Compassione

di Antonio Prete

… l’affetto dolcissimo della pietà, madre o mantice dell’amore

G. Leopardi, Zibaldone, ottobre 1823

Le “Je” est le miracle du “Tu”

E. Jabès, Le livre du dialogue

La compassione: una passione condivisa. Ma anche un patire in comune, un patire insieme. Una prossimità all’altro, alla sua ferita.

La compassione è tuttavia un sentimento raro. Perché rara è l’esperienza in cui il dolore dell’altro diventa davvero il proprio dolore. La parola compassione spesso copre, come un confortevole velo, un sentire in cui l’attenzione all’altro, alla sua pena, si accompagna a un certo compiacimento del soggetto compassionevole, a una silenziosa conferma della sua bontà d’animo.

Accade che il gesto visibile del soccorso possa ferire il pudore col quale l’altro ha nascosto la propria sofferenza, sottraendola con fatica all’altrui indiscrezione. Accade che la compassione possa invadere il doloroso silenzio di chi ha deciso di portare su di sé, con dignità, e forse fierezza, il fardello della propria pena : essere compassionevoli, è stato detto, in fondo è come disprezzare l’altro, non credere alle sue capacità di reggere l’afflizione senza il lamento. E succede anche che dalla propria quieta soglia si guardi all’affanno dell’altro come si osserva dalla sponda il dibattersi del naufrago nelle onde : il sottile, inconfessato piacere di trovarsi al sicuro può sovrastare e rendere fievole l’ansia per il pericolo in cui si trova l’altro. La compassione, ha ancora scritto qualcuno, è spesso soltanto una pacificazione di sé.

Può persino essere, la compassione, maschera di un orgoglio, esibizione della propria sicurezza, delle sue salde radici.  E’ quel che La Fontaine mette in scena nella favola La Canna e la Quercia, dove le parole ipocritamente compassionevoli del forte albero che invita il cespuglietto di canne a crescere all’ombra del suo potente fogliame per potersi meglio difendere dal vento, ricevono presto una smentita : una tempesta impetuosa e violenta sradica la quercia ma non la canna, che sa invece piegarsi, ondeggiando sotto la bufera.Da qui la storica diffidenza dei filosofi -di quasi tutti i filosofi-  per la compassione.  Esclusa dall’albo delle forti virtù e del forte sentire.  Non sempre catalogata tra le passioni. Osservata piuttosto come un sentimento proprio dei deboli. O risospinta nella terra nebbiosa delle religioni. Rinviata alle indecifrabili increspature di una sensibilità incline alla commozione o, femminilmente, al pianto (c’è sempre qualcuno che associa la lacrima alla donna). Oppure – e qui, bisogna ammettere, non mancano le ragioni – considerata come elusione, non sempre innocente, della domanda di giustizia e di eguaglianza. Come elusione di un compito che dovrebbe essere anzitutto politico : in effetti, la giustizia, non la compassione,  può, o potrebbe, mettere ciascuno  nella condizione di sopportare da se stesso gli oltraggi dell’esistenza. Ma anche questa posizione, che oppone giustizia sociale a compassione, si arresta dinanzi alle ferite che non hanno un’ origine per dir così materiale, che non appartengono all’ordine dei bisogni e dei diritti : il dolore, del resto,  ha un tale ventaglio di forme, visibili e nascoste, che ogni suo regesto appare provvisorio, parzialissimo.

E, infine, la compassione può essere vista come una  perdita del proprio stesso coraggio (o della propria spavalderia?) : “… è una storia la compassione un poco  come la paura : se uno la lascia prender possesso, non è più uomo”, esclama il Nibbio, nei Promessi Sposi, quando, consegnando Lucia all’ innominato, confessa d’aver quasi provato, lungo il trasporto, compassione per la povera ragazza rapita.

La filosofia – quando non ha assunto il sentire della compassione a fondamento stesso di una morale, come è avvenuto con Rousseau e con Schopenhauer – ha mostrato di volta in volta gli aspetti ambigui, autoconsolatori,  dolciastri, della compassione.

Scrittori e artisti hanno invece rappresentato, della compassione, i gradi e le forme del suo manifestarsi, la lingua, i gesti, la tensione conoscitiva. Hanno mostrato la grande scena in cui la compassione prende forma : la comunità dei viventi, la finitudine che unisce nello stesso cerchio tutti i viventi, uomini e animali. Con la singolarità dei loro corpi, e desideri, e ferite.

La rappresentazione letteraria, artistica e teatrale della compassione è l’ininterrotto racconto di una presenza, quella dell’altro, del suo volto, delle sue insondabili profondità. Una presenza che  corrobora la stessa identità di colui che è soggetto dello sguardo. E smuove un sentire, che dal soggetto torna verso il sentire dell’altro. Diventa, infine, riconoscimento del legame che trascorre tra tutti gli esseri. Nell’orizzonte di questa comune appartenenza il dolore dell’altro non chiama l’indifferenza ma la prossimità.

