Mi è capitato di ripetere più volte che ogni attività culturale ha in sé una natura politica, non intesa nel senso dell’attività corrente dei partiti, ma per quella che è l’essenza (la struttura originale per meglio dire) della politica stessa. Di converso, chi agisce nella politica militante esprime, attraverso le sue azioni, la propria cultura.
La politica riguarda – è noto – ciò che è fuori dal singolo, la gestione e l’organizzazione della cosa pubblica: gli elementi che costituiscono il patto che determina la società. La sua pratica concerne l’applicazione delle norme, la proposta di modifiche alle regole esistenti, la formulazione di nuove leggi, la creazione di consenso attorno ad esse, l’alterazione o il mantenimento degli equilibri d’influenza tra strutture sociali diverse, all’interno dello stesso stato nazionale e tra nazioni alleate o avversarie. L’azione politica è per sua natura un’azione di potere. Chi la esercita è influenzato non solo dalla contingenza espressa dall’ambiente in cui si trova a operare, ma anche dalla propria psicologia, in particolare dal rapporto che egli/ella ha con le strutture di potere. Per quanto flebile, perfino volatile, invariabilmente transitorio, questo potere possa essere, il suo esercizio soddisfa quella che uno psichiatra immagino chiamerebbe volontà di potenza, quel sottile accesso alla manifestazione di esistenza del singolo che è ben altro dal “penso dunque sono” di cartesiana memoria e semmai appare una scorciatoia all’affermazione di sé. La psicologia del singolo operatore agisce proprio nel rapporto che egli/ella stabilisce con le forme di potere, modellata e sorretta dalla cultura che gli/le appartiene e che indirizza e rafforza l’etica.
Chi esprime un’azione culturale manifesta, infatti, una visione del mondo, o almeno delle cose di cui parla. Esprime un punto di vista e ciò che lo motiva. Contribuisce in misura variabile (commensurata al suo valore e realizzata, ove essa abbia effetto, nel tempo) allo sviluppo o all’ottundimento della capacità critica, intesa come facoltà di analisi e di visione, di chi quell’azione culturale fruisce. E la capacità critica è tanto più efficace quanto più ampie e più profonde sono la cultura stessa del singolo e la sua sensibilità innata. La capacità critica è motore dell’etica, la quale per suo atto costitutivo richiede il riconoscimento di valori sia personali sia comuni nell’ambito sociale e perfino la capacità di aggiornare quegli stessi valori quando la critica e il proseguire della Storia esprimano la necessità del mutamento (catastrofico o graduale che sia). Il processo implica scelte ed esse sono indirizzate dalla cultura di chi le esercita e dalla sua psicologia.
I totalitarismi che si esprimono attraverso forme di violenza e di controllo ossessivo trovano terreno per radicarsi in una data società innanzitutto in quelle porzioni di essa che possono considerarsi depresse sia per cultura (storica, letteraria, filosofica, scientifica) sia per contenuto etico. Così si radicano anche le forme di fanatismo, intendendo quest’ultimo termine in senso esteso. Il concime primario che attira le adesioni è spesso il livore che nasce dal non trovare un ruolo nella struttura sociale che corrisponda alle attese proprie e la prospettiva di ottenerlo. Subentra poi la convenienza, che spinge anche chi non appartiene a sacche di sottocultura ad aderire a regimi totalitari o a forme varie di fanatismo, perfino con convinzione. Vi è inoltre il contributo della psicologia personale e della visione che si ha delle cose ultime e sulla quale influisce la psicologia stessa. È forse il miscuglio di questi ultimi due fattori che ha spinto persone di cultura non superficiale, quali un filosofo come Heidegger per esempio, ad aderire al nazismo e così con lui anche tutti quegli scienziati di primo livello che lavorarono per il pittorucolo austriaco privo di talento, adornato di arroganti baffetti verticali, che mostrava di esistere arringando le folle e costruendo campi per ammazzare persone che egli non riteneva essere tali. Non sono gli unici esempi e non è solo la Storia a portarli; la cronaca incalza.
L’azione politica in una nazione e tra gli stati s’irrobustisce quando è basata su una conoscenza profonda dei problemi e degli ambiti in cui essa si esercita. Per questo ogni società dovrebbe ritenere convenienza primaria sviluppare processi che assicurino la formazione di classi dirigenti adeguate ai tempi in cui sono chiamate ad agire e soprattutto ai compiti che devono portare a compimento. È la psicologia, però, che prende il sopravvento, e chi ha posizioni di comando non possiede spesso la lungimiranza di preparare il futuro. Si preferiscono tendenzialmente servi volontari, piuttosto che possibili sostituti, premiando l’apparente fedeltà a scapito della competenza e della qualità etica. E ciò non mi sembra un bene.
Nelle riunioni ufficiali in cui si discute sul riordino triennale degli studi, non è frequente, purtroppo, rilevare conseguenze concrete della consapevolezza che, se per disattenzione o per calcolo si lascia decadere la qualità formativa della scuola a vantaggio di una tendenza meramente informativa, s’impoverisce l’insieme in cui individuare persone che possano essere in maniera competente a servizio del senso delle istituzioni, senza sfruttarle per l’interesse proprio o dei sodali. E cosa ancora più importante, si riduce la capacità di analisi critica dell’intera società e quindi s’indeboliscono le forme di controllo sulle strutture di potere, non ultima la scelta al momento del voto nelle società democratiche.
Ciò che invece appare dominante è il desiderio di soddisfare il mercato, non d’indirizzarlo. Probabilmente sarebbe utile una maggiore dose di fantasia e di coraggio. Quando queste ultime non sono prepotenti nell’organizzazione dei processi formativi, l’iniziativa personale di ciascuno per rafforzare la propria cultura ha un effetto benefico. In ciò gioca ruolo ovviamente la lettura, l’accostarsi ai libri. Le statistiche dell’editoria, però, indicano una diminuzione del numero dei lettori e un incremento dei libri acquistati dai cosiddetti “lettori forti”, con conseguente aumento della disomogeneità nella distribuzione della cultura nella società. A questo impoverimento contribuisce l’editoria stessa. Dai tempi di Giulio Einaudi, la cui casa editrice, quando egli la guidava, era un laboratorio d’idee e cercava di individuare e promuovere la qualità, e non era la sola a farlo, si è passati al tempo corrente. È il tempo in cui le scelte editoriali obbediscono solo a valutazioni preventive sulle possibili vendite e/o sui vantaggi probabili in termini di scambi di potere, evitando tendenzialmente di leggere i manoscritti, ma basandosi per deciderne la pubblicazione sulla rete di conoscenze di chi scrive. La qualità letteraria o filosofica, se c’è, cosa che per fortuna accade, è un incidente di percorso, una grazia ricevuta, piuttosto che il risultato di una ricerca da parte dell’editore.
Eppure bisogna sforzarsi di rafforzare e ampliare la propria cultura perché è una forma di difesa primaria, perché spinge a stare desti e a discernere, a ricordarsi che il pericolo è ovunque, a non soccombere alla paura, a camminare con serenità, che è ciò che più conta quando il sole si alza al mattino e ci spinge ad affrontare il giorno.