di Tazio Purzleber
I genitori di Alice erano partiti alla ricerca di Atlantide quando lei aveva tre anni. Doveva essere una breve spedizione esplorativa, un paio di mesi al massimo. E così sarebbe stato se i dati raccolti non avessero convinto il papà di Alice che Atlantide non esisteva e la mamma che invece esisteva. Esisteva, ma in un luogo in cui il papà di Alice non avrebbe mai potuto trovarsi. Alice era troppo piccola per capire e comunque gli zii non le avevano mai raccontato di quella terribile discussione fra i suoi genitori, perché neppure loro ne avevano avuto notizia. Fatto sta che, siccome ogni convinzione per essere attendibile dev’essere provata, la spedizione si divise: chi seguì il papà a cercare le prove della propria convinzione e chi seguì la mamma. Presto si persero le tracce di entrambi.
Anno dopo anno, il loro atteso ritorno era rimandato all’anno dopo. Verosimilmente erano trattenuti chissà dove, forse in luoghi opposti della Terra, contro la loro stessa volontà. Finché – meno di un mese fa – è giunta a Carrollby la meravigliosa notizia: “Stanno per tornare!” – l’hanno portata alcuni marinai di una nave oceanografica. La mamma e il papà di Alice erano finiti in due cavità sottomarine che fortunatamente racchiudevano enormi bolle d’aria. Così hanno potuto respirare per tutto questo tempo. Non sapendo come tornare in superficie erano stati costretti a restare laggiù e si erano messi a esplorare la propria caverna in fondo al mare. Anfratti che sembravano orientarli verso una via d’uscita, cunicoli sempre più stretti, corridoi tra una cavità e l’altra. Una rete di stradine e di grotte che non finiva mai. Nei loro vagabondaggi subacquei, un bel giorno si erano incontrati e, rendendosi conto che respiravano l’aria della stessa bolla e che Atlantide chissà dov’era, se c’era, si erano rappacificati. Per caso, ma Alice non vuol sentirne parlare, la nave oceanografica era riuscita a trovare una di quelle cavità. Un palombaro si era immerso e aveva visto un po’ di cose che in genere non vengono dal mare: due tazze da tè, un set di posate, un cappellino, un ombrello e una camicia sdrucita. Si erano messi a cercare e, cerca cerca, avevano incontrato i due naufraghi, se così si può dire, che si guardavano con affetto tenendosi per mano. Era già in corso il loro recupero mediante un sofisticato cilindro subacqueo. Presto saranno a Carrollby da Alice, a quanto pare con un fratellino.
Così Alice era stata educata da zio Dogson, il quale per prima cosa le aveva insegnato a vedere l’altra faccia di ogni cosa. “In questo, lo zio è un esperto, non per nulla è stato lui a mettere insieme lo specchio che mi piace tanto. Non so come ci sia riuscito. Forse l’ha semplicemente trovato. Ma dove? L’avrà comprato in qualche negozio di immobili e chi gliel’ha venduto chissà se sapeva … Fu un regalo di compleanno per zia Molly. Io non me lo ricordo perché ero troppo piccola. Posso solo immaginare la faccia della zia di fronte a un simile regalo! Oh, caro zio! Non uno specchio per vedere come siamo di fuori, ma per entrarci dentro. È così divertente attraversarlo, anche se, questa è la prova, non ho ancora imparato la velocità giusta. Zia Molly mi ha insegnato a prestare attenzione allo spirito piuttosto che alla lettera, avvertendomi che tutto quel che lo zio dice sarebbe sciocco se preso alla lettera. (Lei vuole tanto bene allo zio.) In questo posto, no. Chiunque parli vuol esser preso alla lettera e quel poco che dice è senza spirito. Per una volta, spero di sbagliarmi. E ieri sera devo aver sbagliato velocità, senza sperarlo. Forse, accanto alla velocità, c’è dell’altro, anche se niente può stare accanto alla velocità. Lo scoprirò, questo è sicuro. Forse non è la velocità che conta, ma come cambia”.
Lo sbaglio c’era stato. Per sbaglio Alice era capitata lì, questo era evidente, com’era evidente che non aveva idea di cosa fosse andato storto. Si era preparata come al solito, aveva preso la rincorsa, aveva attraversato lo specchio e, invece di ritrovarsi dove credeva, era finita nel Paese delle Lettere!
A Letterlandia, il Mondo Liscio che liscio non è fino in fondo.
“Che ci faccio qui? Questo è un posto adatto per le lettere, non per me. Ci sarà pure un sentiero che unisce questo luogo al Paese delle Meraviglie che già conosco perché anche qui le cose non tornano e in un vero Paese non ci sono buchi: contiene tutto quello che obbedisce alle sue leggi – in questo caso, che non torna. Infatti, le lettere dovrebbero star ferme e io muovermi, mentre è il contrario. Ma nessuno dei miei amici ne ha mai parlato e loro hanno sempre una parola per tutto. Strano, allora un sentiero non è detto che ci sia e, se non c’è, in futuro non avrò da lamentarmi di non aver preso il sentiero che non ho preso.”
Un posto adatto per le lettere? Figuriamoci se Alice avesse saputo che quella era una terra che, di lettere, ne lasciava sopravvivere poche. Sì, perché per comporre un testo si sfinivano, invecchiavano alla svelta e si riducevano a una minuta polvere di piombo.
