Aneddotica novecentesca (parte seconda)

Nada Monti, Conversazione, 2008, olio, tela 100 x 70 cm.

di Gianluca Virgilio

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Indro Montanelli – Leo Longanesi

L’aneddoto che Indro Montanelli racconta nel decennale (1967) della morte dell’amico editore Leo Longanesi costituisce una penetrante riflessione sul genere aneddotico, su come esso nasca e fiorisca come vitale reazione alla scomparsa di una persona cara. La testimonianza di Montanelli rievoca il giorno del funerale di Longanesi, precisamente il momento del trasporto funebre, durante il quale gli amici, fra cui Montanelli, sentono che abbandonarsi al dolore avrebbe significato tradire l’amico morto, il suo febbrile desiderio di fare e di vivere. Pertanto, come si leggerà, iniziano a raccontarsi fatti e detti memorabili di Longanesi, per consolarsi con quella hilaritas che è propria dell’aneddoto.

Un viaggio molto allegro

“Dopo l’esequie, la bara fu caricata sul furgone che doveva portarla al cimitero di Lugo, e noi lo seguimmo sulla macchina di Giorgio Cabella. Prima l’uno, poi l’altro azzardammo qualche frase di circostanza (“Stiamo andando a seppellire un pezzo di noi stessi” eccetera) che ci si spense in bocca soffocata dalla paura che Leo ci sentisse. Poi abbandonammo il morto al suo destino, e ci demmo a ricostruire il vivo, i suoi detti, i suoi motti, le sue trovate, le sue impennate, i suoi schiamazzanti monologhi, le sue rabdomantiche intuizioni, le sue fulminanti battute.

Dapprima, nell’antologia dei ricordi, scegliemmo i più patetici, che meglio s’intonavano a quel nostro mesto andare sulla scia d’un carro funebre. Ma poi, ogni aneddoto richiamandocene alla memoria altri dieci, smettemmo di discriminare. Sicché non avevamo ancora passato il Po che ci rotolavamo sui cuscini reggendoci la pancia dal rider alla rievocazione di Leo quando, fuggiasco attraverso le linee tedesche e braccato dal tiro delle artiglierie, aveva cercato riparo sotto un muraglione sbrecciato su cui era scritto: “Il Duce ha sempre ragione”, il motto ch’egli stesso aveva coniato e che ora minacciava di crollargli sulla testa; e che poi, guardandosi intorno, aveva scoperto, acquattato un po’ più in là, un altro fuggiasco con un occhio coperto da una benda nera, la barba finta, un sombrero in testa, stivaloni e giacca di cuoio, doppia cartuccera a tracolla: ed era il regista Goffredo Alessandrini “travestito da spia per non farsi notare”. Di Leo che, redarguito per la sua incoerenza da un vecchio “camerata” che si proclamava “il vero fascista tutto d’un pezzo”, ribatteva indignato: “Vero fascista, lei!? Ma i veri fascisti siamo noi…Noi che dapprima non ci credemmo, poi fingemmo di crederci, poi credemmo di fingere, poi lo tradimmo, poi lo rimpiangemmo. E ora… ora non sappiamo più neanche noi né cosa fummo, né cosa siamo, né cosa saremo… Eccoli i veri fascisti!”. Di Leo che, invitato a comporre l’elogio funebre di un banchiere suo amico, appena scomparso, lo riassunse così: “Infido, visse di fido”. Di Leo che proponeva d’iscrivere, nel tricolore repubblicano, al posto dello stemma sabaudo, il motto: “Ho famiglia”. Eccetera.

Ogni tanto tacevamo raggelati dallo sguardo vagamente disgustato dell’autista che ci sbirciava nello specchietto e evidentemente non sapeva come conciliare quell’aneddotica condita di sghignazzi col viso a lutto che gli avevamo mostrato in principio e col convoglio che ci precedeva. Finché Cabella gli diede ordine di sorpassarlo. E allora, liberati anche da questa remora, la nostra ilarità non ebbe più freno. Mai avevo fatto un viaggio così allegro.”

