Di mestiere faccio il linguista 23. Il sessismo linguistico

di Rosario Coluccia

Una notizia recentissima rimbalza sui giornali e attrae la mia attenzione. Allo scopo di essere più inclusiva, la metropolitana di Londra non userà più la formula «ladies and gentlemen» negli annunzi rivolti al pubblico. Continuando a leggere, capisco il significato dell’aggettivo «inclusiva», sulle prime per me oscuro. L’ente che gestisce i trasporti pubblici di Londra («Transport for London») ha fatto sapere che negli annunci preregistrati e diffusi dagli altoparlanti della metropolitana non verrà più usata la classica formula «ladies and gentlemen» (“signore e signori”), ma «hello everyone» (“salve a tutti”) che è più neutra dal punto di vista del genere, non si rivolge solo a utenti individuati attraverso il sesso, maschile o femminile. L’obiettivo è che tutte le persone, di qualsiasi orientamento sessuale, si sentano «benvenute» sui treni della metro londinese. Mark Evers, uno dei responsabili di «Transport for London», ha spiegato di aver voluto rivedere il linguaggio che viene usato negli annunci e nelle altre comunicazioni «per garantire che sia veramente inclusivo e che rifletta la grande diversità di Londra». Subito ci sono state reazioni. Stonewall, la grande organizzazione che si occupa dei diritti della comunità lesbica, gay, bisessuale e transessuale (in sigla LGBT), ha fatto conoscere la propria opinione. Questo attivissimo gruppo, accogliendo in modo favorevole la decisione, ha sottolineato che la lingua «è estremamente importante per la comunità lesbica, gay, bi e trans, e il modo in cui la utilizziamo può contribuire a garantire che tutte le persone si sentano incluse».

L’argomento è serio. Da tempo, in molti paesi occidentali, Europa e America del Nord, si discute del sessismo linguistico, l’uso della lingua che discrimina le persone in base al sesso. Il linguaggio, come del resto l’intera società, spesso privilegia la componente maschile rispetto a quella femminile. Ci sono modi sottili per discriminare le donne, anche usando parole neutre e non offensive, a volte in apparenza perfino gentili. La presidente della commissione antimafia Rosy Bindi è stata definita «più bella che intelligente», la moglie del presidente francese Macron «una bella mamma che se lo porta sottobraccio» (Silvio Berlusconi, fondatore e onnipotente leader di Forza Italia). In una riunione pubblica a Soncino, in provincia di Cremona, una bambola gonfiabile è stata indicata con le parole «c’è una sosia di Boldrini qui» (Matteo Salvini, segretario della Lega Nord), alludendo alla Presidente della Camera dei Deputati. Si riferiva alla ministra Maria Elena Boschi la seguente affermazione: «So quanto [Renzi] possa sentirsi subalterno a una donna bella e decisa» (Corradino Mineo, senatore, nel momento in cui abbandona il gruppo PD grazie al quale è stato eletto in Parlamento). Virginia Raggi, sindaca di Roma, è stata etichettata «bambolina imbambolata» (Vincenzo De Luca, governatore PD della Campania).

Forza Italia, Lega Nord, ex PD, PD, il sessismo linguistico non si arresta di fronte alle differenze politiche. I riferimenti culturali di fondo dei signori citati prima dovrebbero essere molto diversi (così mi piace ancora credere), ma constato che i comportamenti reali si somigliano fortemente. Sarà anche questo un segno del tramonto delle ideologie di cui molti si compiacciono? Io no, non me ne compiaccio. Per me la visione del mondo è fondamentale, non la pensiamo tutti allo stesso modo. Ma non voglio fare lo scienziato della politica, torno al mio mestiere. In tutti i casi che abbiamo elencato le donne non vengono valutate per le loro capacità o giudicate in base alle loro azioni concrete. Gli uomini politici che parlano delle loro colleghe fingono di parlarne dal punto di vista estetico (spesso con apprezzamenti grevi, anche quando simulano ammirazione), in realtà sminuendone le capacità e banalizzandone i comportamenti. Si sentono autorizzati a occuparsi dell’aspetto, dell’abbigliamento e delle misure delle donne, senza discutere l’idoneità a ricoprire il ruolo ottenuto e la carica raggiunta, di fatto infantilizzandone o svilendone i comportamenti. Così le parole feriscono, possono far molto male.

