È necessario un codice etico nella gestione della cosa pubblica

di Ferdinando Boero

Su alcuni giornali è comparsa una notizia che riguarda il comune di Sanremo, a seguito delle inchieste su chi timbrava il cartellino e poi si dileguava. Due dipendenti sono stati sospesi perché, a seguito di quelle indagini, si è scoperta la loro affiliazione alla massoneria. Il Comune di Sanremo, per arginare i conflitti di interesse, ha chiesto ai propri dipendenti “di dichiarare la propria adesione o appartenenza ad associazioni ed organizzazioni, a prescindere dal loro carattere riservato o meno, i cui ambiti di interesse possano interferire con lo svolgimento dell’attività dell’ufficio”. Tacere la propria appartenenza a tali organizzazioni, e la massoneria è una di queste, è compatibile con il lavoro presso il Comune, ma deve essere dichiarato. Sarebbe logico che tale norma valesse in qualunque attività pubblica in cui si prendono importanti decisioni. Penso ai giudici. O ai commissari che espletano concorsi, o agiscono in commissioni che concedono appalti.

Se un giudicato e un giudicante appartengono alla stessa organizzazione, il conflitto di interesse è dietro l’angolo.

Non sono cacce alle streghe. Il nostro paese è stato governato per decenni da appartenenti alla loggia P2, e alcuni sono stati condannati per aver corrotto giudici, o per collusioni con le organizzazioni criminali che, oramai, si sono infiltrate in associazioni storiche dal passato irreprensibile. I codici etici sono implacabili contro conflitti di interessi di tipo familiare, ma ignorano quelli di natura associativa. 

Le cronache politico-giudiziarie ci hanno abituati a comportamenti di pubblici amministratori volti a favorire chi, per esempio, ha comprato terreni agricoli per i quali miracolosamente cambia la destinazione d’uso, oppure chi ha contratto debiti con le banche e poi non li ha onorati, senza per questo essere perseguito. Il debito pubblico continua ad aumentare e l’inefficienza impera. Dove finiscono tutti questi soldi? Tutti i rapporti della Corte dei Conti parlano di corruzione dilagante. Chi dovrebbe far funzionare la cosa pubblica, la saccheggia.

Non so se il Comune di Lecce ha un codice etico che prevede regole simili a quelle del Comune di Sanremo, certo sarebbe bene che le avesse, se non le ha.

I comitati di affari che lucrano sugli appalti pubblici, magari per costruire le solite cattedrali nel deserto che costano centinaia di milioni di euro e restano poi inutilizzate, spesso si fondano su personaggi associati a organizzazioni “riservate”. La nostra Costituzione vieta le società segrete e quindi i criteri di trasparenza dovrebbero imporre che sia resa palese l’appartenenza ad associazioni in cui viene praticato il mutuo soccorso tra gli appartenenti che, a volte, si chiamano persino fratelli. Niente di male ad essere fratelli, ma le fratellanze (di sangue o di giuramento)  devono essere palesi e, ovviamente, devono essere gestite in modo che due fratelli non possano interagire nella gestione della cosa pubblica. Come avviene per mogli e mariti.

Se il Comune di Sanremo ha deciso di introdurre questa clausola, forse un motivo c’è stato, forse anche più di uno. Il Comune di Lecce è davvero immune a queste pratiche?

E tutto il resto della gestione della cosa pubblica?

La corruzione si basa sulla riservatezza e sulle reti di protezione tra elementi collusi tra loro, elementi che “si aiutano”, favorendosi reciprocamente nelle carriere, nelle assegnazioni di appalti, nelle decisioni strategiche.

Chi non appartiene al giro giusto deve andarsene. Il bello è che tutti lo sanno, ma nessuno fa niente. Forse perché chi dovrebbe fare appartiene al giro che dovrebbe essere stroncato.

Tutto questo sarebbe pretestuoso allarmismo se la cosa pubblica funzionasse perfettamente. Se le posizioni di rilievo fossero occupate da persone competenti e capaci, che riescono a far funzionare al meglio la macchina pubblica. Sappiamo che le cose non funzionano. Sarebbe un bel segnale se il codice etico di Sanremo fosse introdotto anche nelle nostre amministrazioni, e se si svolgessero indagini per verificare se le dichiarazioni dei dipendenti sono veritiere o sono mendaci.

Ripeto: non per criminalizzare organizzazioni dalla lunga storia, ma per evitare che la solidarietà tra sodali prevalga sulla imparzialità dei giudizi. Non si mina la famiglia se si impedisce che i coniugi interagiscano nella gestione della cosa pubblica. La trasparenza è la madre dell’efficienza e della giustizia. La segretezza è la madre degli affari sporchi.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 17 agosto 2017]

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