupero di materiali danteschi all’interno di nuovi percorsi poetici. Il Dante risorgimentale e post-risorgimentale e quello nazionalistico si presenta unilaterale; il Dante propriamente novecentesco ha connotazioni multiformi che non è possibile ricondurre ad un’unica formula che comprenda e riassuma tutte le esperienze. Perciò va osservato nella singolarità di ogni esperienza di scrittura nella quale lo si ritrovi. Gli esempi scelti e presentati in queste pagine mostrano questa diversità e danno un’idea almeno della forza con cui Dante ha agito sulla poesia del Novecento (non solo di quello italiano, ma di quello mondiale). Ungaretti e Montale, Luzi e Pasolini, Giudici e Sanguineti, Quasimodo e Gadda e Saba e molti altri che si potrebbero aggiungere (e ho citato sparsamente) hanno tutti, in misura diversa, attraversato Dante. Utile mi sembra soffermarmi solo su alcuni esempi mettendo in evidenza il dantismo di due poeti (Dino Campana e Vittorio Sereni) e di un romanziere in piena attività (Alberto Bevilacqua).
Un brano de La Notte di Dino Campana dice così:
… povero, ignudo, felice di essere povero ignudo, di riflettere un istante il paesaggio quale un ricordo incantevole ed orrido in fondo al mio cuore salivo: e giunsi là fino dove le nevi delle Alpi mi sbarravano il cammino. Una fanciulla nel torrente lavava, lavava e cantava nelle nevi delle bianche Alpi. Si volse, mi accolse, nella notte mi amò. E ancora sullo sfondo le Alpi il bianco delicato mistero, nel mio ricordo s’accese la purità della lampada stellare, brillò la luce della sera d’amore. (Cer. 95-96).
Una suggestione dantesca? C’è il racconto di un’ascesa, c’è una figura di donna che canta nelle nevi delle bianche Alpi… Una Matelda? O una Beatrice? E, in alto, la purità della lampada stellare, la luce delle stelle nella sera d’amore: l’attesa e la speranza realizzate. Potrebbe essere uno dei tanti modi obliqui in cui la poesia di Dante entra nella poesia di un poeta del Novecento. Il brano letto potrebbe essere interpretato alla luce di passi danteschi, ma poco offre, o genericamente, perché vi si possano intravedere dei riferimenti precisi alle pagine dell’Alighieri.
La presenza di Dante in Campana è, però, ormai ben documentata; nell’opera del poeta di Marradi s’è cercata una rete di riferimenti attraverso i quali far emergere la struttura dantesca soggiacente ai Canti orfici. Una poesia per troppo tempo indicata quasi come spontanea o “disorganizzata” mostra, attraverso l’indagine su questa struttura, un disegno di costruzione coerentemente perseguito.
Di Dante, Campana individua un tratto caratterizzante: l’interno movimento:
Dante la sua poesia di movimento, mi torna tutta in memoria. O pellegrino, o pellegrini che pensosi andate! (Cer 128).
Questa “poesia di movimento” Campana assume come modello: interno ad essa è il tema del viaggio. Anzi, del viaggio-pellegrinaggio: «O pellegrino, o pellegrini che pensosi andate!» (ed è una citazione-riecheggiamento dalla Vita Nuova).
È un passo de La Verna a fissare questo carattere: quello appena ricordato. Attraverso l’assunzione di quel carattere e del grande modello Campana racconta la sua avventura spirituale, quello che un’attenta commentatrice dei Canti orfici, Fiorenza Ceragioli, ha visto come propiziatore dell’iter di salvezza del poeta entro la fondamentale caratterizzazione di una «poesia che coincide con la moralità» e che realizza una forma di ascesi indirizzata (come «aspirazione») a un mondo moralmente superiore.
Campana ha il suo inferno, il suo purgatorio, forse il suo paradiso. L’Inferno, ne La Notte, è evocato dal ricordo ossessivo della Notte di Michelangelo e del personaggio di Francesca:
… poi che Michelangiolo aveva ripiegato sulle sue ginocchia stanche di cammino colei che piega, che piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano, e lo sbattere delle pose arcane e violente delle barbare travolte regine antiche aveva udito Dante spegnersi nel grido di Francesca là sulle rive dei fiumi che stanchi di guerra mettono foce, nel mentre sulle loro rive si ricrea la pena eterna dell’amore (Cer 88);
Caprese, Michelangiolo, colei che tu piegasti sulle sue ginocchia stanche di cammino, che piega e non posa, nella sua posa arcana come le antiche sorelle, le barbare regine antiche sbattute nel turbine del canto di Dante, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano… (Cer 125);
… occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra arida là dove si perde il grido di Francesca… (Cer 132).
La Notte «piega e non posa»; si coglie l’eco della voce dantesca indicante le anime che mai nessuna speranza conforta «non che di posa, ma di minor pena» (Inf. V 45). I fiumi che, stanchi di guerra, si versano in mare, ricordano il Po che discende alla marina «per aver pace co’ seguaci sui» (Inf. V 99). Grido, che ritorna in due passi ed è attribuito a Francesca, è rintracciabile nel racconto dantesco: «sì forte fu l’affettuoso grido» (Inf. V 87). Il grido spento «là sulle rive dei fiumi» è quello di Francesca nel momento della morte: un trasferimento della parola dantesca dal personaggio-poeta Dante alla protagonista del celebre episodio infernale, non senza conseguenze rilevanti sulla rappresentazione (grido-richiamo in Dante, grido della vita ferita a morte in Campana). Anche spegnersi, del testo di Campana, è nel canto dantesco, per quanto in diversa accezione e forma: «Caina attende chi a vita ci spense» (Inf. V 107). Il turbine è l’equivalente della bufera infernale; antico (donne antiche = barbare regine antiche) trova attestazione nello stesso canto. Il vocabolario, rielaborato, è dantesco; e la tessera lessicale più esposta è galeotta («Galeotto fu il libro e chi lo scrisse», Inf. V 137):
La magia della sera, languida amica del criminale, era galeotta alle nostre anime oscure… (Cer 87).
Il cammino di Campana incrocia personaggi e luoghi della Commedia. La scena de La Notte è una Romagna la cui prima immagine è quella della dantesca «città di Lamone» (Inf. XXVII 49), Faenza:
Ricordo una vecchia città, rossa di muri e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee. […] e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante… (Cer. 83).