Indro Montanelli, Incontri italiani, Rizzoli, Milano 1982, pp. 354-355.
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Ennio Flaiano – Luigi Einaudi

Sul “Corriere della Sera” del 18 agosto 1970 si legge un aneddoto raccontato da Ennio Flaiano, che ha per protagonista il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi e lo stesso Flaiano. Lo scrittore, invitato a cena al Quirinale insieme ad altri amici del gruppo pannunziano, non esita ad accettare metà di una pera che Einaudi inaspettatamente chiede di dividere con qualcuno. Il maggiordomo, frustrato da questa infrazione all’etichetta, si ritira in disparte con sommo gaudio dello scrittore. L’aneddoto si risolve in una sferzante battuta finale con cui lo Flaiano biasima il malgoverno dell’Italia repubblicana dopo la presidenza di Einaudi: “Cominciava per l’Italia la repubblica delle pere indivise”.

La pera del Presidente

La pera. Molti anni fa, nel terzo o quarto anno del suo mandato presidenziale, fui invitato a cena al palazzo del Quirinale, da Luigi Einaudi. Non invitato ad personam – il Presidente non mi conosceva affatto – ma come redattore di una rivista politica e letteraria diretta da Mario Pannunzio. A tavola eravamo in otto, compresi il Presidente e sua moglie. Otto convitati è il massimo per una cena non ufficiale, e la serata si svolse dunque molto piacevolmente, la conversazione toccò vari argomenti, con una vivacità e una disinvoltura che davano fastidio all’enorme e unico maggiordomo in polpe che ci serviva. Questo maggiordomo, una specie di Hitchcock di più vaste proporzioni ma totalmente destituito di ironia, aveva sulle prime tentato di intimidirci posandoci il prezioso vasellame davanti come se temesse che l’avremmo rotto; e fulminandoci con occhiate di sconforto se non riuscivamo a individuare tra le tante (alcune nascoste persino tra i merletti della tovaglia) le posate giuste.

Poiché il Presidente, nei suoi anni verdi, aveva frequentato una trattoria di via della Croce, la Fiaschetteria Beltramme (che noi ancora frequentiamo), si parlò anche di questa: e dei suoi colleghi di università coi quali vi andava, del proprietario e di altri clienti che egli vi intravedeva: Bruno Barilli, Cardarelli, il pittore Bartoli. Da un argomento all’altro, tra aneddoti che per il gran ridere scuotevano il Presidente come un uccellino bagnato; tra riflessioni che seguivano gli aneddoti, pensieri economici e altri sul futuro, la cena si stava prolungando oltre il lecito. Il Presidente sembrava un nonno felice di rivedere nipoti lontani. Ma eccoci alla frutta.
Il maggiordomo recò un enorme vassoio del tipo che i manieristi francesi e poi napoletani dipingevano due secoli fa: c’era di tutto, eccetto il melone spaccato. E tra quei frutti, delle pere molto grandi. Luigi Einaudi guardò un po’ sorpreso tanta botanica, poi sospirò: “Io” disse “prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c’è nessuno che vuole dividere una con me?”

Tutti avemmo un attimo di sgomento e guardammo istintivamente il maggiordomo: era diventato rosso fiamma e forse stava per avere un colpo apoplettico. Durante la sua lunga carriera mai aveva sentito una proposta simile, a una cena servita da lui, in quelle sale. Tuttavia, lo battei di volata: “Io, Presidente” dissi alzando una mano per farmi vedere, come a scuola. Il Presidente tagliò la pera, il maggiordomo ne mise la metà sul piatto, e me la posò davanti come se contenesse la metà della testa di Giovanni il Battista. Un tumulto di disprezzo doveva agitare il suo animo non troppo grande, in quel corpo immenso. “Stai a vedere” pensai “che adesso me la sbuccia, come ai bambini.”

Non fece nulla, seguitò il suo giro. Ma il salto del trapezio era riuscito e la conversazione riprese più vivace di prima; mentre il maggiordomo, snob come sanno esserlo soltanto certi camerieri e i cani da guardia, spariva dietro un paravento.

Qui finiscono i miei ricordi sul Presidente Einaudi. Non ebbi più occasione di vederlo, qualche anno dopo saliva alla Presidenza un altro e il resto è noto. Cominciava per l’Italia la repubblica delle pere indivise.

Ennio Flaiano, La solitudine del satiro, in Opere. Scritti postumi, I, a cura di Maria Corti e Anna Longoni, Bompiani, Milano 1988, pp. 695-697.
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Piero Chiara – Giancarlo Vigorelli

In uno scritto datato 1975, Piero Chiara racconta un aneddoto che ha per protagonista il critico letterario e giornalista Giancarlo Vigorelli alle prese con un giovane scrittore dalle belle speranze. Si intuisce la trepidazione del giovane non disgiunta da una certa presunzione, e la delusione finale dinanzi al gesto risoluto del critico che non ammette repliche.

Bastano tre pagine

Un giovane autore una volta, viaggiando tra Milano e Roma, si trovò seduto per caso davanti a Giancarlo Vigorelli al quale aveva mandato il suo primo romanzo. Aveva quasi deciso di presentarsi, quando vide che il critico toglieva dalla sua valigia un libro appena apparso, lo sfogliava, lo leggiucchiava e dopo aver scosso la testa lo gettava dal finestrino. La stessa sorte ebbero, uno dopo l’altro, una decine di altre “novità”.
Finalmente Vigorelli tolse dalla valigia il libro dell’autore che aveva davanti e ne lesse qualche pagina. Il giovane, trepidante, scrutava il volto del suo dirimpettaio. Quando vide che Vigorelli, dopo aver letto alcune pagine si accingeva a lanciarlo dal finestrino, lo fermò.

“Vada avanti almeno fino a pagina diciotto, quando il protagonista conosce Ermenelinda” gli disse. “Io l’ho letto e dopo pagina diciotto l’ho trovato interessantissimo.”

“No” gli rispose Vigorelli “di un libro come questo bastano tre pagine.”
E getto il volume dal finestrino.

Piero Chiara, Sale & Tabacchi, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1989, p. 105.
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Leone Piccioni – Giuseppe Ungaretti

Dei molti aneddoti ungarettiani riportati da Leone Piccioni nella sezione Aneddotica ungarettiana del libro citato in basso, ne riporto uno nel quale Giuseppe Ungaretti e, insieme a lui, l’autore dell’aneddoto, ironizza su una moda invalsa nella critica testuale, la critica delle varianti, cioè lo studio delle diverse lezioni rinvenute nei codici o nelle stampe. L’autore precisa che non è in questione l’importanza della variantistica, ma l’abuso che se ne fa, qui ben stigmatizzato dalla pronta risposta di Ungaretti alla richiesta di una gentile signora.

Le varianti di Ungaretti

A proposito di varianti, non già per frenare o sminuire l’importanza per l’attenzione a questi segmenti di poesia (io stesso, del resto, sono stato un variantista ungarettiano – e leopardiano – ed alle varianti ho sempre dato, e do importanza notevolissima), ma per mettere in guardia contro certe tentazioni quasi esclusivistiche o feticistiche, giovi riportare un episodio che ha, ovviamente, Ungaretti per protagonista. Una volta, per non so quale ricevimento o pranzo, una signora s’avvicinò al poeta pregandolo di vergare su un foglio, di sua mano, un testo poetico. Ungaretti oppose di non sapere a memoria i suoi versi, ma la signora aveva con sé un libro. Ungaretti (non sapeva dir di no) pazientemente scelse una poesia – tra le più brevi – e con l’inchiostro verde della sua penna stilografica trascrisse attentamente quei versi. La signora ringraziava, ringraziava molto, ma di una cosa si doleva: “Peccato che non ci siano varianti”. “Perché – ribatté Ungaretti – voleva anche delle varianti? Aspetti che ne faccio subito due o tre”. E riprese il foglio, aggiunse in margine qualcosa, e fu fatta!

Leone Piccioni, Ungarettiana, Vallecchi, Firenze 1980, p. 210.


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Claudio Magris – Elias Canetti

Ecco un modo tutto particolare di difendere la propria privacy, senza perdere le staffe, anzi, al contrario, divertendosi nel recitare una parte buffa. Elias Canetti finge al telefono di essere una governante inglese per riservarsi la possibilità di parlare oppure no con l’interlocutore, in questo caso Claudio Magris. E’ quanto racconta, in un articolo apparso sul Corriere della Sera del 1981, lo stesso Magris, che sembra anche ricavare un insegnamento dall’episodio: Canetti, il poeta delle metamorfosi, prova nella propria quotidiana esistenza “un’arte difficile, quella di giocare da soli, con e contro se stessi, con tutta la serietà e l’ilarità del vero gioco”.

Metamorfosi, ovvero la governante inglese

Due anni fa, prima di partire per Zurigo, avevo telefonato a Canetti, sperando che in quei giorni fosse a casa e che mi fosse possibile rivederlo. Non rispondeva nessuno e provai a fare il numero del suo vecchio appartamento di Londra, la città nella quale aveva vissuto, oscuro e ignorato, per tanti anni – dal 1939, dopo aver abbandonato Vienna occupata dai nazisti – e dove l’avevo incontrato la prima volta. La voce di un’anziana signora inglese, sentito il mio nome, mi disse gentilmente che Canetti sarebbe venuto subito e infatti qualche attimo dopo egli era all’apparecchio, cordiale e affettuoso: diceva che si era ritirato a Londra, lontano dalla famiglia, per qualche settimana, per finire un libro e potersi rendere irreperibile quando ne avesse voglia o necessità, soprattutto per stare solo. “Anzi, aggiunse dopo una pausa, “mi scusi, per un momento fa, sa, ero io al telefono, prima, quando Lei ha chiesto di parlare con me…”
Il poeta che aveva dedicato pagine indimenticabili alla metamorfosi si era trasformato, per un istante, in una sua inesistente governante. Forse, prima di rientrare in se stesso e di tornare al telefono, aveva fatto il giro della stanza; certo si era rivelato maestro in un’arte difficile, quella di giocare da soli, con e contro se stessi, con tutta la serietà e l’ilarità del vero gioco.

Claudio Magris, Lo scrittore che si nasconde, in Itaca e oltre, Garzanti, Milano 1982, p. 55, già pubblicane nel “Corriere della Sera” del 16.10.81 col titolo Canetti, genio misterioso e affabile.
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Goffredo Parise – Filippo de Pisis

Questo scritto di Goffredo Parise comparve per la prima volta sul “Corriere della Sera” del 9 giugno 1981, prima di essere raccolto nel volume Artisti a cura di Mario Quesada nel 1984 per la casa editrice Le parole gelate. L’aneddoto ha per protagonista il pittore Filippo de Pisis che non sopporta di veder diminuita la sua opera di artista, nemmeno se questo può evitargli il pagamento di molte tasse. E di questa vanità, naturalmente, il malaccorto pittore pagherà lo scotto.

Le tasse della vanità

In seguito ebbi modo di vederlo molte altre volte a Venezia e di conoscerlo, per mezzo di Carlo Cardazzo, un noto gallerista. Un giorno lo vidi proprio con Cardazzo: litigavano e dapprima stentai a capire il perché del litigio. Si trattava di questo: erano stati insieme all’ufficio delle Imposte perché de Pisis, in quegli anni e in quella città molto noto era stato colpito da tasse esagerate. Per questo si lagnava e piangeva con Cardazzo. Cardazzo prese in mano la cosa e raccomandò a de Pisis di dire onestamente all’ufficiale delle Imposte che i suoi guadagni non erano poi enormi, che lui era un artista e come tutti gli artisti, povero. De Pisis promise.
Davanti all’ufficiale Cardazzo cominciò l’esposizione diciamo della “povertà artistica” di de Pisis ma questi, via via che Cardazzo parlava, sempre più s’infuriava finché esplose. “”Ma cosa dici, macché artista misconosciuto, macché artista povero, io sono un grande artista, un grande pittore riconosciuto da tutti, un maestro, e i miei quadri valgono moltissimo tanto che non faccio a tempo a farli che sono già venduti.” Inutile dire che la transazione Cardazzo andò a monte proprio nel momento in cui doveva andare in porto e de Pisis pagò le tasse della sua vanità.

Goffredo Parise, Artisti, in Opere II, Mondadori, Milano 1989, pp. 1208-1209.


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Piero Bigongiari – Carlo Emilio Gadda

Il poeta e critico letterario Piero Bigongiari intervistato da Giorgio Tabanelli a Firenze il 6 novembre 1981, conclude la sua intervista con questo simpatico aneddoto che ha per protagonista Carlo Emilio Gadda. Il gran lombardo, recatosi in visita a Carlo Bo, nella casa paterna di questi a Sestri Levante, nottetempo si imbatte in un vecchio e burbero zio del critico ligure, che fraintende le intenzioni di Gadda, dando origine ad una situazione comica, della quale i convenuti (Luzi, Bigongiari, Bo) il mattino dopo rideranno di gusto.