Simili atteggiamenti non si adottano nei confronti di un uomo o ricorrono molto raramente. Ne è vittima Renato Brunetta, ex ministro per la Pubblica Amministrazione. Perfino un personaggio serissimo come Mario Monti ha alluso alla bassa statura del ministro. A me le idee e gli atteggiamenti di Brunetta non piacciono, ma in questo caso solidarizzo con lui.

Per usare la lingua in modo paritario e non discriminante è importante indicare con termini femminili anche professioni di prestigio e ruoli istituzionali che fino a non molti anni fa erano quasi esclusivamente maschili. Troviamo normali termini femminili come maestra, parrucchiera, operaia. Non dovrebbe essere lo stesso per sindaca, ministra, segretaria (di partito e di sindacato), ecc.?

Invece ci sono perplessità. Nel dicembre 2016 Giorgio Napolitano, ex Presidente della Repubblica, ha ritirato a Roma il premio De Sanctis per la saggistica. Durante il discorso di ringraziamento, Napolitano ha ringraziato i ministri presenti alla cerimonia; fra gli altri la ministra all’Istruzione Valeria Fedeli, a cui si è rivolto con tono fermo: «Valeria non si dorrà se insisto in una licenza che mi sono preso da molto tempo, quella di reagire alla trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana nell’orribile appellativo di ministra o in quello abominevole di sindaca». Un applauso fragoroso ha accolto le sue parole, evidentemente condivise da uomini e donne di varia cultura e ideologia.

Perché certe parole non sarebbero «orribili» e «abominevoli» se declinate al maschile? È solo un fatto di gusto (“ministra, che brutta parola, suona male!”) o magari di importanza (“c’è ben altro di cui parlare, le cose serie sono altre!”)? E invece no. La società cambia: cambiano i ruoli delle persone e dunque, semplicemente, la lingua rispecchia i mutamenti della società. Qualche decennio fa il problema non era avvertito: le donne facevano solo certi lavori e non altri. Ecco perché nessuno mette in discussione che si dica contadina o sarta, al femminile. Oggi, con una società diversa, vanno declinati al femminile nomi finora pensati e usati al maschile, seguendo le regole della nostra grammatica, senza alcuna violazione delle norme. Muta la scala sociale, i nomi semplicemente si adeguano. Si intitola «Quasi una rivoluzione». I femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero, un libro appena uscito presso l’Accademia della Crusca, curato da Yorick Gomez Gane, con interventi di Claudio Marazzini e Giuseppe Zarra.

L’iniziativa dei gestori della metropolitana londinese allarga il fronte, entrano in ballo le persone indicate dall’etichetta LGBT, la comunità lesbica, gay, bisessuale e transessuale. La sensibilità collettiva qui aumenta, l’uso delle parole diventa più delicato. Una recente sentenza della quinta sezione penale della Cassazione ha stabilito che definire qualcuno “omosessuale” non è denigratorio. «È da escludere – si legge nella sentenza – che il termine “omosessuale” abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto […] A differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio secondo i canoni del linguaggio corrente, il termine in questione assume un carattere di per sé neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale al soggetto evocato ed è in tal senso entrato nell’uso comune». Insomma: è essenziale la qualità delle parole. “Frocio” è offensivo, “omosessuale” non è offensivo.

Tutto risolto? Non mi pare. Non siamo ancora un paese in grado di sdoganare in tutte le circostanze la parola omosessuale: il vocabolo può ancora veicolari contenuti di ingiuria e discriminazione, dipende dalle intenzioni retrostanti. I pregiudizi sono duri a morire. Se pronunziamo alcune parole in modo ironico e allusivo, se usiamo certi toni di voce, vuol dire che ancora censuriamo certi comportamenti o certi orientamenti. La scelta linguistica dei gestori della metropolitana londinese può aiutarci a riflettere, possiamo usare la lingua in modo adeguato e così migliorare noi stessi.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 30 luglio 2017]

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