Se La Notte è viaggio iniziatico, discesa agli inferi, momento della prova, l’immagine campaniana della città sembra coniugare lo spettro della città di Dite e la piaggia diserta, simbolo del male e aridità della coscienza nel punto di intraprendere un esame di se stessa. Ovvio ricordare – anche per i caratteri salienti della città campaniana rossa, arsa, torrida – il luogo più rispondente dell’Infernodantesco: VIII, 67-75:
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
s’appressa la città c’ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo».
E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie, come se di foco uscite
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
come tu vedi, in questo basso inferno».
Altri elementi danteschi (dei canti VIII e IX dell’Inferno) sono stati indicati: l’avvistamento della torre, il levare lo sguardo verso di essa (L. Bonaffini). Altri se ne possono richiamare, ad es. dal c. XXX dell’Inferno. Qui, nell’episodio di Maestro Adamo, le notazioni di sete e arsura richiamano , per contrasto, un paesaggio di colli verdeggianti rinfrescati da vene d’acqua:
Li ruscelletti che de’ verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi…
(Inf. XXX 64-67).
Il campaniano «lontano refrigerio di colline verdi e molli» ridesta la memoria del desiderio del dannato dantesco: «un gocciol d’acqua bramo» (Ivi, 63). E se per verdi e molli non inopportunamente (anche per la più evidente corrispondenza del calco) è stato indicato il v. 32 di Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra: «prima che questo legno molle e verde», maggior pertinenza ha il sintagma freddi e molli; e verdi erano i colli casentinesi ricordati da Maestro Adamo. È tutto un materiale disseminato in un testo rapido, rilavorato attraverso un gioco abilissimo di associazioni, e con esso si costruisce una situazione che appartiene al soggetto narrante come esperienza propria e singolare, ed appartiene, per l’affinità che vi si scorge, a un’esperienza altrui già costituita in un testo memorabile: la Commedia.
Il materiale dantesco de La Notte proviene quasi esclusivamente dalla prima cantica del poema, raramente dalle altre due. Il fiume impaludato riattiva la descrizione dantesca del Mincio: «non molto ha corso, ch’el trova una lama, / ne la qual si distende e la ‘mpaluda; / e suol di state talor esser grama» (Inf. XX 79-81). L’acqua morta ricorda la morta gora di Inf. VIII 31 e, fonicamente, l’aura morta di Purg. I 17. La nenia primordiale che sale dalla palude campaniana è un riflesso dell’inno che gli iracondi danteschi ripetono sempre uguale se Virgilio con esattezza lo può ripetere a Dante, che non ne coglie bene le parole: «Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo / ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, / portando dentro accidioso fummo: // or ci attristiam ne la belletta negra”. / Quest’inno si gorgoglian ne la strozza, / ché dir nol posson con parola integra» (Inf. VII 121-126).
Fuori da calchi troppo evidenti è la rappresentazione-caratterizzazione della Romagna di Campana: «… guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana antica Romagna» (Cer. 132).
Guerriera scrive Campana, e Dante: «Romagna tua non è, e non fu mai, / sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni» (Inf. XXVII 37-38). Così Dante risponde a Guido da Montefeltro desideroso di sapere se i romagnoli hanno pace o guerra. E se Guido del Duca si lamenta dei «romagnoli tornati in bastardi» (Purg. XIV 99) non può non ricordare anche l’antica Romagna «benigna di nobiltà umana» come la qualifica il poeta marradese. Quanto all’appellativo di amante soccorrerà più che altro, anche per l’insistenza con cui ritorna in Campana, il ricordo di Francesca.
La Notte rappresenta il momento “infernale” del viaggio di Campana, La Chimera e La Verna ne costituiscono il versante “purgatoriale”. Ecco un passo di Campana:
Guardo oppresso le roccie ripide della Falterona: dovrò salire, salire. […] Come incantate erano sorte per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci avvallamenti dove sfumava la valle barbarica […]. Io sentivo le stelle sorgere e collocarsi luminose su quel mistero. Alzando gli occhi alla roccia a picco altissima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare, arco solitario e magnifico teso in forza di catastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti di roccie all’agguato dell’infinito, io non ero non ero rapito di scoprire luci ancora luci (Cer.118).
Come ne La Notte, anche ne La Chimera e ne La Verna il recupero di materiale dantesco, di linguaggio dantesco, rende evidente il passaggio. Nel brano appena ricordato, per «gli ammucchiamenti inquieti di roccie» si può ricordare l’inizio di Purg. X: «Noi salivam per una pietra fessa / che si moveva d’una e d’altra parte, / sì come l’onda che fugge e s’appressa» (Purg. X 7-9). Per la visione delle stelle che appare, guardando da sotto in su, incorniciata dalle rocce, si ricorderà l’esigua parte di volta celeste che Dante può vedere dalla scala, chiusa tra alte pareti rocciose, che conduce al paradiso terrestre («Poco potea parer lì del di fori; / ma , per quel poco, vedea io le stelle / di lor solere e più chiare e maggiori» (Purg. XXVII 88-90): del passo dantesco, Campana ha colto l’atmosfera di mistero e di rivelazione. Per la “roccia altissima” si può guardare a Purg. XXVII 87: «fasciati quinci e quindi d’alta grotta»; per la roccia vista come in movimento, il passo già ricordato, di Purg. X 7-9. L’ansia del salire, poi, ci riporta alla fatica e al desiderio del pellegrino teso alla mèta: «dovrò salire, salire». Qui non è solo il richiamo verbale, ma quello dell’affinità morale, a rinviare al modello dantesco.
