Alice nel Paese delle Lettere 2. Nuvoloni all’orizzonte

di Tazio Purzleber

Ricapitoliamo. Come aveva provato a muoversi, Alice s’era sentita gridare NOOOOO in tono minaccioso. Quindi non poteva spostarsi da quella palla di roccia. Ma perché non poteva?

Traversato lo specchio, si era ritrovata in un posto sconosciuto. Si stava facendo sera e nella penombra Alice non era riuscita a vedere chi aveva gridato NOOOOO. Non certo il ragnetto che era corso via subito – troppo piccolo per fare tutto quel rumore.

Alice ebbe l’impressione che a dire NOOOOO fosse stato un coro, più che una singola voce. Non volendo correre rischi, restò immobile in ascolto. Mentre tendeva l’orecchio al minimo suono o rumore, le venne spontaneo chiedersi come si fa a distinguere il suono di una singola voce da quello di un coro. Le sembrò una questione più difficile che chiedersi come si fa a distinguere il rumore di una sola cosa da quello di tante. “Va bene, quando torno ne parlerò con zio Dogson”.

Distratta dalla domanda che si era posta, non riuscì a capire da dove veniva la perentoria ingiunzione e, dopo che si era accovacciata, il silenzio più assoluto regnava tranquillo. Però, prima che l’oscurità avvolgesse interamente quel posto, aveva intravisto una cosa: tanti nuvoloni neri che, radenti al suolo, si allontanavano verso le montagne. A differenza delle nuvole normali, in quelle enormi macchie continue sembrava che ci fosse agitazione.

E se fosse stato proprio un nuvolone a imporle l’immobilità? L’idea, naturalmente, non le piaceva affatto, perché le nuvole al massimo fanno dei tuoni, non ordinano ai bambini di star fermi.

Avrebbe aspettato che facesse giorno, per osservare bene il luogo in cui era stata sbalzata. “Se i nuvoloni non tornano indietro, non sentirò più quella voce  … così scenderò finalmente da questo scomodo sasso. Nel frattempo potrei provarci di nuo…”. Arrivò un altro NOOOOO! Già, Alice pensa spesso a voce alta. Evidentemente, il sasso era nel bel mezzo di un nuvolone rimasto a farle da guardia. Nel frattempo, allora, visto che non riusciva a prender sonno, poteva fare qualcosa di utile; visto che non poteva muoversi, tornò all’idea di mettere insieme un elenco di fatti, ma diverso dal precedente, perché, visto che ormai era troppo buio, non poteva descrivere il posto. L’elenco di fatti che le venne in mente non aveva bisogno di guardarsi intorno. Si trattava di ricostruire la catena di eventi che, uno dopo l’altro, l’avevano portata lì, in prigione su un sasso: un elenco, non di tanti piccoli fatti uno accanto all’altro, ma di tanti grandi fatti, in fila uno dietro all’altro, cioè, uno dopo l’altro. Inutile, ovviamente, chiedersi la differenza tra piccolo e grande: sappiamo tutti che è relativa, perché un piccolo lago è più grande di una grande macchia sul vestito. Cominciò dunque a mettere i fatti in fila indiana e andò avanti per un bel po’. “Con la luce, avrò tanti dettagli in più, sulla prigione e sull’ambiente circostante, e li incrocerò con l’insieme dei fatti in fila indiana.”  Davvero un bell’esercizio! E fu proprio l’esercizio a farla assopire. Così Alice non ebbe neppure da aver paura, con tutto quel buio e quel silenzio, in un luogo sconosciuto.

Forse non sapete che a Carrollby, dove Alice cresce senza paure, ogni settimana zio Dogson tiene una lezione per la Società delle Incognite Incidentalmente Incognite e delle Incognite Inconoscibili, un nome troppo lungo che tutti abbreviano in SIIII e lo pronunciano allegramente, senza alcun tono di minaccia. Nell’ultima lezione zio Dogson aveva affrontato un tema molto bello: Perché fa buio di notte?

Alice aveva accompagnato lo zio e invece di passare un’oretta nel giardino  della SIIII aspettando lo zio, era entrata nell’aula e si era seduta in ultima fila, incuriosita dall’argomento. A dire il vero, ci aveva capito poco. Ma una cosa l’aveva capita: che c’erano risposte diverse alla domanda, e comunque, fra tutti quelli che aveva provato a rispondere, nessuno era stato così sciocco da pensare che il buio è dovuto a un nuvolone scuro che si gonfia fino a coprire la terra e il cielo, lasciando passare qua e là la luce delle stelle.

