di Rosario Coluccia
Il lessico della nostra lingua (come quello di tutte le lingue vive) non è immobile, si arricchisce di continuo in vari modi: 1. Assumendo parole di provenienza straniera, negli ultimi decenni in particolare acquisendo termini di origine inglese. 2. Assumendo parole di origine dialettale che, partendo da una determinata regione o località, diventano di uso comune e generale. 3. Creando nuove parole da forme già esistenti, attraverso meccanismi di prefissazione (aggiungendo un prefisso ad un vocabolo già esistente), suffissazione (aggiungendo un suffisso ad un vocabolo già esistente) e composizione (accostando due parole già esistenti e creando così un nuovo vocabolo).
Facciamo un esempio di suffissazione partendo, per essere chiari, dal latino da cui la nostra lingua trae origine. In latino il suffisso -aster era usato per formare parole che indicavano somiglianza. Somigliare non coincide con essere autentico o originale. Così il suffisso assume una sfumatura negativa o addirittura spregiativa: oleaster ‘olivo selvatico’ (come dire: olivo, sì, ma di non buona qualità), pinaster ‘pino selvatico’ (pino, sì, ma di non buona qualità). Questa valenza continua nelle lingue derivate dal latino. Nell’italiano abbiamo poetastro ‘poeta di second’ordine, di scarso valore’, medicastro ‘medico che non vale nulla, poco preparato’, giovinastro ‘giovane scapestrato, teppista’. Nel contesto dei rapporti di parentela i nomi formati con quel suffisso hanno essi pure una sfumatura negativa: figliastro ‘figlio che uno dei due coniugi ha avuto da un matrimonio precedente, rispetto al nuovo coniuge’; fratellastro ‘persona di sesso maschile che ha in comune con un’altra uno solo dei due genitori’; sorellastra ‘persona di sesso femminile che ha in comune con un’altra uno solo dei due genitori’; in alcuni dialetti dell’Italia centrale abbiamo patrastro ‘patrigno’ e patrastra ‘matrigna’. È proverbiale la frase «fare figli e figliastri» ‘comportarsi in modo non equanime, fare favoritismi’ (cioè trattare alcuni come figli e altri come figliastri).
Il suffisso –astro si applica in maniera estensiva alle basi indicanti colore. In questo caso indica approssimazione, più che negatività. Abbiamo biancastro ‘tendente al bianco’, rossastro ‘di color rosso opaco e spento’, giallastro, bluastro, verdastro, grigiastro e inoltre, riferibile anche a persona, biondastro, brunastro. In altri casi serve a sfumare il significato di un aggettivo, attenuandolo: sordastro ‘lievemente sordo’. Quando è applicato ad animali indica la giovane età: pollastro ‘pollo giovane’. La parola può usarsi in senso figurato, sia al maschile che al femminile: pollastro vale a indicare un ‘uomo ingenuo e sprovveduto, facilmente raggirabile’ (indica scarsa considerazione), pollastra è spesso una ‘ragazza piacente’ (appellativo non elegante, ma non esprime disprezzo).
Come i lettori di Paperino e Topolino (edizione italiana) sanno bene, nelle strisce che raccontano le avventure degli eroi disneyani sono frequentissimi i nomi di parentela caratterizzati da quel suffisso. Qui, Quo e Qua definiscono ziastro Paperino, che a sua volta qualifica allo stesso modo zio Paperone il quale ricambia con il termine nipotastro. Paperino e Gastone vicendevolmente si rivolgono l’appellativo cuginastro. Nonna Papera a volte è nonnastra. Il suffisso è tanto produttivo che si generano termini come riccastro, avarastro (zio Paperone). In questi casi alla originaria componente dispregiativa si è aggiunta (e anzi è diventata prevalente) una funzione scherzosa, che rende queste parole in qualche modo accettabili: vengono usate quasi per gioco, inesistenti o ridottissime le intenzioni offensive. Dall’italiano dei fumetti queste formazioni lessicali si travasano nella rete, riscuotono un certo successo. Addirittura possono essere riferite a sé stessi. Si autodefinisce «ziastro» un personaggio che nel forum Politica, alle 17.44 del 18.07.2016 posta messaggi raffinati come «Governo Abusivo e Giudiciume Scellerato, ci hanno distrutto!!!». È passato oltre un anno, per fortuna nessuno risponde o commenta, a volte anche la rete si comporta saggiamente. Di fronte a certi proclami, il silenzio è la scelta più opportuna.
