di Rosario Coluccia
Siamo immersi nel mondo digitale: cellulare, computer e rete sono fondamentali nella vita di tutti noi. Le giovani generazioni sembrano ignorare che non è sempre stato così, che si tratta di condizioni recenti della nostra società. Qualche volta a lezione spiego che ancora agli inizi degli anni novanta del secolo scorso i telefonini erano pochissimi, di dimensioni ingombranti, funzionavano con difficoltà e riuscivano a malapena a mandare qualche messaggio e qualche breve telefonata. I miei studenti sgranano gli occhi, come di fronte a una rivelazione inattesa. Ancora più sorpresi i miei studenti sembrano quando ricordo che fino a qualche anno fa facebook e gli altri social praticamente non esistevano. Intendiamoci. Non nego l’importanza dei nuovi media, rifletto sull’esistente e sui cambiamenti intervenuti in poco tempo. Che non sono negativi in sé, il tempo non va fermato. Ricordo l’ammirato stupore che provai visitando un’università rumena agli inizi degli anni novanta: nelle biblioteche dei dipartimenti gli studenti facevano la coda per poter usare i pochissimi computer da poco attivati. Erano pazienti, usavano il computer per mezzora, senza fiatare cedevano il posto a quelli che aspettavano. Capii. Cadute le barriere dell’isolamento che avevano separato quei popoli dal resto del mondo, i più dinamici cercavano di aprirsi a nuovi contatti resi possibili dalle mutate condizioni politiche e di liberarsi dalla dolorosa condizione di distacco che li aveva oppressi per decenni. I loro coetanei occidentali non avvertivano la stessa pressione, potevano permettersi di agire più lentamente, per questo non riscontravo la stessa situazione nelle nostre biblioteche. Da noi l’urgenza era meno forte.
Proviamo a riflettere sul peso che le nuove tecnologie hanno sulla lingua e sul nostro agire quotidiano. Spesso mi sento rivolgere alcune domande: le nuove forme di scrittura informatica stanno cambiando l’italiano? Dobbiamo accettarle o rifiutarle? Le lingue sono sistemi complessi, i fenomeni della scrittura con il computer o con il cellulare vanno esaminati secondo principi che sono loro propri, non vuol dire che possano generalizzarsi e diventare norma stabile di ogni tipo di scrittura, automaticamente. Alcune considerazioni sono necessarie.
Con i nuovi media la scrittura è tornata, in modo quasi inaspettato, al centro della comunicazione di massa. Ancora non molti anni fa alcuni pronosticavano che la società occidentale e moderna stava per diventare tutta orale, dominata da radio e, ancor più, da televisione e telefono. Drasticamente, immaginavano che avremmo ridotto a poche occasioni il ricorso alla scrittura. Quelle previsioni si sono rivelate del tutto errate. Basta osservare quello che succede in qualsiasi luogo pubblico, in treno o in bus, perfino nelle riunioni tra amici. Più d’uno guarda compulsivamente il cellulare, manda sms, usa la posta elettronica, conversa in chat, pigia con le dita di entrambe le mani a velocità estrema; quando non scrive, scorre sequenze lunghissime di messaggi già letti o di foto che ha già visto molte volte. Gli altri, quelli che sono accanto a lui nella vita reale, sono ignorati, ogni contatto effettivo è assente.
L’attuale diffusione della scrittura non è paragonabile alla situazione che si verificò secoli addietro, al momento dell’invenzione della stampa. La stampa rese possibile la conservazione e la diffusione del sapere in forme capillari e moltiplicate che la copiatura manoscritta delle opere, fino a quel momento praticata, ovviamente non permetteva. Oggi le nuove tecnologie affiancano alla scrittura digitale altre funzioni che si allineano, sovrappongono e contaminano reciprocamente, in contemporaneità. È possibile spedire e-mail, navigare in Internet, ascoltare musica e guardare la televisione sul display di un cellulare, che racchiude in sé funzioni diverse e continuamente in aumento. Non abbiamo più bisogno di calendario, orologio, sveglia, diario, registratore, fotocamera, archivio, navigatore, ecc. È tutto in un unico oggetto.
La comunicazione scritta attraverso il cellulare ha regole precise. Colpisce l’attenzione di alcuni lettori (che mi scrivono lettere un po’ allarmate) il ricorso continuo alle abbreviazioni: «tvb» ‘ti voglio bene’, «d6» ‘dove sei?’, «6la+» ‘sei la migliore’, «Xh» ‘per ora’, «8bre» ‘ottobre’, «9mbre» ‘novembre’. Messaggi di estensione ridottissima vengono spesso accompagnati (o addirittura sostituiti) da espressioni non verbali, le faccine utilizzate per dar vita a sentimenti, sensazioni, situazioni svariatissime, ormai facenti parte stabilmente parte dell’arsenale di mezzi espressivi a disposizione degli utenti dei media telematici. Ce ne sono tantissime e continuano a moltiplicarsi. Accanto a faccine, in italiano esistono parole concorrenti, provenienti da altre lingue: emoticon dall’inglese, composto di emot(ion) ‘emozione’ e icon ‘icona’; smiley e smile dall’inglese, da smile ‘sorriso’; emoji dal giapponese, composto di e ‘immagine’ e moji ‘lettera, carattere’. Un’enorme serie di simboli raffigura ogni genere di oggetto (treni, aerei, matite e buste da lettera, faccine, cuoricini e animaletti, a rappresentare concetti, relazioni ed emozioni); non più solo faccine con varie espressioni, ma immagini di tutti i generi.
Nulla di male nelle faccine e nelle abbreviazioni, vivacizzano e insaporiscono la comunicazione digitale. L’Oxford Dictionary ha incoronato come parola dell’anno 2015 la «faccina con lacrime di gioia» («criyng tears of joy»), usata nell’universo digitale con il significato di ‘ridere fino alle lacrime’. Per la prima volta un’immagine molto diffusa in rete viene considerata capace di riflettere al meglio l’umore e le preoccupazioni dell’anno, battendo parole reali come «refugee» ‘rifugiato’ o «Brexit». Neanche le abbreviazioni ci debbono far disperare, non si tratta di un fenomeno inedito. Tirone, segretario di Cicerone, aveva inventato un sistema per scrivere in modo abbreviato. I manoscritti che conservano i testi antichi della nostra lingua e le stampe rinascimentali fanno largo uso di segni abbreviativi: la cosa non disturba, i filologi di ieri e di oggi li sanno decifrare. L’obiettivo di guadagnare tempo e spazio e il desiderio di economizzare sul costo delle pergamene (e della carta) spiega tutto ciò. L’ossessione della velocità e la costrizione entro limiti precisi di spazio (pensate agli sms o a twitter), forse anche il desiderio di celarsi un po’ ad occhi indesiderati e di farsi capire solo da chi può capire, giustificano le abbreviazioni dei nostri tempi.
Tutto bene? No. Faccine e abbreviazioni funzionano nella comunicazione digitale ma non vanno trasferite ad altri tipi di scrittura. In un tema o in una relazione (e neanche in un biglietto appena appena formale, indirizzato a persona con cui non siamo in confidenza) non si può scrivere «Xkè», usando l’onnipresente «X» in luogo di «per» e l’altrettanto diffuso «k» in luogo di «ch»; e bisogna mettere l’accento giusto: «perché» con l’accento acuto, non grave. Ma soprattutto. Bisogna imparare a esprimere sentimenti o sensazioni, a descrivere fatti ricorrendo alle parole della nostra lingua, variandole e adattandole alle circostanze, senza rifugiarsi nelle troppo facili e non originali faccine, che non comportano nessuno sforzo di creatività.
I ragazzi (e anche molti adulti), bravissimi a esprimersi con sms e twitter, mostrano difficoltà evidenti quando si cimentano con testi che richiedono un uso più maturo delle capacità linguistiche. «Non trovo le parole», è la giustificazione ricorrente. Si tratta di una questione importante, l’abitudine a un linguaggio striminzito e affidato alle immagini ha riflessi sulle funzioni cognitive, impedisce l’elaborazione di un pensiero articolato, efficacemente espresso in forma scritta. Abituati ad accorciare e a strozzare parole ed espressioni i ragazzi d’oggi stanno perdendo la facoltà di elaborare espressioni compiute e quindi di scrivere testi impegnativi.
L’uso delle nuove tecnologie non può essere un alibi per scrivere in maniera insoddisfacente. Un conto è la comunicazione digitale, altre forme di comunicazione necessitano di un più elevato livello di formalizzazione e di capacità espressiva. Nella scrittura, come in altri casi, la forma è sostanza. Per raggiungere buoni risultati, per scrivere bene, occorre tempo. La forsennata velocità introdotta dalle nuove tecnologie va a scapito della qualità. Per esprimersi bene ci vuol cura e per la cura ci vuol tempo. Milan Kundera, un romanziere che mi piace molto, ha intitolato un suo libro La lentezza. Né la limitazione dello spazio disponibile può essere un alibi, non si può rinunziare a forme articolate di espressione del pensiero. Vale per tutti.
Neanche il Pontefice si sottrae a twitter, lo dico con rispetto. Se le mie parole fossero ascoltate, inviterei i politici (praticamente tutti, quasi nessuno sfugge) a non affidare a twitter l’espressione del loro pensiero. I concetti, se sono importanti, meritano più di 140 caratteri.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 6 agosto 2017]