di Guglielmo Forges Davanzati
Lo sciopero dei professori universitari programmato per il prossimo settembre – con la sospensione degli esami di profitto nella sessione autunnale – sta suscitando numerose polemiche perché interpretato come una rivendicazione corporativa di lavoratori privilegiati, con stipendi elevati. E’ opportuno ricordare che la decisione di scioperare deriva da anni di vertenze con il Ministero per avere riconosciuti gli scatti stipendiali fermi dal 2011: trattative che non hanno portato ad alcun esito. Ed è opportuno anche ricordare che, a partire dal 2015, alle altre categorie del comparto pubblico è stato accordato il riconoscimento a fini giuridici degli anni di blocco: ci si riferisce ai docenti delle scuole, ai medici, al personale degli enti di ricerca. E’ necessario poi precisare che un professore universitario con venti anni di anzianità guadagna circa 2000 euro netti mensili e che un suo collega di altri Paesi europei guadagna almeno cinque volte tanto. A ciò va aggiunto – e non è cosa di poco conto – che i fondi per la ricerca, in molte sedi, sono stati pressoché azzerati, a seguito dei tagli al sistema formativo, praticati con la massima intensità nelle sedi universitarie meridionali, che prosegue ininterrottamente da quasi dieci anni. Il Fondo di finanziamento ordinario – ovvero il finanziamento statale che costituisce la principale fonte di entrata delle Università – si è ridotto di circa 10 miliardi dal 2010 al 2016.
L’acquisto di libri, l’abbonamento a riviste, la partecipazione a Convegni nazionali e internazionali – cioè tutto ciò che concorre a produrre una buona qualità della ricerca scientifica in ogni ambito disciplinare – va quindi a gravare sullo stipendio, con la conseguenza, pressoché ovvia, che si acquistano meno libri, si leggono meno articoli scientifici, si partecipa a un numero minore di convegni e, dunque, si fa peggiore ricerca.
Perché questo è un problema anche e soprattutto per gli studenti e le loro famiglie? E’ verosimile immaginare che nella percezione diffusa un professore universitario ha il solo compito di fare didattica e di seguire Tesi di laurea. E’ chiaramente una percezione che non corrisponde al vero. I docenti universitari sono impegnati almeno su quattro fronti: didattica, ricerca, impegni istituzionali, c.d. terza missione. Gli impegni istituzionali riguardano l’assunzione di incarichi (a titolo gratuito) per attività che attengono alla gestione dell’Istituzione: fra questi, presidenza di corsi di laurea, direzione di Dipartimento, Presidenza di Facoltà, coordinamento di Dottorati di ricerca. La c.d. terza missione attiene ai rapporti con il territorio: a titolo esemplificativo, lezioni nelle scuole superiori, anche in questo caso a titolo gratuito.
Si tratta di attività che sono soggette a valutazioni periodiche da parte del Ministero, attraverso l’Agenzia Nazionale per la Valutazione della Ricerca (ANVUR). ANVUR opera così. Cala dall’alto, senza alcuna possibilità di interlocuzione con le associazioni scientifiche e tantomeno con singoli docenti, un elenco di riviste sulle quali i ricercatori italiani devono pubblicare: devono nel senso che l’assenza di loro pubblicazioni in quelle riviste comporta una decurtazione di finanziamenti per l’Istituzione nella quale lavorano. La si potrebbe definire Scienza di Stato. ANVUR non valuta tutto ciò che, oltre la ricerca, fanno i professori universitari: didattica, impegni istituzionali, partecipazione a convegni, per una quantità di ore lavoro che, in molti casi, supera di gran lunga le otto ore giornaliere, compresi i fine settimana. I componenti dell’ANVUR, poi, non sono eletti ma nominati dal Ministero, con procedure alquanto opache. ANVUR, infine, ha un costo di funzionamento stimabile intorno a decine di milioni di euro annui: non è poco.
La selezione delle riviste è fatta sulla base del c.d. fattore di impatto (impact factor), un indicatore che cattura la numerosità di lettori di una data rivista. L’impact factor non è mai stato utilizzato, in nessun Paese al mondo, per valutare la qualità della ricerca scientifica: si tratta di un indicatore formulato per orientare le scelte di acquisto di riviste da parte delle biblioteche.