Torniamo a noi. I fumetti e la rete sono una cosa diversa dall’italiano corrente. La connotazione ludica ed espressiva, frequente in alcuni settori della comunicazione informale, non si trasferisce nella lingua quando il campo dei parenti acquisiti diventa oggetto di atti parlamentari e di disposizioni legislative. L’espressione inglese «stepchild adoption» alla lettera significa ‘adozione del figlio del coniuge / compagno’. Si tratta di un istituto giuridico che consente al figlio di essere adottato dal partner (unito civilmente o sposato) del proprio genitore. È venuta di moda oltre un anno fa, quando il Parlamento ha discusso la legge sulle unioni civili (la cosiddetta proposta di legge Cirinnà). Per evitare il termine figliastro, negativamente connotato, il legislatore fin dall’inizio ha fatto ricorso all’espressione inglese «stepchild adoption». Di conseguenza, è l’espressione rimbalzata nel dibattito parlamentare, nelle trasmissioni televisive, nei giornali.
Della questione si è occupato un gruppo di studio operante all’interno dell’Accademia della Crusca, il gruppo Incipit. Incipit si propone di esaminare e valutare neologismi e forestierismi incipienti, scelti tra quelli impiegati nel campo della vita civile e sociale, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana. La risposta del gruppo della Crusca non potrebbe essere più netta. L’anglismo «stepchild adoption» è improponibile, è di difficile comprensione e di difficile pronunzia; e inoltre stepchild è termine che ha un valore negativo nella lingua inglese, come figliastro nella lingua italiana. Molto meglio ricorrere alla perifrasi «adozione del figlio del partner». E se figlio del partner pare troppo lungo (ma si capisce) Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, nella trasmissione televisiva domenicale «Uno Mattina in famiglia» ha lanciato la proposta di tradurre stepchild coniando un neologismo tutto italiano, un nome rispettoso che valga a indicare il figlio di uno solo dei componenti di una coppia, senza connotazioni negative. A questo obiettivo intende rispondere la coniazione della nuova parola «configlio», per indicare specificamente il figlio che il coniuge o il partner ha avuto da una precedente unione. La parola è modellata in analogia ad altri gradi di parentela come compare, consuocera, consuocero; e magari, ove se ne avvertisse la necessità, come compadre e commadre. E dunque: adozione del configlio. Oltre a eliminare ogni traccia di negatività, la parola configlio indica anche, sul piano formale, la disponibilità di chi la usa ad accogliere tra i propri figli il figlio o la figlia del partner e a considerarlo tale a tutti gli effetti, affettivi oltre che legali. Proporre non vuol dire imporre, naturalmente: i parlanti decideranno se accogliere o meno la proposta, usando o non usando il nuovo vocabolo e la nuova espressione. Ma intanto registriamo che la parola è entrata nella sezione neologismi del Vocabolario Treccani (http://www.treccani.it/vocabolario).
Si allarga il campo delle nostre considerazioni: un corretto uso della lingua è alla base di rapporti caratterizzati da rispetto e, auspicabilmente, da affetto. Ci può aiutare il confronto con le lingue straniere, anche lì spesso il corrispettivo di figliastro ha una valenza negativa. Una simile sfumatura è nell’inglese stepchild, l’abbiamo detto. Ho chiesto a Wolfang Schweickard, lessicografo eminente, che insegna Filologia Romanza a Saarbrücken, se le forme stiefsohn ‘figliastro’ e stieftochter ‘figliastra’ della lingua tedesca sono sentite come spregiative dai parlanti. Ecco la risposta: «stief– ha una leggera sfumatura spregiativa (mi sembra però che negli ultimi tempi diminuisca, visto che rapporti familiari del genere all’epoca delle patchwork families si accettano più facilmente)». Della stessa opinione è Gunnar Tancke, “storico” revisore del Lessico Etimologico Italiano, monumentale vocabolario etimologico della nostra lingua, fondato da Max Pfister e da lui codiretto insieme a Schweickard.
Non stiamo parlando solo di lingua, certi temi hanno implicazioni ideologiche (e pratiche) che riguardano ciascuno di noi e attraversano le forze politiche, come le vicende parlamentari della proposta di legge Cirinnà ampiamente insegnano. Le questioni politiche vanno affrontate con gli strumenti che sono propri della politica. Ma un uso della lingua equilibrato e rispettoso può aiutare. Di questo siamo responsabili tutti noi, nessuno escluso.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 27 agosto 2017]