Ne La Chimera il v. 24, «Non so se fu un dolce vapore», rinvia a Purg. XI 6; il dolce vapore, che in Dante è «un attributo divino» (come ha annotato Luigi Bonaffini), servirebbe, sempre a parere dello stesso studioso, a dare «risalto alla natura trascendente della Chimera», e come «emanazione spirituale» invita ad intenderlo la Ceragioli. Ma al dolce vapore, a forte marcatura positiva quale che possa esserne il significato preciso attribuitogli dall’autore, è opposto, ne La giornata di un nevrastenico, il malvagio vapore della nebbia. Limpido il paesaggio de La Chimera (stelle vivide, teneri cieli, chiare ombre); offuscato quello de La giornata di un nevrastenico (con la connotazione negativa che, spesso, in Campana, ha nebbia). Il paesaggio d’incubo campaniano (vie deserte come dopo il saccheggio, cimitero) deve forse qualcosa all’incubo “infernale” di Dante: l’apparizione di Lucifero, intravisto come incerto dificio, poi svelato nella sua terribilità. Valga la similitudine dantesca di Inf. XXXIV 4 ss.: «Come quando una grossa nebbia spira…» La compresenza di vapore e nebbia nello stesso contesto (Inf. XXXIII 102-108), con la richiesta di Dante a Virgilio di conoscere la causa del vento che egli avverte – «non è qua giù ogne vapore spento?», v. 105 – porta alla rivelazione che il vapore infernale alita gelido dalla fonte stessa del male, Lucifero. Ma più addietro nel testo dantesco, Inf. V 88, a confermare l’ascendente illustre campaniano, c’è aere maligno, che del malvagio vapore può essere un corrispettivo.
In un appunto Campana annota:
… in queste sere in cui è profondamente dolce la voce dell’organetto, la canzone di nostalgia del marinaio, dopo che il giorno del sud ci ha riempito du vin de la paresse.
Prudente mi sembra non giurare sul rapporto tra l’organetto di questo passo e Par. XVII 46 («dolce armonia da organo»); ne afferma decisamente il collegamento il Bonaffini («l’organetto è senz’altro un riferimento alla “dolce armonia da organo” …»). Ma questo organetto è qualcosa di più modesto dell’organo dantesco; è certamente un organo di Barberia, strumento caro all’immaginazione crepuscolare. Vero, invece, come afferma il Bonaffini, che «Il marinaio è, naturalmente, quello dell’ottavo canto del Purgatorio». Infatti l’inizio di Purg. VIII appare con una certa frequenza, per modi diretti o per allusioni, nella poesia di Campana. Una citazione in parentesi è in un appunto che segue quello prima citato:
L’arte crepuscolare (era già l’ora che volge il desìo) in cui tutto si affaccia e si confonde…
Più vividamente ne La Verna:
Una campana dalla chiesetta francescana tintinna nella tristezza del chiostro: e pare il giorno dall’ombra, il giorno pianger che si muore. (Cer. 126).
Il richiamo a Purg. VIII 5-6 è a livello di citazione. Ma il clima è diverso. In Campana non c’è la nostalgia dell’ora che volge il disio ai naviganti e ne intenerisce il cuore, ma la tristezza che assale l’anima alla fine di un sogno: «Il sogno è al termine e l’anima improvvisamente sola cerca un appoggio una fede nella triste ora» (Cer. Ivi). È sull’impossibilità di trovare quell’appoggio e quella fede che la campana sembra piangere, e il giorno che si muore sottolinea la morte della speranza di trovare la fede cercata. La reminiscenza dantesca non è solo una citazione esornativa o una citazione ritagliata e adattata ad una situazione nuova, ma la verifica, nel vivo della propria esperienza, di un iter già da altri, e in altre condizioni e con altri esiti, percorso.
Semplificando, e alla luce degli esempi ricordati, si può dire che Campana, per costruire rispettivamente il suo Inferno e il suo Purgatorio si serva di due canti esemplari: il V dell’Inferno e l’VIII del Purgatorio. Altri, qua e là, affiorano dalle pagine dei Canti orfici; ma è soprattutto su quei due canti che si tende la trama dantesca della poesia di Campana.
Talvolta concorrono altre opere dantesche al rafforzamento di quella trama. Servirà, anche in questo caso, qualche esempio. La parte finale della sezione 2 de La Notte, se ha un chiaro rinvio a Purg. VIII 1 ss. («Un tocco di campana argentino e dolce di lontananza: la Sera»), può chiamare in causa quella Vita Nuova la cui presenza è stata variamente rilevata negli studi sul poeta. L’incontro con una donna amata, con una Beatrice-poesia, avviene in una chiesa: «nella chiesetta solitaria, all’ombra delle modeste navate, io stringevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi». La “situazione” dantesca resta preminente, nonostante il lampante leopardismo degli «occhi fuggitivi». E un probabile affioramento dantesco si coglie anche nella sezione finale de La Notte: «Passano nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole tessenti fantasie multicolori, …». Il raffronto è possibile con Purg. XXXI 96: «sovr’esso l’acqua lieve come scola». Scola, leggera imbarcazione, come spiegano gli interpreti della Commedia; ma lo stesso termine vale anche per la navicella del telaio, spola. In Campana è evidente questo significato («leggere spole tessenti fantasie multicolori»), ma la suggestione più che dal sostantivo, spole, è attivata dall’aggettivo (leggere / lieve): il trascorrere delle fanciulle è lieve come quello di Matelda sulle acque del fiume sacro. Il volo della tortora, ne La Verna, ricorda (vi ricorre l’aggettivo leggero anche qui) il rapido muoversi del vasello snelletto e leggero che conduce le anime al regno della purificazione: «Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare»: il verbo volare è anch’esso, qui, di provenienza dantesca («che ‘l mover suo nessun volar pareggia», Purg. II 18).
Suggestivo sarebbe (e non impossibile) leggere, ai vv. 7-8 di Firenze (Uffizii), i «persi / Voli» come i voli nell’aere perso di Inf. V 89. Volo perso, volo oscuro dell’anima? Né fuori luogo sarebbe cogliere nell’insistente rima notte : rotte di Batte botte un frammento di Purg. I 44-46. Si potrebbe scorgere, sotto l’apparenza di una rima “facile” l’oculata ricerca, da parte di Campana, di un’occorrenza unica nella Commedia. E in Firenze, in un passaggio,
A Signa nel ronzio musicale e assonnante ricordo quel profondo silenzio…
può insinuarsi un richiamo alla doppia occorrenza di assonnare in Purg. XXXII 64-69 («S’io potessi ritrar come assonnaro / li occhi spietati udendo di Siringa, / li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro; // […] ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga»); nei due casi l’assonnare è legato ad un elemento musicale.
Ma si è su margini in cui, si potrebbe osservare, la possibilità del riferimento dantesco è pari alla sua opinabilità. Certo, non si tratta di rinvii danteschi di natura occasionale; discutibili, forse, ma tali da richiedere una contestualizzazione sicura nel sistema campaniano.
