di Antonio Errico
Qualcuno dice che la sovranità prepotente della tecnica, della tecnologia, della pratica digitale, la sovrabbondanza dei mezzi e la scarsità dei fini, la prevalenza del particolare e la trascuratezza della visione complessiva, stiano producendo, o abbiano già prodotto, un’atrofia del pensiero critico, della capacità di analisi e di discernimento, del confronto concreto e della integrazione delle idee, della riflessione e della consapevolezza nelle decisioni e nelle scelte.
Qualcuno dice che si sta con gli occhi aperti ma che ci sta dormendo il cuore, che si guarda e non si vede, che si sente e non si ascolta.
Potrebbe essere falso e potrebbe essere vero. Certo, una verità assoluta non esiste, per questo come per quasi tutto il resto. Spesso dipende da quello che ciascuno intende fare per gli altri e per se stesso.
Non sono posizioni nuove, in fondo. Anzi, sono antiche.
Nel “Fedro” di Platone, Socrate racconta che il dio egiziano Teuth aveva inventato i numeri, il calcolo, la geometria, l’astronomia, il gioco del tavoliere e dei dadi, le lettere dell’alfabeto. Un giorno si presentò al cospetto del faraone Thamus per illustrargli le sue invenzioni. Quando toccò alla scrittura, disse che quella avrebbe fatto gli uomini più sapienti e con più capacità di ricordare. Ma Thamus rispose che non era assolutamente vero, che le lettere avrebbero prodotto dimenticanza, per mancanza di esercizio della memoria. Perché gli uomini, fidandosi della scrittura, avrebbero ricordato le cose dall’esterno, attraverso segni estranei. Sarebbero stati informati di molte cose ma senza insegnamento, sarebbero sembrati eruditi pur essendo ignoranti, e saccenti anziché saggi.
Ma il re Thamus non aveva ragione. Molte cose sarebbero state cancellate dal tempo se la scrittura non ne avesse custodito la memoria. Anzi, la scrittura ha consentito di esplorare territori della memoria che molto probabilmente sarebbero rimasti inesplorati. Questo ha fatto Proust, per esempio.
In una stanza della sua casa del boulevard Haussman, con le porte serrate, le finestre sbarrate, assediato dall’asma, Marcel innalza la sua cattedrale alla memoria: edificio immateriale che si regge sulla scrittura della percezione, soffitta incantata che coinvolge ed avvolge l’io nel passato, dettagli, frammenti, scaglie di un tempo che si radunano tutte nel pensiero, a volte anche involontariamente, e riprendono forma, e resuscitano attraverso la reinvenzione che ne fa la scrittura.
Poi, molto tempo dopo Platone, venne T.S. Eliot a dire nei Cori da “La Rocca”, che l’invenzione infinita, l’ esperimento infinito “Portano conoscenza del moto, non dell’immobilità;/ conoscenza del linguaggio ma non del silenzio;/ conoscenza delle parole e ignoranza del Verbo./ Tutta la nostra conoscenza ci porta più vicini alla nostra ignoranza”.
Disse così e poi si domandò “Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo?/dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?” ( Uso la traduzione di Roberto Sanesi).
Poi altri, molti altri. Schierati dall’una o dall’altra parte. Ma, forse, non ci sono tutte le ragioni e non ci sono tutti i torti, né dall’una né dall’altra parte. Forse è tutto più semplice di quello che può sembrare; forse non è difficile trovare una mediazione. D’altra parte non ha senso, non ha più davvero nessun senso, dividersi tra apocalittici e integrati.
La pluralità di codici e di strumenti costituiscono un patrimonio dell’esistenza di ciascuno e di quella di una civiltà.
La differenza è data dal modo in cui ciascuno e una civiltà utilizzano quel patrimonio.
Allora, si diceva che si sta verificando, si è verificata, un’atrofia del pensiero critico, determinata dall’ abuso che spesso immotivatamente si fa di tecnica e di tecnologia. Qualcuno sostiene questo; in tanti sostengono questo.
Ma il pensiero è la condizione più intima di un uomo. Unica, irripetibile, inimitabile. Si può obbligare chiunque a molte cose, anche a dire quello che non pensa, a non dire quello che pensa, ma non si può obbligare nessuno a non pensare o a pensare in un determinato modo. Per cui viene da chiedersi quale sterminata, intricata rete, quale marea dilagante di social, quale intelligenza artificiale, possa obbligare qualcuno a non pensare, o a pensare come pensano tutti gli altri.
Quello che si pensa dipende esclusivamente da noi. Certo, si rivela sempre più necessario opporre resistenza, tentare di sottrarsi all’assedio della banalità, della superficialità, del chiacchiericcio, alle manipolazioni della realtà, agli inquinamenti della comunicazione, alle proposte di distorte visioni. Certo, occorre vigilare costantemente perché non diventi psicologicamente strutturale la confusione fra reale e virtuale, perché la dimensione della socialità non subisca ulteriori alterazioni trasformandoci in fantasmi che si agitano nei gruppi virtuali, perché la concretezza dell’esperienza non sia annullata dalla simulazione.
Però si può fare. Le trasformazioni culturali si portano sempre dietro e dentro delle trappole che bisogna imparare a scansare.
Soltanto analizzando, prevedendo, ragionando, confrontando, riflettendo, si può imparare a scansare le trappole.
A volte si ha l’impressione che le trappole si siano moltiplicate, che siano diventate più ingegnose. A volte si ha l’impressione che le voci delle sirene dal falso canto ammaliante diventino sempre più forti, che i loro richiami si facciano più insistenti, più seducenti, che diventi sempre meno facile ignorarli. Probabilmente è vero. Ma è a questo punto, dentro questa situazione che il pensiero critico diventa ancora più necessario, indispensabile, e possono essere proprio quelle forme e quegli strumenti che sembra possano annichilire il pensiero a consentire, invece, possibilità di un suo sviluppo.
Lo sviluppo di qualcosa, si sa, è sostanzialmente un adeguamento, una calibratura, una sorta di intesa con il tempo.
Allora dobbiamo riuscire a trovare un’intesa con il tempo, con il nostro tempo.
In fondo la tecnologia l’abbiamo inventata con il nostro pensiero, per cui possiamo riuscire a governarla come vogliamo, possiamo riuscire anche a neutralizzarla quando vogliamo. Possiamo usarla per farci del bene, come spesso accade. Possiamo evitare che ci faccia del male, perché anche questo altrettanto spesso accade.
Forse non aveva ragione il faraone. Forse non aveva ragione neanche Eliot. Forse l’uno e l’altro avevano soltanto paura che la macchina che costruiamo ci possa travolgere.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 30 luglio 2017]