L’Agenzia valuta le pubblicazioni in relazione alla sede che le ha ospitate, indipendentemente dal loro contenuto, così che un articolo che nulla aggiunge alle nostre conoscenze, se, per puro caso, è stato pubblicato su riviste di “eccellenza” (ovvero certificate tali dall’Agenzia) riceve una valutazione molto positiva, così come, per contro, un articolo estremamente innovativo pubblicato su riviste che ANVUR non considera buone riceve una valutazione bassa. E’ del tutto evidente che questo dispositivo genera attitudini conformiste, dal momento che per pubblicare su riviste considerate prestigiose (e definite di classe A) occorre uniformarsi alla loro linea editoriale, e talvolta – come spesso documentato – anche mettere in atto comportamenti eticamente discutibili. L’amicizia con il Direttore di una rivista di classe A può facilmente consentire di essere considerati ricercatori di eccellenza. La storia della Scienza mostra inequivocabilmente che le maggiori ‘rivoluzioni scientifiche’ si sono generate non allineandosi al paradigma dominante. In tal senso, l’operazione ANVUR è quanto di dannoso si possa immaginare per l’avanzamento delle conoscenze in ogni ambito disciplinare e, non a caso, in quasi nessun Paese al mondo esiste una valutazione “dall’alto” della qualità della ricerca. In alcuni casi, quando si è provato a farlo si è rapidamente tornati indietro. Non a caso, all’estero, non si è valutati sulla base di protocolli di riviste generati da agenzie governative: e vi è ampio consenso sul fatto che una rivista è da considerarsi scientifica se rispetta due fondamentali criteri: l’essere dotata di un comitato scientifico, garante della qualità delle pubblicazioni che ospita, e sottoporre gli articoli che riceve a revisione anonima (peer review), al fine di accertarne la piena scientificità.
Vi è di più. Come documentato, in particolare, dal blog www.roars.it, ANVUR ha, a più riprese, riformulato le sue valutazioni; il che costituisce un segnale piuttosto eloquente della natura sperimentale degli esercizi di valutazione che compie, e della sua approssimazione. D’altra parte, l’Agenzia ha scelto curiosamente di non fare riferimento a esperienze consolidate da decenni (come quella britannica), ma di proporre nuove metodologie, con esiti a dir poco confusionari.
Il punto essenziale che legittima lo sciopero riguarda la necessaria e comunque auspicabile saldatura fra ricerca e didattica. Nelle condizioni date, e soprattutto nelle sedi meridionali (quelle maggiormente colpite dai tagli), fare ricerca di buona qualità, che significa appunto avere accesso a ricerche prodotte in altre sedi, soprattutto internazionali, è sostanzialmente impossibile, data l’assenza di fondi e appunto il blocco degli stipendi. Per quanto possa sembrare inverosimile per chi non lavora in Università, l’acquisto di un libro o l’abbonamento a una rivista scientifica è un lusso. Ciò ha ripercussioni immediate ed evidenti sulla qualità della didattica, giacché ricerca scientifica di bassa qualità produce didattica di bassa qualità. A ciò si aggiunge l’estrema difficoltà – per stringenti vincoli di bilancio, niente affatto necessari – di reclutare giovani ricercatori, in una condizione, peraltro, nella quale è possibile reclutare solo con contratti a tempo determinato, ovvero in condizioni di precarietà. Il ricambio generazionale è peraltro di entità irrisorie e un esercito di precari della ricerca (dottori di ricerca, assegnisti) è in fila d’attesa – molto spesso da anni – per una remota possibilità di reclutamento, comunque in condizioni di precarietà. Il progressivo innalzamento dell’età media del corpo docente è un’ovvia conseguenza che incide anche sulla qualità della ricerca e della didattica.
