Il fascino discreto dell’imperfezione nella vita e nella ricerca

di Antonio Errico

Alle ore 12.30 del 17 luglio 1994, con l’aria che brucia a 36 gradi, allo stadio Rose Bowl di Pasadena, in California, si gioca Italia- Brasile.

Alla fine dei tempi regolamentari il risultato è 0-0. Alla fine dei supplementari è ancora quello. A battere i rigori comincia Baresi. Sbaglia. L’ultimo rigore lo tira Roberto Baggio. Sbaglia.

Baggio è uno che sa fare prodezze; è un campione che cerca la perfezione. Ma sbaglia il rigore ai Mondiali.

C’è sempre un errore, un’imperfezione, per tutto, per tutti.

Una frase, una sola frase, imperfetta rende imperfetto un intero lungo romanzo; così una sola nota, imperfetta, in una meravigliosa sinfonia; una sola macchia di colore imperfetta in un affresco da strabilio; una sola imperfezione in un progetto, in una lectio magistralis, in una ricerca, in un saggio, in un calcio di rigore o nel rigore di un ragionamento, oppure nella scena di un film, oppure in un’arringa da manuale, in una voce d’enciclopedia; un aggettivo imperfetto in un elzeviro; una risposta imperfetta nel corso di un esame da lode.

A volte, più che la perfezione complessiva, è quella imperfezione particolare che si ricorda, che forse richiama, affascina, esercita attrazione: è quella macchia di colore, quella parola della frase del romanzo che non risuona come deve risuonare. E’ quel particolare che costituisce la disperazione dell’artista, che si fa ricordo dolceamaro per lo studente che ha risposto perfettamente a tutte le domande ma che in una ha avuto esitazione. Ricorderà quella risposta imperfetta.

Disse Baggio: i rigori li sbagliano soltanto quelli che hanno il coraggio di tirarli.

L’imperfezione è determinata dall’intenzione di non ripetere, di non ripetersi, di non adottare formule acquisite, di non riproporre forme già usate, di non imitare, non trasporre: di andare oltre, di proiettarsi altrove, sfidando la possibilità dell’errore.

Cristoforo Colombo sbagliò i conti della distanza e partì per l’Asia trovando le Americhe.

L’errore, l’imperfezione, pretendono coraggio, dunque. La storia della scienza è una storia di errori, perché è una storia di coraggio, di sfide, di battaglie, di scombinamento di quel che è combinato, di squadernamenti delle certezze, di disarticolazione di codici, di violazione di regole, metodi, processi. Andare oltre. Sfondare le barriere. Tradire i maestri, anche, quando occorre. Rifiutare i dogmi, rinunciare alle dottrine. Rischiare il fallimento o l’accusa di eresia.

La storia delle arti è la storia di una coraggiosa e smaniosa e incessante, quasi sempre delusa ricerca della perfezione.

Una leggenda che tutti conoscono racconta che Michelangelo, osservando il suo Mosè, forse anche turbato dall’imponenza, dal realismo delle forme, abbia lanciato il martello contro la statua, urlando “ perché non parli?”.

Era imperfetto, il Mosè, perché non parlava. Alla sua perfezione mancava quella condizione che hanno soltanto gli esseri più imperfetti che abitano la Terra.

Anche l’esistenza di ciascuno è una storia di imperfezioni, di errori, di coraggio, di sfide, di rinunce, di scombinamenti, di violazioni.

Ma c’è una poesia di Jorge Luis Borges che comincia così: “Se io potessi vivere un’altra volta la mia vita/nella prossima/ cercherei di fare più errori/ non cercherei di essere tanto perfetto”.

Però, probabilmente, queste sono cose che si possono capire soltanto in una certa stagione della vita, quando la ricerca è arrivata a un certo punto e soprattutto quando si fa prepotente la sensazione che oltre quel punto non può andare: che l’affresco perfetto non si può dipingere, che la frase perfetta che combini significante, significato, sangue, ritmo, fiato, nessuno l’ha mai scritta e forse nessuno la scriverà mai, che il rigore perfetto non si potrà battere mai semplicemente perché ci potrà essere non la perfezione ma la fortuna di una parata.

Ma quello che conta più di ogni altra cosa è l’esperienza dell’imperfezione che si fa mentre si cerca di conquistare la perfezione.

Nel prologo all’ autobiografia intitolata Elogio dell’imperfezione, Rita Levi Montalcini scrive che ha sempre tentato di conciliare due aspirazioni che secondo Yeats sono inconciliabili: perfection of the life or of the work. In questo modo, dice, è riuscita a realizzare quella che si può definire imperfection of the life and of the work.

“Il fatto che l’attività svolta in modo così imperfetto sia stata e sia tuttora per me fonte inesauribile di gioia, mi fa ritenere che l’imperfezione nell’eseguire il compito che ci siamo prefissi, o che ci è stato assegnato, sia più consona alla natura umana così imperfetta che non la perfezione”.
È l’ esperienza dell’imperfezione, dunque, che costituisce la motivazione a continuare la ricerca, ad affinare gli strumenti, a consolidare i processi, a non ritenere mai nulla come definitivo, a considerare il ripensamento, la rielaborazione, la riscrittura, il rimaneggiamento, la riorganizzazione, la riformulazione, come elementi essenziali allo sviluppo di una persona, di un gruppo di persone, una comunità, un’organizzazione, un’intrapresa, un’opera.

Allora, forse è soltanto l’imperfezione che stabilisce una relazione fra l’opera – qualsiasi opera- e la vita, che in qualche modo ne elabora una rassomiglianza . E’ quella frase del romanzo che non suona perfettamente, quella macchia di colore che risulta incoerente, quella nota stridente, quella scena che nel film non ci voleva, quella risposta incerta all’esame brillante, quel rigore sbagliato alla finale dei Mondiali, che scaraventa il pensiero in avanti, che esorta un uomo a superarsi.

Il superamento dell’imperfezione non è altro che una sua riduzione, un graduale approssimarsi alla perfezione, che però gradualmente si allontana. Perché, forse, la perfezione non esiste. Forse non esiste nemmeno in natura. Oppure la perfezione esiste soltanto in natura.

Tutto è imperfetto, non c’è tramonto così bello da non poterlo essere di più, o brezza lieve che invita al sonno che non possa favorire un sonno ancora più sereno. Così diceva Fernando Pessoa, e probabilmente anche questa volta, come tante altre volte, aveva ragione.

Allora non resta altro da fare che coltivare, con sapienza, l’imperfezione, in modo da potersi dire – quando si capisce che oltre un certo punto della ricerca non si può andare – che, insomma, si è fatto al meglio che si è saputo, al meglio che si è potuto. Imperfettamente. Ma al meglio. Questo solo ha senso.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 3 settembre 2017]

 

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