Avvenne di notte

Per terminare vorrei citare un aneddoto curioso che accadde quando andammo io e Luzi a trovar Bo a Sestri Levante. Ricordo ancora che la grande casa avita era dappertutto piena di libri. Abbiamo sempre ammirato di Carlo Bo questa sua disponibilità a comprare libri di qualunque specie in quantità enorme, cosa che ci faceva una grande invidia, in po’ meno forniti allora – e anche ora – di moneta rispetto a lui. Quando andammo a trovarlo a Sestri, sarà stato verso il ’40 o il ’41, avvennero cose molto curiose. C’era con noi, ospite, anche Carlo Emilio Gadda. Io e Luzi eravamo in grande amicizia anche con lui. In questa grande casa di tradizione e anche, in questo senso, di grande famiglia, con questi libri, questa grande biblioteca, e questo giovane Carlo Bo che aveva l’autorità della sua presenza nella cultura italiana, successero cose incredibili perché in questa famiglia abituata all’etichetta familiare quale c’era prima nelle buone famiglie dell’alta borghesia come quella di Bo (con la figura della sua angelica sorella che ancora ricordo con nostalgia), Carlo Emilio Gadda ne fece di tutti i colori. C’era nella casa uno zio sordo, loro ospite a vita, e successe che mentre noi, io e Luzi, ci eravamo ritirati a notte alta a dormire in una stessa camera, Gadda, che era a dormire in una camera accanto alla nostra, in piena notte, il caro estroso amico Gadda, che era molto più anziano di noi, ebbe bisogno di distrarsi per qualche bisogno impellente; e non sappiamo come accadde, ma andò a finire nella camera di questo zio Bo, il quale era un anziano signore piuttosto nevrotico e burbero. Egli, risvegliato in piena notte dal Gadda, cominciò a urlare: “Se ne vada! Vada via!”. Gadda ritornò in camera, poi, ripensandoci bene, disse:”Bisogna che vada a scusarmi”. E dopo mezz’ora tornò a bussare alla camera di questo zio nevrotico dicendo: “Mi deve scusare…” ecc. Il poveretto, che si era appena riaddormentato, risvegliato di soprassalto ricominciò ad urlare ancora più forte: “Vada via! Insomma lei è…!” ecc. ecc. Fu una notte tragicomica e il giorno dopo a stento contenevamo le risate più folli davanti ai due responsabili per la comica situazione creatasi senza scampo tra la cerimoniosità sempre più impigliata e gaffeuse di Gadda e la nevrosi di questo zio di Carlino.

E’ un piccolo episodio che appartiene alla memoria della oltre quarantennale amicizia con Bo, ma fatti di questo genere divertito sono infiniti. Ci sono nei rapporti di qualunque amicizia naturalmente anche, se Dio vuole, i momenti allegri, di una gaiezza irrefrenabile, che galleggiano sugli anni come chiarìe improvvise su un orizzonte marino.

Piero Bigongiari, in Giorgio Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, Garzanti, Milano 1986, pp. 114-115.
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Cesare Marchi – Basilio Puoti

Per spiegare chi sia un pedante, Cesare Marchi rispolvera la figura di Basilio Puoti, protagonista di due aneddoti, nei quali il famoso purista napoletano riduce ogni giudizio a un fatto linguistico.

Il prototipo dei pedanti

Un pedante molto migliore della sua fama fu Basilio Puoti, letterato napoletano, che aprì a sue spese, nella sua città, una scuola gratuita. Ma più che per questa benemerenza, è ricordato per la sua intransigenza in fatto di purità della lingua, che ne ha fatto il prototipo dei pedanti. Si racconta che, mentre alcuni amici si lamentavano per le dure condizioni di vita della città sotto i Borboni, egli commentasse: “Credete a me, le cose vanno male a Napoli perché da noi non si conosce bene l’uso dei participi”. Probabilmente è un aneddoto inventato, ma gli assomiglia parecchio. Un’altra volta un suo amico, per fargli uno scherzo, andò a bussare alla sua porta nel cuor della notte. Basilio si svegliò, si affacciò alla finestra e domandò che cosa volesse da lui, a quell’ora.

– Vorrei che tu ti alzi – gridò l’amico.

– Disgraziato – ribatté il Puoti, fuori di sé – devi dire “che tu ti alzassi, che tu ti alzassi”.
La violazione della sintassi l’aveva imbestialito più della violazione del sonno.

Cesare Marchi, In punta di lingua. Divagazioni curiosità aneddoti sull’italiano scritto e parlato, Rizzoli, Milano 1992, pp. 239-240.