Questo libro vuole mostrare, come per allineati tableaux di un’immaginaria esposizione, alcune figure di una storia della compassione, così come la scrittura e l’arte ce le hanno consegnate. Ho detto storia, ma è davvero un azzardo che si possa fare  storia dei sentimenti, o storia delle passioni. Perché sentimenti e passioni hanno tante modulazioni e vibrazioni quanti sono gli individui viventi. E così è della loro rappresentazione, variegatissima. Ci si può soltanto affacciare sulla lingua del sentire, sulla lingua del patire, sui segni del loro apparire, sulle stazioni e le forme del loro svolgimento. Questo sguardo, e questo ascolto, possono a loro volta diventare racconto. Un racconto tessuto con le parole e i pensieri dei classici. Con le immagini che provengono dal mito, dalle sue interpretazioni, dall’antica tragedia greca,  dalle narrazioni moderne, dalla terra della poesia e dell’arte. Perché in questi linguaggi l’altro – che abbia un volto familiare o ignoto – è fonte di costante interrogazione. È  il respiro del corpo, con la sua irripetibilità, a farsi lingua, figura, ritmo. La scrittura e l’arte ci restituiscono, della compassione – come del resto di ogni altro sentimento – insorgenze e vibrazioni, segnali e compimenti, sospensioni e deviazioni, eccessi e attenuazioni.

Se la compassione muove anzitutto dal riconoscimento dell’altro in quanto corpo e linguaggio, pensiero e desiderio, c’è un tempo in cui questo riconoscimento s’incrina o scompare. E’ il tempo tragico. La guerra è il nero trionfo di questo tempo tragico. E con la guerra, con l’oblio della compassione, l’esercizio sistematico della spietatezza. La tecnica, che ha affinato i modi della distruzione, si mette a servizio  di questa morte della pietà. La disumanizzazione – e la violenza sulla natura e sulla stessa storia costruita dall’uomo – coincide con l’astrazione dalla singolarità vivente e senziente di ogni individuo, umano o animale. In questa astrazione la presenza dell’individuo – volto, nome, corpo, pensieri, sentimenti – è svuotata di senso, di palpito, di esistenza stessa. Narrazione e poesia hanno tuttavia mostrato come, nel cuore del tragico, e contro il furore dell’annientamento, si possa levare, proprio a partire dallo sguardo sul dolore altrui, il tu di una ritrovata fraternità. La compassione è lo spazio in cui, dal fumo della distruzione, si leva e disegna il profilo di questo tu.

Nel cammino  sui sentieri della compassione, delle sue forme e  del suo oblio, c’è l’ animale. Con il suo incantamento, con  la sua pena.  La figura animale denuncia, con i silenzi, con l’innocenza e la purezza che gli appartengono,  l’immensa rimozione compiuta dall’uomo nei confronti della sua presenza, e del suo dolore. Un’alterità, il vivente animale, inquietante per l’uomo, e ritenuta superflua. Un’estraneità da addomesticare forzosamente,  o confinare, o recingere, o ridurre a schiavitù, o sopprimere. Eppure, in questa storia di incontrastata civile signoria stabilita dall’uomo, lo sguardo animale, la sua dispiegata relazione con quel che è oltre la ferita  della storia, otre il sapere della morte, ha messo in moto un sentire, che possiamo chiamare creaturale, e ha piegato l’indifferenza verso la comprensione del fragile, dell’esposto, dell’indifeso. Sfrangiando la tela della distrazione. O della concentrazione sulla propria specie.

E c’è, infine, una rappresentazione per dir così verticale della compassione : quella che mitografie religiose, credenze, dottrine di sapienza e di devozione hanno concepito e diffuso lungo il tempo e in culture tra loro diverse. Rifrazioni terrestri di una misericordia, o pietà, divina. Proiezioni di una condizione umana che conosce il limite, la finitudine, e leva lo sguardo verso  l’orizzonte, oltre la linea del visibile. Dall’epos greco ai grandi libri della sapienza indiana, dalle affabulatorie trasmissioni, presso ogni cultura, di una saggezza antica alle narrazioni del Vecchio e Nuovo Testamento, la compassione ha avuto le sue figurazioni sceniche, i suoi apologhi, i suoi exempla, facendosi anche principio etico e nodo essenziale della relazione con l’altro.

E, quanto alla tradizione cristiana, la rappresentazione della compassione, dalla liturgia e dalla drammaturgia popolare è passata nelle figurazioni artistiche definite come Pietà. Dove il dolore della Madre per il corpo del Figlio privo di vita si fa figura di ogni terrestre dolore.  Qui  l’arte congiunge, con esiti di grande fascinazione, devozione e immagine. Accogliendo la sofferenza nella forma, la ferita nella raffigurazione, nel suo ritmo, nella sua bellezza.  Il compianto è colore, linea, materia. Sguardo che racconta,  in tutte le tremanti modulazioni, il sentire della compassione.

[Premessa a Compassione, Bollati Boringhieri, Torino 2013]

Questa voce è stata pubblicata in Letteratura e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *