Come programmare un futuro robotizzato

di Ferdinando Boero

Imperversa la polemica sui robot. Sono il progresso, o sono causa di disoccupazione? Possiamo fermare l’evoluzione tecnologica? Vecchie diatribe, iniziate nel 1779 da Ned Ludd, un operaio tessile, che distrusse il telaio al quale lavorava: rubava lavoro agli operai, quel telaio, e andava distrutto. I robot di oggi non sono altro che l’evoluzione di quelle macchine, con qualche differenza, però. Charlie Chaplin, in Tempi Moderni, ci mostrò l’alienazione dell’industria meccanizzata in cui l’uomo diventa un ausiliario della macchina e deve sottostare ai suoi ritmi, fino ad essere preso dall’ingranaggio. A quei tempi le macchine avevano ancora bisogno di noi. Ma con l’avanzare della tecnologia si sta arrivando a macchine che possono fare a meno di noi, sostituendoci completamente. Il fatto che ad esse, ogni tanto, si diano sembianze umane convoglia ancor meglio il messaggio: ci sostituiscono completamente.

I robot sono nati per svolgere lavori ripetitivi e alienanti. Il robot che ha rivoluzionato la vita casalinga è presente in tutte le abitazioni: si chiama lavatrice. Il lavaggio di lenzuola e indumenti era un’incombenza tipicamente femminile e richiedeva moltissime energie e tempo. Ricordo, negli anni 50, quando entrò a casa nostra la prima lavatrice. La marca era BTH. In quell’epoca, a Genova, c’erano i truogoli, e ricordo come un sogno mia nonna che, con un mastello in equilibrio sulla testa, andava a lavare i panni, mentre mia madre era finalmente liberata da quell’incombenza. Poi arrivarono i frullatori, le lucidatrici, gli aspirapolvere, fino al robot che cucina al posto tuo. Che dire del telecomando del televisore? Un miracolo! Prima bisognava che qualcuno si alzasse per cambiare canale, mentre col telecomando si può restare comodamente sdraiati sul divano.

I robot liberano l’uomo dal lavoro. Rimane più tempo da dedicare a cose piacevoli, a coltivare il proprio intelletto, a curare le relazioni personali. Con un piccolo dettaglio: se ci liberiamo dal lavoro, dove prendiamo i soldi per comprare quello che le macchine producono oramai al posto nostro?

La produzione dei robot domestici ha dato moltissimo lavoro a chi li costruiva. Lo stesso vale per le automobili, robot che hanno sostituito i cavalli. Ma se i robot sono costruiti da altri robot, il lavoro rimane per chi li progetta e per chi li vende, ma non possiamo pensare che tutta la popolazione si metta a progettare e a vendere robot. Il mercato si satura presto. Il problema fu risolto con l’obsolescenza programmata: le macchine sono progettate per rompersi dopo un certo periodo, e non conviene ripararle: meglio comprarne una nuova!

Come se non bastassero i robot, in questi ultimi decenni è intervenuta anche la globalizzazione e, incredibile ma vero, la schiavitù. Se il lavoro costa e non può essere eseguito da macchine, la produzione si esporta in paesi dove i lavoratori sono pagati pochissimo, dove non ci sono leggi che li proteggono, dove gli standard di sicurezza per le persone e per l’ambiente sono bassissimi. Nessuna grana legale per gli imprenditori, e tanta grana nelle loro tasche. La Puglia ha subìto in modo esemplare questa “evoluzione” produttiva: le aziende familiari o quasi che lavoravano per le grandi firme della moda hanno perso le ordinazioni: ci sono paesi in cui il lavoro costa molto meno e le produzioni si sono spostate lì: sono le “leggi del mercato”. In Puglia, ancora, abbiamo recentemente visto l’impiego di schiavi in agricoltura. Gli immigrati che tanto ci preoccupano rappresentano i robot umani che fanno il lavoro dei campi che nessuno vuole più fare, certamente non con i compensi che i nuovi schiavi sono costretti ad accettare.

Questi scenari hanno conseguenze economiche evidenti: aumenta la differenza tra chi ha accesso a ingentissime risorse (i pochi individui ricchissimi) e chi ha problemi a mantenere un tenore di vita che, fino a qualche decennio fa, ci pareva “normale”. I miracoli economici legati all’industrializzazione sono stati un ascensore sociale che ha migliorato enormemente il nostro tenore di vita. La robotizzazione estrema, la delocalizzazione delle produzioni e il ricorso alla schiavitù stanno ricacciando indietro quella che un tempo era la classe media, il prodotto dell’evoluzione economica del proletariato di un tempo. Donald Trump ha vinto le elezioni con i voti degli operai che hanno perso il lavoro, minacciando tasse esorbitanti a chi produce all’estero e vuole poi vendere in USA. Pare che la minaccia stia funzionando e alcune produzioni stanno tornando in patria. Questo, però, determinerà disoccupazione nei paesi emergenti, i cui lavoratori sottopagati secondo i nostri standard stanno comunque aumentando il proprio tenore di vita. Rimasti senza lavoro, entreranno nelle file dei profughi economici.

Trovare un equilibrio tra queste tendenze non è facile. I problemi sono interconnessi e non possono essere affrontati uno alla volta, perché le soluzioni di singoli problemi possono generare problemi ancora maggiori in altri campi che non si erano considerati.

Tutto questo rientra nel tema della sostenibilità, a sua volta divisa in tre pilastri: ambientale, economico, sociale.

Un tempo i poveri erano rassegnati e trovavano quasi giusto il proprio stato. Ogni tanto, quando le condizioni diventavano davvero insopportabili e l’arroganza dei ricchi superava i limiti, le carte venivano rimescolate con qualche bella rivoluzione, con annessi tagli di teste coronate.

Oggi le cose sono molto più complesse e il mondo è diventato una giungla, un Far West senza legge, visto che le azioni si spostano dove le leggi non valgono (vedi le delocalizzazioni). Non ci sono autorità a cui appellarsi e la tentazione di chiudere i confini e barricarsi in casa è grande. Vedi la Brexit, e Trump, e i vari Le Pen e Salvini. Ma il mondo è troppo interconnesso oramai per poter pensare di fare a meno degli altri.

Dovremo trovare nuove soluzioni e sarebbe meglio che non derivassero da sconvolgimenti sociali basati sulla rabbia dei nuovi poveri. Di solito questi eventi comportano enormi spargimenti di sangue e portano all’insorgenza di nuovi tipi di sfruttatori, tipo gli oligarchi in Russia. L’Europa è stata il centro culturale e sociale da cui tutto questo è partito e probabilmente ha le risorse intellettuali per elaborare soluzioni.

Per il momento, però, pare che ai decisori interessi solo programmare un futuro robotizzato e sono in molti a vedere l’Europa come un nemico.

La mia opinione è stata chiesta in occasione di due G7, quello di Berlino e quello di Tokyo. Ovviamente riguardava i problemi relativi agli oceani. Ho visto i risultati di quei vertici e sono tutti frammentati, i problemi sono affrontati uno alla volta, senza tener conto delle connessioni che li rendono interdipendenti. Ho provato a dirlo, e più dei G7 non so chi immaginare. Risultato: si continua ad affrontare i problemi uno alla volta. Tante tattiche e nessuna strategia.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 8 agosto 2017]

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