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Vittorio Foa – Benedetto Croce – Palmiro Togliatti

Vittorio Foa, nella sua autobiografia politica pubblicata nel 1991, racconta un aneddoto che ha “sentito dire”. Protagonisti sono Togliatti e Croce, dopo la svolta di Salerno, nella primavera del 1944. L’incarico di scrivere l’appello agli Italiani per richiamarli all’unità contro lo straniero è affidato a Benedetto Croce, che però deve vedersela con Palmiro Togliatti nelle vesti di dotto umanista. Questi delude chi pensava di dover intervenire con una mediazione diplomatica (Sforza), approvando tutto e avanzando solo un’obiezione di carattere linguistico. Ecco dove va a cacciarsi talvolta la filologia.

Potenza della filologia
Sulla filologia come arma politica di Togliatti voglio ricordare un episodio che conosco ovviamente solo per sentito dire. Nella primavera del 1944, dopo la famosa “svolta”, Togliatti era a Salerno ministro nel governo presieduto dal maresciallo Badoglio. Un giorno il ministro degli Esteri, che era Carlo Sforza, chiese che il governo lanciasse un pubblico appello agli italiani delle due parti del fronte per salvare la patria divisa e sofferente. Tutti furono d’accordo e senza eccedere nell’immaginazione diedero incarico di scrivere l’appello a Benedetto Croce, considerato come il più alfabetizzato del gabinetto. Croce si consultò con Sforza: che tono tenere? E se Togliatti farà le sue obbiezioni? Niente paura disse Sforza che era un esperto diplomatico. Croce carichi pure il linguaggio, se Togliatti obbiettava ci avrebbe pensato lui, Sforza, a trovare un punto di compromesso. Così nella seduta successiva del Consiglio dei ministri Croce lesse l’appello e tutti attesero l’intervento del comunista, che sembrava immerso in una profonda riflessione. A un certo punto chiese la parola. Ecco, ci siamo si scambiarono un’occhiata Croce e Sforza. Togliatti cominciò così: “E’ un buon documento; sì, proprio buono, all’altezza della situazione. Ho solo un’osservazione da fare (tutti attenti, adesso ci siamo): non si mette il gerundio all’inizio di una frase; ce lo ha insegnato il nostro don Basilio; non è vero, don Benedetto?” concluse rivolgendosi a Croce. Il richiamo al grande purista napoletano Basilio Puoti impediva qualsiasi replica.

Vittorio Foa, Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, Einaudi, Torino, 1991, pp. 230-231.
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Federico Zeri – Vittorio Cini

Nella sua autobiografia del 1995, Federico Zeri riassume i suoi rapporti con il finanziere e mecenate Vittorio Cini. L’aneddoto suona come un severo giudizio non solo su un uomo, ma su un’intera classe sociale, da lui ben rappresentata, l’alta borghesia italiana, che, in definitiva, sembra conoscere soltanto il valore dei soldi.

Il valore dei soldi

Un episodio riassume nella mia memoria questi aspetti della sua [di Vittorio Cini] personalità e la delusione che io finii per provarne. Nel 1963 avevo conosciuto il miliardario americano J. Paul Getty, dal quale mi recavo quasi ogni mese. Questa relazione incuriosiva, o affascinava, Cini. Si persuase, non so su quali basi, che ne ricavavo enormi somme di denaro e soprattutto credeva che Getty mi avesse concesso una percentuale sui suoi affari di petrolio. Era un’idea del tutto falsa, assolutamente irreale, eppure Cini voleva crederci.
Un giorno verso la fine degli anni ’60, mi prese in disparte e tentò di affrontare la questione. Cini e io ci davamo del lei, come usa tra persone educate e di condizioni sociali molto distanti. “Lei è dunque divenuto ricchissimo?” finì col domandarmi, lasciandomi interdetto. Non volevo deluderlo, anche perché ero curioso di vedere dove sarebbe arrivato: gli risposi di sì. Cominciò un elenco di cifre: un milione, dieci milioni, venti milioni di dollari? Rimasi indifferente: “Oh, no, molto di più. Del resto lo sa lei stesso, con una fortuna importante è difficile fissare i limiti”. Al che Cini concluse: “Ma allora lei appartiene alla nostra élite! Ora possiamo darci del tu”. Come un tipico rappresentante della borghesia italiana non poteva sfuggire a questo spirito di gruppo fondato sui rapporti di forza e di servilismo dove nulla conta, se non il luccichio del potere.

Federico Zeri, Confesso che ho sbagliato. Ricordi autobiografici, Longanesi & C., Milano 1995, pp. 88-89.


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Luciana Bianciardi – Luciano Bianciardi – Giangiacomo Feltrinelli

Luciana Bianciardi, figlia di Luciano Bianciardi, collaboratore di Giangiacomo Feltrinelli, racconta questo episodio ambientato nei primi anni Sessanta. Luciano Bianciardi prende in parola il miliardario editore milanese che si fa interprete della causa del proletariato e gli porta via un cappotto che non avrebbe potuto permettersi di acquistare. Non si registrano reazioni di Feltrinelli.

Il cappotto del proletario

 

Luciana Bianciardi in Aldo Grandi, Giangiacomo Feltrinelli. La dinastia, il rivoluzionario, Baldini e Castoldi, Milano 2000, p. 185.


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Gaetano Afeltra – Carlo Bo – Giovanni Spadolini

Gaetano Afeltra, in occasione della morte di Carlo Bo, ricorda un piacevole episodio che ha per protagonista, oltre a Bo, Giovanni Spadolini: insomma, due bibliofili a confronto, che si sfidano bonariamente sul loro terreno preferito, i libri. Il perdente, Spadolini, non esita a mentire sul numero dei suoi acquisti librari, ma è ricambiato dall’indulgente sorriso del rettore urbinate che nella sua più lunga vita ne ha accumulati in numero maggiore.

Libri

Chi andava a fargli [a Bo] visita rimaneva incantato a guardare quelle pareti tappezzate di libri: ne aveva dappertutto, in scaffalature alte fino al soffitto, impilati lungo il corridoio, distribuiti in mucchi in ognuna delle stanze. Per quanto ne so, era l’unico ad avere libri stipati in grande quantità fin dentro il bagno. Spadolini, che era venuto con me a fargli visita nella sua casa milanese di via Maria Teresa, provò forse una punta di dispetto di fronte a quella sterminata biblioteca la cui consistenza superava la sua. Fu così che, dopo aver chiesto a Bo una stima approssimativa del numero dei volumi da lui posseduti, e avutone in risposta un vago “Novantamila”, Spadolini si affrettò a correggere il numero dei suoi, precedentemente quantificati in settantamila. “I miei saranno…. ottanta-ottantacinquemila”, replicò. Bo ne sorrise, del suo sorriso silenzioso, dolce.

Gaetano Afeltra, Una casa piena di libri ma quando aveva ospiti era lui a fare la spesa, in “Corriere della Sera” di lunedì 23 luglio 2001, p. 35.


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Leone Piccioni – Carlo Emilio Gadda

Conversando con Mirella Serri, Leone Piccioni racconta un aneddoto che ha per protagonista Carlo Emilio Gadda, da lui conosciuto al tempo in cui lavoravano insieme alla Rai. Si tratta di un equivoco fondato sulla presunta omosessualità latente attribuita all’autore delPasticciaccio o, meglio, che questi temeva di vedersi attribuire. La storiella compare in una recensione del volumetto di ricordi letterari pubblicato da Piccioni, dal titolo De Robertis Pea Bilenchi, Pananti, Firenze 2001.

Colleghi di P/penna

Anche Gadda l’ho conosciuto nel dopoguerra. Oltre che uno dei maggiori narratori italiani era veramente un tipo straordinario. Ho lavorato in Rai con lui per decenni. Tutta l’aneddotica sul suo conto e sulla sua magnifica ingenuità è assolutamente vera. Basta solo questo episodio: gli telefona lo scrittore calabrese Mario La Cava e per presentarsi a lui, un po’ pomposamente, gli dice: “Noi siamo colleghi di penna”. “Di Penna?”, grida Gadda. “Ma, per carità!”. E attacca il telefono all’improvviso perché una delle sue ossessioni era di essere fatto oggetto di polemica di scherno per la latente omosessualità e voleva evitare che il suo nome fosse collegato a quello di Penna che invece non mascherava la sua inclinazione.

Leone Piccioni in Mirella Serri, Quando Ungaretti non leggeva Montale per “non sciuparsi”, in “Tuttolibri”, XXV, n. 1271, 4 agosto 2001, p. 3.

(Fine)

[Pubblicato in Zibaldoni.it, seconda serie, il 10 e il 24 marzo 2005]

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