Come amministriamo la nostra casa

di Gianluca Virgilio

Pare che ogni innocente bambino italiano nasca con un pesante fardello sulle spalle, un debito pubblico – lasciamo stare l’eventuale debito personale dei suoi genitori – di circa trenta mila euro. Penso che il suo pianto dirotto, appena vista la luce, dipenda proprio da questo. La madre, cullandolo, cerca di rassicurarlo e di fargli capire che ha tutta la vita davanti a sé per ripagare quel debito. Ma non c’è niente da fare, il piccolo piange perché non sa farsene una ragione.

Come mai i nostri bambini nascono così indebitati? E a chi dovranno restituire i circa trenta mila euro?

Il debito pubblico deriva dal fatto che con ogni evidenza lo Stato, cioè l’insieme di tutti i cittadini, è vissuto per molti anni al di sopra delle sue possibilità, contraendo debiti che non ha saputo saldare e che anzi col tempo sono aumentati a dismisura, nella misura in cui, appunto, sono stati lasciati in eredità anche ai nostri neonati.

Ora, un’eredità come quella che ti lascia lo Stato non è una vera eredità, perché, se così fosse, da grande ciascuno potrebbe rinunciarci; e questo in realtà potrebbe accadere solo abbandonando il proprio paese; ma, per chi resta l’eredità del debito pubblico ha tutte le sembianze di un triste destino a cui ciascuno di noi è sottomesso: i debiti si pagano, mese per mese, anno per anno, sotto forma di tasse, per un periodo che non avrà mai fine. Possiamo dunque esser certi che i nostri figli e i figli dei nostri figli, per omnia saecula saeculorum, saranno gravati dal debito pubblico e pagheranno come noi, forse più di noi.

I debiti si pagano, sì, ma a chi si pagano? Ovvero chi ha fatto e continua a fare credito agli indebitati? Se si potesse analizzare al microscopio la figura del creditore, si scoprirebbe che in essa si cela una grande varietà di soggetti, dal micro risparmiatore che ha investito diecimila euro in titoli di Stato, ai fondi di investimento internazionali, passando per i grandi investitori, speculatori, banche, nababbi e sultani compresi. Naturalmente sono i grandi investitori che orientano il mercato, condizionando le scelte del micro creditore. Il finanzcapitalismo di cui scrive Luciano Gallino ha il potere di stabilire dove e quando è giunto il momento di chiudere il rubinetto del prestito, esigendo la restituzione del debito. In Europa sta succedendo proprio questo: i debitori insolventi sono troppi e i creditori sono entrati in allarme. Riduzione drastica del credito, dunque, almeno fino a quando una buona parte dei debiti non sarà saldata o almeno finché non sarà scongiurata l’insolvenza dei debitori. Si badi che il creditore non si augura di vedersi saldati tutti i debiti e di uscire di scena in quanto creditore, perché egli ci guadagna a prestar denaro. Ma egli vuol essere certo di riavere il suo quando lo desideri. Quando è incerto su questa eventualità, ecco che strepita per farsi ridare quanto ha prestato, e minaccia e impreca, e senza dubbio chiude i cordoni della borsa.

Il creditore spera sempre che gli affari del debitore vadano bene e che mai dichiari bancarotta divenendo insolvente, perché in tal caso egli perderebbe il suo. L’insolvenza del debitore è il peggior incubo del creditore, perché l’insolvenza significa che il denaro prestato sparisce, si dissolve come credito e come debito, lasciando povero non solo l’insolvente ma anche il creditore. L’insolvenza produce la morte di una porzione di società – la nostra società è difatti fondata sul rapporto tra debitori e creditori -. Ma se questo avviene, e sta sempre più spesso avvenendo, come se ne esce?  Con la ripresa economica, dicono alcuni. In realtà, il fenomeno descritto è il risultato della crisi economica, da cui finora non si vede la fine. Da quando la globalizzazione ha avuto la meglio e il neoliberismo si è imposto come pensiero e pratica dominanti, la deregolamentazione dei mercati la fa da padrone. Il mantra è questo: i mercati si regolano da soli, il che significa che gli operatori economici mondiali non devono essere sottoposti a regole.

La ricchezza del mondo è una grande torta, di cui un tempo noi europei mangiavamo una fetta anche troppo grande. La globalizzazione ci ha ridato la nostra giusta misura di appendice del continente asiatico e di mercato secondario del mondo. Gli Stati Uniti, La Russia, la Cina, l’India, il Brasile, ecc. ci fanno capire bene quali siano le nostre giuste dimensioni. La nemesi storica sembra abbattersi su di noi, che per secoli abbiamo sfruttato molte di quelle regioni. Ma la ricchezza del mondo non è nelle mani delle nazioni, bensì dell’un per cento transnazionale dei detentori del capitale che decide dove e quando investire. Per quale motivo il ricco  dovrebbe investire in Europa dove la manodopera costa molto di più che in Cina o in Brasile? Le scelte del detentore del capitale sono sempre dettate dall’interesse. Il capitalista non è una crocerossina. Va dove c’è del guadagno sicuro, non dove ci sono pene da lenire. La desertificazione di numerosi distretti industriali è il risultato di queste scelte. Il capitalista può decidere di andarsene in Cina, ma può decidere anche di cinesizzare il distretto industriale di Prato, pur di non pagare stipendi dignitosi agli ultimi superstiti della classe operaia italiana. Se non fosse stata portata in Europa questa manodopera a bassissimo costo – cinesi, africani, mediorientali, ecc. -, gli ultimi investitori se ne sarebbero già andati da un pezzo verso terre ancora vergini da saccheggiare e poi abbandonare.

Quest’analisi ci riconduce allora a considerare la vera natura del capitalismo, ovvero il dominio dell’uomo sull’uomo, lo sfruttamento dei molti da parte dei pochi. Ma questa è una storia vecchia quanto il cucco, si dirà. Ed è vero. La globalizzazione non ha cambiato nulla, ha solo dato mano libera al detentore del capitale, sciogliendolo dai vincoli dello stato-nazione.

Pertanto la civiltà europea oggi si trova davanti a un bivio: accettare la cinesizzazione del vecchio continente oppure dar luogo ad una vera e propria rivoluzione antropologica.

La sempre maggiore precarizzazione del lavoro, l’abbassamento delle retribuzioni, il cappio al collo del debito pubblico, il graduale ridursi del welfare, sono tutti segnali eloquenti della lenta cinesizzazione della società europea.

D’altro canto, la rivoluzione antropologica rimane una bella e lontana utopia. Il cambiamento del paradigma economico, pur perseguito da gruppi minoritari, rimane marginale. Come passare dalla logica dell’utile di pochi alla logica che salvaguarda il benessere di tutti, su questo bisognerebbe riflettere.

[2014]

[in Così stanno le cose, Edit Santoro, Galatina 2014, pp. 56-60]

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