Sereni è un poeta ben lontano dalla figura di Dante e della sua opera. Così in apparenza. La sostanza è diversa. Cercando, infatti, nelle pagine di Sereni, una qualità “dantesca” della sua poesia non è difficile riconoscerla. Il dato fondamentale è costituito da quel «senso della contemporaneità» sul quale Sereni ha spesso richiamato l’attenzione. Basta ricordare un breve passo della prosa che s’intitola Dovuto a Montale:
Da tempo mi ero accorto che in una pagina scritta come in un intero libro i segni che più mi attraevano erano connessi al senso della contemporaneità, diciamo al colore e all’aria del tempo nel quale ero posto a vivere.
Anche la presenza dantesca, in qualunque modo si articoli, è fortemente agganciata al senso della contemporaneità. A questo si collega la coscienza del muoversi in una zona limitrofa ad un mondo ‘altro’, come in due versi de La ragazza d’Atene:
Presto sarò il viandante stupefatto
avventurato nel tempo nebbioso.
«Diario d’Algeria», è stato notato, «non è altro che la trascrizione, il diario, l’espressione di questo “viandante” nel suo viaggio tra i morti in cerca di certezze…». Con Diario d’Algeria la presenza dantesca in Sereni si fa decisiva, mentre in Frontiera non risulta del tutto libera da qualche riecheggiamento un poco esteriore. Non è un caso, perciò, che nell’antologia del poeta curata da Lonardi e Lenzini, benemerita anche per i rinvii danteschi del commento, solo in due testi di Frontiera si colgono riecheggiamenti della Commedia: plaga, al v. 6 di A M. L. sorvolando in rapido la sua città (e viene ricordato Par. XXIII 11-12: «la plaga / sotto la quale il sol mostra men fretta»); al v. 9 della stessa poesia per festuche (con rinvio a Inf. XXXIV 12); e al v. 8 di Un’altra estate per s’appunta (e viene ricordato Purg. XV 49). Una ricognizione ulteriore consente di cogliere una trama ben più estesa di riferimenti. Ed è utile coglierli, questi riferimenti, soffermandovisi puntualmente.
Si veda Inverno: i vv. 1: «ma se ti volgi e guardi»; 8-10: «poi che ti volgi / e guardi / la svelata bellezza dell’inverno»; 12-15: «[…] ed hai / un gesto vago / come di fronte a chi ti sorridesse / di sotto un lago di calma, …». Un verso dantesco affiora con maggiore immediatezza, Purg. III 106: «Io mi volsi ver lui, e guardail fiso». Il volgersi e il guardare del v. 1 di Sereni sono esposti in tutta evidenza nel verso dantesco; ma in Inverno anche il dantesco fiso trova corrispondenza nell’espressione in fissità del v. 12 («Armoniosi accenti sorgono / in fissità, nel gelo…»). Per ti sorridesse (v. 14) il rinvio possibile (e l’unico plausibile per la sua contestualità con gli altri) è a Purg. III 112: «Poi sorridendo disse…». Tornando a volgersi e guardare del testo sereniano è possibile esplorarvi quanto è soggiacente al semplice registrare l’azione. Volgersi richiede la volontà di osservare le cose; guardare, la forza di non rifuggire dalla realtà. Così avviene nell’incontro di Dante e Manfredi nel Purgatorio:
Biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso
(Purg. III 107-108).
Volgersi e guardare, fiso, e scoprire la deturpante ferita, turba l’idillio dell’incontro; ma lo richiede necessariamente quell’incontro. E, sempre per volgersi e guardare e, dunque, per questo guardare in faccia la realtà, si può rinviare al drammatico «si volge a l’acqua perigliosa e guata» di Inf. I 24: significativo, il passo, rapportato al testo sereniano, per la presenza dell’acqua: oscuramente perigliosa anche quella, tra metafora e realtà, del lago di calma.
In Concerto in giardino un paesaggio edenico (giardini, acque, concerto) è turbato da immagini di negazione, e soprattutto da quella inquietante dei «bambini guerrieri» al v. 4. È la situazione, qui, a riecheggiare, sia pur vagamente, quella del paradiso terrestre dantesco: rappresentazione profetica di una realtà sconvolgente che turba un quadro apparentemente armonico. Il tenue riferimento ad una probabile memoria dantesca può sembrare illusorio qualora si consideri per sé, isolatamente; più probabile se lo si innesta in una rete di riferimenti e di allusioni-reminiscenze. Un appoggio, affinché non si consideri un inganno della memoria del lettore un simile gioco di filtro dell’antico nel nuovo, può fornirlo una dichiarazione dello stesso Sereni, assai più tarda rispetto a Frontiera, ma significativa come riflessione dell’autore su un procedimento poetico:
Un’altra avvertenza concerne il caso di versi o frasi di autori del passato, o contemporanei, inseriti talvolta e non sempre dati tra virgolette o in corsivo. Risulteranno individuabili nella stessa misura in cui sono riaffiorati e entrati nel discorso. Per questo appare superfluo indicarli e, tanto più, sottolineare il senso e il fine della loro adozione.
Sulla base di questa affermazione si possono intravedere filigrane dantesche là dove affidate semplicemente alla disseminazione di parole del lessico dantesco e a quello particolarmente ascrivibili benché più largamente appartenenti alla lingua della tradizione poetica. Così nei vv. 2-5 di Azalee nella pioggia:
… fu vostra la grazia dell’aria
nel lume di primavera. Ora si turba
lo splendido fervore.
Ma se il lago riaccenna al sereno…
Si consideri Par. XIX 64-65:
Lume non è, se non vien dal sereno
Che non si turba mai…
Lume, turbarsi, sereno appartengono, certo, alla lingua della tradizione poetica; ma è suggestivo ritrovare queste tessere lessicali strette in un breve giro di versi sereniani come nel passo dantesco ricordato; ciò che le fa sembrare niente affatto casuali.
C’è in Frontiera, e in tutta la poesia di Sereni, una presenza dantesca ‘trasversale’; ai pochi esempi fin qui registrati si aggiunga, più chiaro in questa direzione, quello di Settembre, vv. 1-2 e vv. 6-8:
Già l’olea fragrante nei giardini
d’amarezza ci punge…
E il vento che illumina le vigne
già volge ai giorni fermi queste plaghe
da una dubbiosa brulicante estate.
«Già … ci punge», «il vento / già volge», «ai giorni fermi»: è l’addio ai dolci amici che rintocca nei primi versi del canto VIII del Purgatorio:
Era già l’ora che volge il disio
Ai navicanti…
[…]
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more.
Rapidamente si possono ricordare altri esempi. La ripetizione della parola pace in 3 Dicembre, vv. 1-2, 8 («All’ultimo tumulto dei binari / hai la tua pace, …»; «Pace forse è davvero la tua») richiama Inf. V 92 e 99. Il raccostamento di fioco e tumulto, in Inverno a Luino, vv. 25-26 («un fioco tumulto di lontane / locomotive verso la frontiera») fa pensare a Inf. III 27-28: «voci alte e fioche, e suon di man con elle / facevano un tumulto, …».
Un’indagine nell’apparato critico allestito da Isella (Appendice II di Frontiera) consente di vedere un Sereni non del tutto affrancato dalla tradizione letteraria, antica e recente, che qui un poco lo impaccia mentre va saggiando di quanto la sua voce possa riuscire originale. Ed è curioso vedere, in alcuni testi contenuti in quell’appendice, la ripresa di situazioni sovrapposte: quella dell’Enrico IV pirandelliano, ad esempio, su quella del Ciacco dantesco. E si potrebbe osservare la rimodulazione ( o il tentativo di rimodulazione) della topica similitudine delle foglie che il vento autunnale strappa ai rami degli alberi: Dante (Inf. III 112-115) e Manzoni vi concorrono (ma questo esula dal nostro discorso).
Può sembrare eccessivo cercare tracce su margini un po’ risicati; ma anche la vicenda di Frontiera mostra un Sereni impegnato a illimpidire un nucleo poetico depurandolo anche da troppo visibili affioramenti di materiali della tradizione poetica italiana non soddisfacentemente assestati nel suo contesto poetico. Se un ricavo consistente è riconoscibile nel lavorìo di Sereni su Frontiera esso è da individuare in un rilevato passaggio dalla giovinezza alla maturità poetica. E il ricalco del modello dantesco non sarà tanto da cercare nelle sicure od opinabili tessere lessicali e modulazioni stilistiche quanto in una lezione profondamente accolta: quella che conduce Dante dalla temperie «fervida e passionata» della Vita Nuova a quella «temperata e virile» del Convivio (Cv I I 16).
In Diario d’Algeria l’accento è, certo, temperato e virile, per dirla alla maniera dantesca. C’è una diversa fermezza di fronte agli avvenimenti ed alla propria storia interiore. In questa temperie anche l’allusione dantesca si fa più precisa e più ricca. Un esempio si ha ad apertura di libro, Periferia 1940; vi si leggano i vv. 1-4:
La giovinezza è tutta nella luce
d’una città al tramonto
dove straziato ed esule ogni suono
si spicca dal brusio.
Torna, qui, la suggestione dei versi iniziali del c. VIII del Purgatorio (vv. 1-6): «Era già l’ora che volge il disio…».
Paesaggio “purgatoriale”, in Sereni, evocato non tanto dal riferimento al tramonto, tutt’altro che esterno, ma soprattutto dalla puntura di malinconia di ogni suono straziato ed esule che compendia tono ed atmosfera del celebre passo dantesco.
Nella prima redazione (A Milano, in febbraio), l’inizio riporta, a livello lessicale, con maggior evidenza al passo di Purg. VIII:
Fu un mese lungo d’addii
protratti dolcemente nelle sere:
[…]
con quegli estremi amici nelle strade;
e si confrontino dolce/dolcemente, dolci amici / estremi amici, addio / addii. Visibile già in Frontiera la suggestione del passo dantesco, oltre che in Settembre, già annotata, in Strada di Zenna, vv. 21-24:
E attorno l’esteso strazio
delle sirene salutanti nei porti
per chi resta nei sogni
di pallidi volti feroci;
e nel Diario d’Algeria un’eco rintocca nei vv. 1-3 di Italiano in Grecia:
Prima sera d’Atene, esteso addio
dei convogli che filano ai tuoi lembi
colmi di strazio nel lungo semibuio.
Il materiale lessicale è sostanzialmente uguale o affine: esteso strazio / esteso addio sono, in questo senso, sintagmi rivelatori. Un’eco così elaborata da poter essere colta solo attraverso la trafila delle citazioni riportate; un’eco ormai dal poeta compiutamente assorbita nel sentimento della propria dizione poetica: senza residui.
Diario d’Algeria è, per così dire, un libro “purgatoriale”, perché più s’accosta alla seconda cantica dantesca sia nella dimensione morale sia nel tessuto di citazioni e reminiscenze che vi si rintracciano. L’appoggio per questa caratterizzazione si può trovare nello stesso Sereni che, in una prosa dal titolo Algeria ’44 annota: «Un’alta collina boscosa di forma troncoconica, da montagna del Purgatorio, sovrasta il nuovo campo». E su questa purgatorialità si è già soffermata l’attenzione di lettori di Sereni: Paolo Baldan, che nella rappresentazione vede «un simbolo perfetto di evasione, un magnifico contraltare della “feroce aiuola” in cui l’uomo si dibatte; […] basta soltanto laicizzarlo, acquistarlo all’area dei viventi e farne un luogo psicologico, per permetterne un pronto impiego novecentesco». E della purgatorialità del Diario ha scritto Silvio Ramat.
Se ritorniamo a Periferia 1940, che abbiamo già ricordato, possiamo ravvisare un’altra occulta tessera dantesca, nel v. 6 in particolare. I vv. 5-8 dicono:
E tu mia vita salvati se puoi
serba te stessa al futuro
passante e a quelle parvenze sui ponti
nel baleno dei fari;
a raffronto, Par. XVII 97-99:
Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ‘l punir di lor perfidie.
Se per Dante c’è, in una situazione di crisi, il conforto di una giustizia sia pure postuma (ma l’infuturarsi è legato alla parola vita), per Sereni non c’è altra risorsa che la volontà, possibile, di scampare alle pressioni di una desolata realtà, fiducioso perché, come dice in una sua prosa intitolata Male del reticolato, «osa ancora credere alla pazienza e alla memoria»: alla pazienza e alla memoria, dantescamente.
Ancora un esempio minimo di questo diffuso dantismo di Sereni. Ne La ragazza d’Atene, i vv. 17-18 («Presto sarò il viandante stupefatto / avventurato nel tempo nebbioso») hanno fatto pensare, proprio per il viandante stupefatto, a Leopardi e a Cardarelli; a Leopardi per il “confuso viatore” al v. 29 del Tramonto della luna, a Cardarelli per il “viandante disorientato” di una prosa di Prologhi. Suggestioni e richiami (e si devono al commento di Lenzini) ai quali mi pare non avventuroso aggiungere, forse meno visibile ma più pertinente il peregrin dantesco di Par. XXXI 40 al quale è attribuito lo stupore: «di che stupor dovea esser compiuto!». Evidente la differenza tra il viandante sereniano e il peregrin dantesco, ma è pur vero che solo a quest’ultimo è attribuito lo stupore, mentre il viatore/viandante leopardiano/cardarelliano è confuso/disorientato.
Con Gli strumenti umani, la presenza dantesca in Sereni si fa più decisa e matura. Voci dantesche sono, ad esempio, dissigilla e disfattoannotate da Lenzini; vi si può aggiungere, ad esempio, fresca nel senso di recente: («la casa visitata dalla mia fresca morte»: a fronte di Inf. XIV 42: «escotendo da sé l’arsura fresca» e di Purg. II 130: «così vid’io quella masnada fresca»). Nella sez. V di Una visita in fabbrica, un’allusione dantesca, poco distante da una leopardiana, ha la funzione di sottolineare l’estraneità della poesia a un mondo intento a perseguire ben altri beni:
La parte migliore? Non esiste. O è un senso
di sé sempre in regresso sul lavoro
o spento in esso, lieto dell’altrui pane
che solo a mente sveglia sa d’amaro.
L’altrui pane che sa d’amaro richiama Par. XVII 58-59: «Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui…»; e Sereni commenta:
Un monito a tener duro in nome di coloro (gli operai) che oggi sembrano “lieti” del pane padronale, “amaro” solo per chi sta sveglio e tiene d’occhio fatti e condizioni, capace d’ira ma desideroso soprattutto di chiarezza…
Il pane altrui è amaro solo per chi è consapevole (“a mente sveglia”); questa consapevolezza è la caratteristica che lega l’atteggiamento sereniano alla parola dantesca, quel che fa avvertire al poeta d’oggi un senso di contemporaneità con la parola e l’atteggiamento del poeta di un tempo lontano. Anche questo avvicina il viaggio di Sereni a quello dantesco: compiere l’esperienza individuale a favore di chi ha bisogno, non potendolo con le sue sole forze, d’esser fatto consapevole. Ci si muove in una realtà irta di asperità, che desta sgomento. E la città d’oggi è piena d’insidie e d’avventura come la Firenze dantesca. Sempre in Una visita in fabbrica, nella stessa sez. V, troviamo:
Ecco. E si fa strada sul filo
cui si affida il tuo cuore, ti rigetta
alla città selvosa…
e città selvosa consente il rinvio a Par. XIV 64: «Sanguinoso esce de la trista selva»: cioè da Firenze. Con un di più di ambiguità in Sereni, là dove la città è selvosa perché, come scrive lo stesso Sereni, «con promesse d’avventura», ma anche «ambigua tra “giungla” e “scampo” nel senso della vecchia natura».
Il colloquio con i morti, che è una “situazione” frequente nella poesia di Sereni, attiva un ampio materiale dantesco, non sempre in evidenza, ma largamente ed accortamente disseminato e, spesso, occultato. Non possiamo fermarci a rilevarne che qualche sparso esempio. Si veda un passo di Intervista a un suicida:
Immobile, uniforme
rispose per lei (per me) una siepe di fuoco
crepitante lieve, come di vetro liquido
indolore con dolore.
Gettai nel riverbero il mio perché l’hai fatto?
Ma non svettarono voci lingueggianti in fiamma.
non la storia di un uomo…
La siepe di fuoco richiama quella che racchiude i lussuriosi nel purgatorio (Purg. XXV 112-114); l’espressione indolore con dolore può rifarsi all’affermazione di Virgilio in Purg. XXVII 20-21: «Figliuol mio, / qui può esser tormento, ma non morte»; il vetro liquido ricorda il bogliente vetro dantesco di Purg. XXVII 49; le voci lingueggianti in fiamma rinviano all’episodio di Ulisse, Inf. XXVI 85-89, con le fiamme dalle quali fuoriesce la voce dei dannati. Un’altra composizione, Il muro, se si può ricordare genericamente per il colloquio con i morti, contiene anch’essa precisi riconoscibili elementi danteschi. Nel dialogo, l’immagine paterna è quella di un Cacciaguida spogliato di solennità e restituito a una dimensione di complicità ironica. Il tuffo di carità provato da chi narra diventa, nelle parole del defunto, carità pelosa:
Dice che è carità pelosa, dà presagio
del mio prossimo ghiaccio, me lo dice come in gloria
rasserenandosi rasserenandomi
mentre riapro gli occhi e lui si ritira ridendo…
Di Dante si ricorderà:
Ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso…
Altrove si possono cogliere suggerimenti più che riecheggiamenti, all’insegna di una riflessione morale davanti alla constatazione del traviare umano. Così in Quei bambini che giocano, vv. 3-8:
Perdoneranno. Un giorno.
Ma la distorsione del tempo
il corso della vita deviato su false piste
l’emorragia dei giorni
dal varco del corretto intendimento:
questo no, non lo perdoneranno.
Non si è lontani dal clima morale della denuncia di Beatrice: «e volse i passi suoi per via non vera, / imagini di ben seguendo false, / che nulla promession rendono intera» (Purg. XXX 130-132); «Le presenti cose / col falso lor piacer volser miei passi…» (Purg. XXXI 34-35). Si può risalire, a specchio di quel corso della vita deviato su false piste, fino allo smarrimento nella selva oscura, alla diritta via smarrita di Inf. I.
Questo modo del recupero di ‘suggerimenti’ danteschi continua anche in Stella variabile. Prendiamo ad esempio un testo molto noto di Sereni, Un posto di vacanza. Vi leggiamo, nella sez: II, vv. 56-61:
[…] l’onda
rutilante, oceanica
con bagliori di freddo sul frangente
obliquo a invetriare sguardi e voci nell’estate tirrenica…
qui si rompe il poema sul posto di vacanza
travolto da tanto mare -;
l’invetriare rinvia a Inf. XXXIII 128 («le ‘nvetriate lacrime») ma, in genere, alla descrizione dei peccatori della Tolomea (ivi, 91-99 e, al v. 98, l’espressione “visiere di cristallo”).
La situazione dei vv. 60-61 è quella dantesca di Par. XXXIII 48 («l’ardor del desiderio in me finii») e 55 ss. dello stesso canto:
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ‘l parlar nostro, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
[…]
ché quasi tutta cessa
mia visione […].
O quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.
[…]
A l’alta fantasia qui mancò possa…
Travolto da tanto mare, scriveva Sereni: non è che l’immagine labile di una immensità/immanità davanti alla quale la memoria cade vinta. Il resto del passo di Sereni si può leggere in parallelo con tutta la parte terminale di Paradiso XXXIII, con il “profondare” in una verità che si percepisce nella sua grandezza. Sereni risolve la situazione in una versione parodizzante, ma non troppo; consapevole di volersi arrendere a tanto mare «senza zavorra o schermo di parole», come si legge al v. 65 (in Dante il “corto” e “fioco” dire umano), di volersi impossessare d’una scintilla della verità entro la quale ci si immerge («una favilla sol de la tua gloria», Par. XXXIII 71: Sereni: «fendere il poco di oro che rimane / sulle piccole isole», vv. 66-67) prima di ricadere nel “nero” dell’oblio. E se di interruzione, e non di conclusione, si tratta («qui si rompe il poema sul posto di vacanza »), si può ricordare la situazione di difficoltà in cui viene a trovarsi Dante in un tratto del percorso paradisiaco:
E così, figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin riciso
(Par. XXXIII 61-63).
Non indugeremo su altro. Proviamo a trarre, dal percorso nella poesia di Sereni, una conclusione provvisoria. Letta attraverso un senso di contemporaneità fortemente avvertita da Sereni, la Commedia offre un’intelaiatura generale tutt’altro che rigida, anzi duttilmente utilizzabile per una lettura della vicenda esistenziale e dell’avventura intellettuale d’un uomo d’oggi. I brani di memoria dantesca che scivolano nell’opera di Sereni e vi compongono una vasta tela di riferimenti sono restituiti nelle modalità consentite da un discorso che registra più domande che risposte e, dunque, non appoggia su basi di certezza ma sul dubbio costituivo della coscienza novecentesca. Non c’è, in Sereni, una verità assoluta alla quale si è certi di pervenire alla fine del viaggio; c’è il viaggio con le sue esitazioni, incertezze, soste pensose. Non c’è discesa agli inferi e salita all’empireo, un percorso redentivo di morte e resurrezione. Ma resta, nella pagina di Sereni, il doppio livello di giudizio ch’è proprio della Commedia: quello che il pellegrino vivo esprime sulle vicende e sugli uomini del proprio tempo, e l’altro, che i morti esprimono sui vivi. In Sereni, l’incontro ed il colloquio con i morti non è tanto un tuffo nella storia e nella cronaca del proprio tempo alla luce di verità supreme e di una universale trama di eventi; è l’affiorare alla coscienza di quel mondo apparentemente sconosciuto che l’uomo talvolta chiude inconsapevole dentro di sé. La voce dei morti non è che l’eco chiara d’una situazione che la coscienza, anche attraverso lo strumento d’una limpida ironia, va chiarendo a se stessa.
Il linguaggio, là dove s’intarsia di preziosi tasselli, mai esornativi, o ricerca la via di una dizione alta, risponde al desiderio di dare fermezza alle registrate oscillazioni dell’esistere. La solennità che a volte sembra irrigidirlo è solo il modo adottato per conferire dignità alla vicissitudine di un’altalenante quotidianità; vi s’infiltra, a correggere quanto eventualmente rischi d’apparire esorbitante dal margine stabilito, un’ironia non sorridente e leggera ma profondamente – ed unicamente – pensosa. Riduttrice, non riduttiva. Si capisce anche per questo perché la ‘purgatorialità’ sia la cifra più segreta ed insieme più esplicita del dantismo di Sereni. La ‘purgatorialità’ è la certificazione dell’esistenza in atto, con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti ma anche con la sua carica di fraternità: una carità ‘laica’ rafforzata da un difficile esercizio quotidiano di comprensione delle ragioni degli altri e dell’indagine senza indulgenze sulle regole, per il poeta come per ognuno degli uomini, del proprio vivere.
Se è impossibile al poeta contemporaneo riproporre – o ripercorrere tout court – l’esperienza del poeta medievale, il serbatoio dell’opera dantesca schiude anche allo scrittore novecentesco la sua ricchezza, ed egli vi può attingere procedendo a verificare nella società in cui vive le possibilità “attive” del grande modello. Sereni le trova nella connessione al “senso della contemporaneità”, “al colore e all’aria del tempo” nel quale è posto a vivere. Dileguata dal suo orizzonte ogni trascendenza, resta però, come certezza alla quale riferirsi, la necessità di chiarire le motivazioni fondanti del vivere e dell’agire. Per questa ricerca Dante costituisce, anche per Sereni, un punto di riferimento accolto e sapientemente ripensato.
Anche il romanzo italiano del Novecento ha guardato a Dante. Espongo qui un solo esempio: quello del romanzo L’occhio del gatto di Alberto Bevilacqua.
Non si tratta di un riferimento casuale. Il “viaggio” è tema frequente nell’opera dello scrittore parmigiano; un viaggio costituisce la premessa, e anche la conclusione, dell’Occhio del gatto. Marcello, il protagonista del romanzo, che realizza documentari cinematografici, è stato portato da uno dei viaggi professionali in uno «dei tanti […] inferni clandestini sui quali […] strepita il mondo», dove ha luogo una guerra e dove i parenti delle vittime “vendono” i cadaveri straziati a coloro che raccolgono immagini su cui far fremere – magari solo esteticamente – il mondo occidentale. In quell’inferno il documentarista ha una guida: il pilota che conosce la boscaglia e sa dove atterrare.
Tornato a Roma, Marcello deve sistemare il materiale “girato”; all’ultimo piano di un moderno ed anonimo edificio, seduto alla moviola, egli vede ripassare sotto i suoi occhi le immagini atroci di cui si compone la sua discesa agli inferi. Il montaggio delle immagini costituisce l’asse portante del discorso; il dramma si costruisce attraverso la selezione dei materiali girati.
L’idea sarebbe di costruire un mio viaggio agli inferi, guidato dal pilota, un cammino dantesco nelle viscere di questa realtà, fino alla battaglia, rovesciando il concetto di redenzione: dall’alto al basso; […].
Comincio. Così discesi nel cerchio primaio…
Le immagini che passano in moviola, tempestose, sono visioni di guerra: fumo portato dal vento, polvere, ma più «granelli sodi»; il sonoro «è un uragano». Scatta proprio da quelle immagini la memoria-commento della Commedia:
La bufera infernal che mai non resta, / mena li spirti con la sua rapina.
Giro la mia mistura infernale.
I luoghi danteschi non sono ripresi come citazioni dotte; piuttosto entrano a far parte del continuum del discorso. Per la strettissima correlazione tra parola e immagini, o viceversa, i passi danteschi risultano l’unico commento necessario, ritrovato nella memoria e totalmente immerso nella situazione rappresentata. La cultura, non adottata ad essere sterile ornamento (e tale sarebbe se i versi danteschi non fossero che “belle” citazioni), s’immerge nella vita: l’atrocità dell’esperienza infernale del poeta antico si ripropone nell’inferno contemporaneo di un mondo continuamente sconvolto dalle guerre.
La variante («Così discesi nel cerchio primaio» – nel invece di del) non costituisce un lapsus ma produce una ridisposizione della materia dantesca: quello di Bevilacqua non è un inferno teologale, non c’è da attraversare alcun Limbo. La voragine mortale risucchia di colpo quel pellegrino dell’immagine che è Marcello, lo colloca bruscamente in una dimensione che col mondo quotidiano (anch’esso con i suoi piccoli, e forse sopportabili, inferni) non ha altro collegamento se non quello che la macchina da presa consente attraverso l’immagazzinamento delle immagini. Resiste – umana – l’intesa tra Marcello e il pilota, tra la guida e colui che è guidato:
…subito dopo io mi giro verso il pilota e lui mi ricambia con un sorriso dalla faccia ricoperta di terra, allunga la mano fraternamente alla macchina, alla mia testa.
Allora […] io vorrei che arrivasse una voce di attore, sul dettaglio del pilota, ma una voce umile, […] e lo sottolineo, umilissima, e la voce dovrebbe recitare: Mentre ch’i’ ruvinava in basso loco / dinanzi alli occhi mi si fu offerto / chi per lungo silenzio parea fioco: / Quando vidi costui nel gran diserto, / “Miserere di me” gridai a lui / “qual che tu sii, od ombra od omo certo!”
Le visioni d’orrore si moltiplicano, finché uno spazio di pace e di speranza si apre su quelle di un incontro d’amore di due giovani. La conclusione dell’episodio è fuori dalle angosciose visioni, in una via luminosa di Roma:
Sopra i muri la luce si fa dorata e insieme affollata di ombre verticali e procedo illudendomi in una campagna che solo io vedo, tra i campi di grano. Se la trasmissione potesse terminare qui, nella strada, vorrei che la voce dell’attore arrivasse e dicesse, facendosi più remota: O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi.
Il percorso è quello della Commedia, semplificato nelle motivazioni e negli esiti. Si è in presenza di una Commedia laica, e la luce che la conclude, la “luce eterna”, nel romanzo di Bevilacqua non è quella dell’unità e trinità divina ma – con dolce ironia – la luce solare in una via romana, e vale un reimmergersi nella vita, quasi un riconciliarsi con essa dopo lo spettacolo insostenibile di ciò che la violenza dell’uomo produce.
Il viaggio sembra concluso, l’animo riaffacciato al piacere di vivere. Se non che il vero dramma è altrove; esce dalle maglie di una pur atroce rappresentazione, si consuma non nel giro delle immagini fermate per sempre ma nella durata dei giorni, non nella fissità dei fotogrammi ma nella mobilità dell’esistenza.
Dante, ancora, rispunta lungo il percorso, non casualmente per quanto con minore efficacia, e ridiventa “necessario” verso la fine del romanzo.
Alla soglia del capitolo XI sono collocate in grande evidenza due citazioni: una di Vladimir Holan, l’altra di Dante con la semplice indicazione, in parentesi, Purgatorio. La citazione è un indicatore di direzione per la mèta dell’ultimo viaggio del protagonista. I molti viaggi di Marcello, quelli di lavoro, si staccano da lui: uno, ultimo, ne resta da compiere, ancora un percorso dell’esistenza nella sua totalità si direbbe. Così, nel romanzo, un viaggio è la premessa, un viaggio la conclusione:
Ed ora, alla fine davvero di quanto era ed è in mio potere, c’è un viaggio.
[…]
Meta del mio viaggio è una città. E arrivandoci, lasciandomi inghiottire, io scopro nei suoi palazzi e nelle sue strade l’autonomia da tutti i luoghi del mondo in cui ho visto e ho vissuto violenza, […].
[…] una città non schiava o schiava unicamente del suo essere autonoma fino all’illusione.
[…] è Mantova.
Mantova, città virgiliana, è il luogo dell’incontro con un’altra guida, una figura femminile, e, insieme, con uno specchio della propria anima. Ma il viaggio è immaginario («Questo è il viaggio di uno che non lo farà mai. Ed è inutile che insista») e la guida è morta («Mia madre la vedo morta in questa camera»); il viaggio, però, per quanto immaginario, consegue il suo fine, ristabilisce una comunicazione:
Ci siamo ritrovati madre e figlio attraverso l’ironia.
L’incontro “dantesco” è un ritorno alle origini; l’abbraccio – «e l’un l’altro abbracciava» – è il riprender contatto con una certezza inalterabile. Ciò che avviene oltre – il suicidio di Marcello – non è che un gesto esteriore. La conclusione reale è in quel riprendere totalmente possesso di sé avendo Marcello contemplato – come Dante al culmine del suo viaggio ha la visione di Dio e confessa colmi “disio” e “velle” – il punto da cui egli ebbe origine e che, con inalterata ed ascetica vocazione all’ironia, indica la conclusione necessaria.
[“La Capitanata”. Quadrimestrale della Biblioteca Provinciale di Foggia, a. XLV, 21, giugno 2007, pp. 65-83]