di Paolo Maria Mariano
Einstein, Heisemberg, Pauli, Dirac, Chandrasekhar, Nambu, per citare alcuni premi Nobel, e la lista non è esaustiva, hanno più volte sottolineato come le scelte che si adottano nel costruire modelli matematici di fenomeni fisici siano spesso indirizzate da un senso estetico, che diventa primario quando non sono presenti dati empirici determinanti (il caso della teoria delle stringhe è quello più evidente). Anzi, per Dirac, come ricorda Nambu, il criterio estetico è proprio l’indirizzo metodologico primo dell’indagine fisica. La domanda che si emerge è quindi la seguente: sono le affermazioni dei vari protagonisti un modo per enfatizzare il proprio lavoro e nobilitarlo agli occhi dei non addetti ai lavori, o la questione ha natura fondamentale? E se sì, cosa significa, in questo ambito, il criterio estetico?
Ho già sostenuto in altro luogo che nell’estendere il proprio dominio, la matematica può essere ambito di esperienza estetica. Lo è perché è linguaggio, allo stesso tempo qualitativo e quantitativo, strumento in grado di esprimere narrazioni. La natura di queste ultime può essere sia interna – la formulazione e lo sviluppo di nuove strutture – sia esterna, espressa all’ispirazione che il matematico trae dall’osservazione del mondo e collegata alla descrizione dello stesso universo empirico. Nella rappresentazione di ciò che osserviamo e nel trarre da essa occasione di sviluppo oltreché origine prima, la matematica trasferisce l’ambito fenomenico nell’ideale e nel simbolico e da esso ricade sul reale nella costruzione di modelli matematici di fenomeni empirici. E non si tratta solo di contare e di misurare quanto è d’intorno ma semmai e soprattutto d’individuare le strutture che ci paiono essere essenziali nei fenomeni e i loro reciproci rapporti, quanto di volta in volta ci colpisce come armonia, grado di regolarità, una volta che di quest’ultima si sia definita una nozione. E regolarità si ritrova anche in ciò che appare completamente casuale, stocastico per essere tecnicamente più precisi, come mostra ad esempio il lavoro rigoroso di Martin Hairer, che gli ha fatto guadagnare la Medaglia Fields nel 2014. Possiamo individuare forme di regolarità anche in ciò che a un’osservazione fuggitiva appare come un maelstrom caotico. Il contenuto di verità di tali affermazioni è risolto nella matematica attraverso la dimostrazione, cioè la coerenza con le strutture grammaticali della matematica perché è linguaggio e la derivazione conseguente da esse, che deve essere rigorosa nell’ambito del sistema formale in cui si opera. Il processo trova il proprio limite nei risultati di Kurt Gödel che prevedono l’esistenza di proposizioni indecidibili per sistemi formali basati su di un numero finito di assiomi e di regole logiche che permettono la codifica di formule autoreferenziali e includano l’aritmetica. Per questo motivo la verità in matematica è costruttiva. Essa si realizza con il completamento della dimostrazione, dopo la quale un’affermazione può a ragione chiamarsi teorema: un contenuto di verità in un dato sistema formale che obbedisce a regole logiche definite. Tale verità, quella matematica, cioè, si riflette essenzialmente sulle relazioni tra le strutture formali utilizzate nella descrizione di fenomeni empirici (compresa la dinamica delle strutture sociali, non ultime quelle economiche) non tanto sul contenuto essenziale del modello stesso. Nel costruire un modello matematico di un fenomeno fisico (una teoria fisica), infatti, si fanno scelte che prescindono dalle relazioni sintattiche tra gli elementi matematici che permettono di formalizzare quelle scelte. L’essenza di un modello sta proprio in quelle scelte iniziali che sono indirizzate dai dati: in esse vi è il contenuto di verità del modello stesso che riguarda sia le sue predizioni, che si spera siano verificabili in concreto (ciò motiva lo sforzo enorme per gli esperimenti di Ginevra, ad esempio), sia la sua connessione con le cose ultime (le ragioni dell’essere), forse fondamentalmente indecidibili perché riguardano la natura globale di un sistema di cui facciamo parte. È proprio nel fare queste scelte quando si costruisce un modello matematico (una teoria formalizzata, quindi) che interviene il senso estetico di chi le esercita, la sua innata percezione di quelle cha Pauli indicava come “immagini di possente contenuto emozionale, che non sono pensate, ma contemplate”, e che sono collegate alla simmetria, alla semplicità intesa non come banalità quanto essenziale e sottile armonia, e da cui emerge un contenuto di quella che possiamo considerare conoscenza “dal modo in cui”, continua Pauli, “tali immagini preesistenti vengono ad essere congruenti col comportamento degli oggetti esterni”, con la fenomenologia del mondo, quindi, nei limiti della nostra osservazione.
Nel 1985, così Yoichiro Nambu scrive parlando delle “Direzioni della Fisica delle Particelle” (titolo del suo articolo: “L’altro modo” – sta scrivendo dei modi di sviluppo dell’analisi teorica dei fenomeni – “il modo di Dirac, è quello innanzitutto di inventare, per così dire, un nuovo concetto matematico o un nuovo ambiente matematico, e quindi di cercare di trovare la sua rilevanza nel mondo reale, aspettandosi che (in una distorta parafrasi di Dirac) un’idea matematicamente bella debba essere adottata da Dio. Naturalmente la questione di cosa costituisca un’idea bella e rilevante è dove la fisica comincia a diventare arte.”
(2015)