All’invecchiamento precoce si rimediò con la stesura dei fogli, dopo aver ripulito il suolo da innumerevoli sassolini, ammassandoli alle pendici delle montagne. Fu un’impresa immane e richiese molti anni. Un volta conclusa, le lettere scorrevano velocissime sui fogli, che più lisci non si può. Da allora la qualità della vita era migliorata di anno in anno e gli affari prosperavano. Adesso il luogo, cioè il Mondo (liscio), era più adatto di prima, anche se qualche problemino restava.
Infatti, con la stesura dei fogli la varietà di quella terra aspra si era ridotta a zero, o quasi, e poteva ben esser considerata un esempio di piano “ardesiano”, come diceva Alice, anche se il piano non si estendeva all’infinito, perché era circondato da quelle alte montagne che si vedevano in lontananza, con picchi e dirupi, l’uno equidistante dall’altro, come fossero la corona del re. Le montagne non erano un corpo estraneo: erano la culla delle lettere e il loro rifugio. Sulle pendici di ogni singola montagna c’era una grotta e in ciascuna grotta abitava una e una sola famiglia di caratteri.
L’insieme delle montagne formava dunque una circonferenza tutt’intorno alla vasta e piatta pianura, benché vi si potesse scorgere ancora qualche sparsa roccia, sassolino o pietruzza, che emergeva dal piano senza pudore. Non che le lettere se ne fossero dimenticate. Facendo di necessità virtù, quelle specie di pallini erano stati lasciati apposta, come punti di riferimento, perché le lettere non si perdessero. Il punto-cerchio su cui si trovava Alice era, in effetti, più che un pallino: era il sasso più grande di tutti. Indicavano questo sassone come l’Origine ed era un luogo sacro per tutte le famiglie. Gli altri sassi, no.
L’utilità dei sassi residui, lasciati appunto a fini di orientamento, era venuta in mente a chissà chi perché purtroppo molte lettere non erano abbastanza intelligenti e andavano nel foglio sbagliato, o nella riga sbagliata del foglio giusto. Quando questo succedeva, dicevano che era successo un “refuso”. In realtà, questa spiegazione dei sassi residui era fittizia. La ragione per cui erano stati lasciati lì era di natura economica: Letterlandia prosperava grazie alla composizione dei libri e gli ordini da parte degli editori erano così tanti e i tempi di consegna così stretti che non ci si poteva permettere il lusso di rimuovere anche quegli ultimi sassi singolari per stendere altri fogli, o meglio fogliolini, al loro posto. Dopotutto, non erano un ostacolo all’adempimento degli impegni presi. Ci si era accontentati di ridurne la grandezza, s’era proceduto a limare la base delle piccole rocce quel tanto che basta, con un’operazione di finezza chirurgica, che peraltro fu duramente contestata da alcune famiglie. Non c’è che dire: fu un’impresa. Un’impresa che richiese impegno collettivo e tanta, tanta, fatica per le singole lettere chiamate a consumarsi per limare le rocce; un’impresa in cui molte di esse persero la forma e quindi andarono prematuramente in pensione.
Una lettera particolarmente brillante, l’ingegner Riemann, cercò invano di evitarlo proponendo di ricoprire tutti i sassi con dei fogli molto piccoli, molto più piccoli di quelli usati per la pianura, ma questa procedura fu valutata troppo complessa. Non solo richiedeva la lisciatura di ogni sasso, ma richiedeva anche il sollevamento del terreno circostante. Riemann, senza aspettare il permesso di nessuno, aveva già cominciato a sperimentare l’intervento, partendo proprio dal punto-cerchio. Ecco perché Alice aveva trovato quelle piccole facce sul sasso da cui non poteva muoversi. L’esperimento di Riemann si era interrotto per mancanza di fondi: l’ingegnere ci aveva rimesso tutti gli speciali foglietti su carta filigranata che aveva guadagnato con i suoi lavori a stampa.
Alcuni dicevano che i costi eccessivi erano una scusa e che in realtà neanche l’ingegnere sapeva bene come fare, perché i sassi singolari erano di forme troppo diverse l’uno dall’altro e gli interventi chirurgici sui fogli avrebbero dovuto essere diversi caso per caso. Alcuni scettici misero in giro una diceria: “Nessuno potrà mai garantire di essere capace di venirne a capo. Dando credito a chi vi illude offrendovi una garanzia fasulla, l’economia di Letterlandia andrà incontro al fallimento!” E come facevano a essere così sicuri del fallimento? O che il fallimento era probabile? Nessuno lo sa, ma la spuntarono e così la proposta dell’ingegner Riemann fu accantonata.
Fortunatamente, si tratta di sassolini di forma più o meno sferica (per la verità erano quasi-sassi, perché anche loro erano fatti di ardesia), insomma, quelli rimasti erano pallini di dimensioni molto ridotte. L’unico sufficientemente grande da farci star sopra una bambina era proprio quello su cui Alice si trovava: il punto-cerchio. Quindi sia lei che il punto-cerchio non potevano trovarsi che lì.
Tutto intorno, a perdita d’occhio, la pianura offriva una vista rassicurante, quanto noiosa: era interamente ricoperta di fogli, anche se non tutti di forma perfettamente rettangolare.
(continua)