Lo sciopero è stato proclamato dal Movimento per la dignità della docenza universitaria, movimento che nasce sulla base della constatazione inoppugnabile del disprezzo o dell’indifferenza dei Governi che si sono succeduti negli ultimi anni nei confronti della cultura e della conoscenza scientifica. E’ appunto innanzitutto una questione di dignità. E’ poi una sacrosanta rivendicazione salariale. Ed è soprattutto un segnale di respiro più ampio, che viene lanciato nel dibattito pubblico e che riguarda il fatto che un Paese che sistematicamente disinveste nella formazione dei suoi giovani è inevitabilmente destinato a un inarrestabile declino (peraltro già in atto): non solo economico, ma anche sociale e civile.
Gli studenti e le loro famiglie dovrebbero essere consapevoli che, nelle condizioni date, si studia e si studierà sempre peggio, che la laurea darà sempre minori opportunità di accesso al mercato del lavoro, che – in un Paese che è stato giustamente definito “non per giovani” – il futuro delle giovani generazioni, almeno per quella parte che è motivata allo studio, è l’emigrazione. E che anche emigrando non si è affatto certi di trovare un lavoro coerente con la qualifica acquisita (non sono affatto infrequenti casi di giovani laureati assunti come camerieri in altri Paesi europei) anche perché, nella competizione globale, le Università italiane – viste dall’estero – perdono costantemente reputazione. Si tratta di fenomeni che già stiamo sperimentando, da anni, con intensità crescente.
Non si riduca dunque lo sciopero dei professori a una mera rivendicazione corporativa. E’ ormai evidente che le politiche formative in Italia sono calibrate sugli interessi di Confindustria e, dunque, assecondano la domanda di lavoro espressa dalle imprese italiane. Essendo, nella gran parte dei casi, imprese di piccole dimensioni, a gestione familiare, poco innovative, collocate in settori produttivi maturi (agroalimentare, turismo, beni di lusso), non hanno bisogno né di forza-lavoro qualificata né di ricerca di base e applicata. Coerentemente, domandano forza-lavoro poco qualificata e domandano un sistema formativo che la produca. Non si spiegherebbe diversamente la scelta di ridurre la spesa pubblica, in regime di austerità, con la massima intensità proprio nel settore della formazione e nell’area del Paese – il Sud – che maggiormente soffre la recessione in corso. E non si spiegherebbe il vero e proprio attacco ai giovani che si è prodotto negli ultimi anni: bamboccioni, choosy, nullafacenti. Sono attacchi rivolti a una generazione di individui istruiti, i più istruiti nella Storia d’Italia e, al tempo stesso, gli individui più frequentemente disoccupati o sottoccupati o con lavori precari. Sono individui che legittimamente, ma colpevolmente nella visione confindustriale, tendono a rifiutare offerte di posti di lavoro non coerenti con le qualifiche acquisite e le conoscenze apprese in Università. Il che confligge con l’obiettivo di depotenziare la qualità dell’offerta di lavoro per generare moderazione salariale: o meglio, per accentuarla, al fine di rendere “occupabile”, a qualunque condizione, la forza-lavoro giovanile.
Ad avviso di chi scrive, lo sciopero del prossimo autunno ha valore innanzitutto simbolico ed è una forma minimale di conflitto. Ma può servire. A condizione che l’Università torni al centro del dibattito pubblico e a condizione che il Governo chiarisca finalmente, al di là dei tecnicismi dell’ANVUR, qual è la sua linea politica nel settore della formazione: se intende progressivamente smantellarlo, privatizzarlo, spostarlo quasi interamente al Nord, come sembra di capire, o se è disponibile a far marcia indietro rispetto alle devastanti politiche dell’ultimo decennio.
P.S. Per ulteriori approfondimenti, si rinvia al sito https://docs.google.com/viewer?a=v&pid=sites&srcid=ZGVmYXVsdGRvbWFpbnxjb250cm9ibG9jY29zY2F0dGl8Z3g6MmIxNDFlNDE5ZTdmOTdiNw
[“MicroMega” online del 28 luglio 2017]
Lo stesso articolo è comparso ne “il Fatto Quotidiano” online del 19 agosto 2017 e in “Sbilanciamoci info” del 22 agosto 2017.