Se non altro, anche lì, in quello strano posto, c’era il giorno e c’era la notte, benché molto più brevi che nella realtà. C’erano anche lì, meno male. Rassicurante, perché se non ci fossero stati, bisognava aver sempre sott’occhio un orologio come quello dello zio.  “Ma gli orologi, prima di riuscire a farne uno, non li trovavano mica nei prati. E poi, se ci fosse sempre stata la luce del giorno, lo zio dice che le lucertole se la sarebbero cavata meglio di noi, e se fosse sempre stato buio come di notte, le lucertole non ci sarebbero state e i girasoli non avrebbero avuto motivo di aprirsi. Che brutte cose!”.

Fortunatamente, no, e neanche in quello strano posto c’era bisogno di portarsi un orologio nel taschino. Tutti ammiravano quello dello zio. Invece, Alice sperava che, per il suo compleanno, a nessuno venisse in mente di regalarle un orologio. Le bastava l’alternarsi del giorno e della notte e quella minima punteggiatura del tempo che zia Molly regalava a ogni giornata, il buongiorno in cucina, con le uova preparate dallo zio che poi spariva dentro al giornale, il pranzo e la cena puntuali, la buonanotte sempre in anticipo. Senza orologio, se faceva tardi a scuola non era colpa sua. Quell’anno la maestra aveva preso un’influenza dopo l’altra e così, ogni mattina, gli zii si alternavano a insegnarle qualcosa. “Forse in questo posto non ci sono scuole” – e con questa speranza s’era addormentata. Domani avrebbe indagato, una volta uscita di prigione, anche se non c’erano le sbarre. D’altra parte non c’era neppure una finestra a cui metterle. E riattraversato lo specchio, la maestra non  avrebbe potuto rimproverarla di aver fatto tardissimo, cioè aver saltato un giorno di scuola, perché l’avevano tenuta prigioniera su un sasso.

***

Alle prime luci dell’alba Alice riaprì gli occhi. Vide che da ogni lato i nuvoloni, tanti bassi neri nuvoloni, forse gli stessi che la sera prima si erano allontanati, si avvicinavano di nuovo e con una velocità che suggeriva di aspettare a scendere di lì. Nuvoloni? Alice li chiamava così per brevità. Era convinta che fossero tutt’altro, perché oltre a non parlare le nuvole non si muovono radenti al suolo. “Quando c’è la nebbia a Carrollby, non tiene certo le distanze dalla casa e dal laghetto. Però la nebbia è una cosa, le nuvole un’altra. Le nuvole si distinguono sullo sfondo del cielo, si possono indicare col dito guardando in su, distinguendole l’una dall’altra almeno per un po’, mentre se cammini nella nebbia il cielo non si vede più e non ha senso indicare la nebbia, perché dovunque punti il dito va bene”.

Slittando sull’immensa distesa di fogli con cui la pianura era ricoperta, quei nuvoloni si avvicinavano sempre di più ad Alice. Poteva essere perché stavano venendo da lei, e la cosa un po’ la preoccupava, ma poteva anche essere semplicemente perché quella roccia era al centro della pianura e nessuna nuvola vuole far più strada delle altre per incontrarsi con un’altra nuvola e così, per rispettare l’uguaglianza, si sarebbero incontrate proprio lì, come i raggi di un cerchio s’incontrano in un punto che appunto si chiama “centro”. In effetti, due giorni prima, lo zio le aveva fatto una lezioncina di geometria. “Che bella, l’idea degli assi ardesiani!” – aveva esclamato, amabilmente corretta dallo zio … – “Due numeri bastano a trovare un punto qualunque su un foglio, anche se il foglio è infinito!” – … Alice non si ricordava la correzione. Forse quella roccia si trovava proprio all’origine di un sistema del genere. Lo zio aveva parlato di due “coordinate”. Ma allora quella roccia … qualcuno doveva avercela messa “perché i punti non decidono chi di loro deve chiamarsi zero-zero”.

***

I nuvoloni si facevano sempre più vicini. E Alice se ne stava lì a osservare il loro movimento ferma sulla roccia-origine.

Nella piena luce del mattino poté vedere che i fogli non erano di cartaccia ma di quella carta finissima e pregiata che lo zio usa per le lettere importanti. Così si dette una ragione di quel NOOOOO: “A parte il tono poco gentile, è giusto. Non si deve mettere le scarpe sui fogli per scrivere. Sì, si potrebbe anche dire che il mio sassone è seduto sui fogli. Lui sì, ma almeno io no. Infatti, quando giochiamo a Orientino, se zia Molly indica l’ovest e io indico l’ovest dell’ovest, quello che indico non è l’ovest ma il sud”.

Non sapeva che il giorno prima, proprio intorno a quel sassone, si era verificato un fatto alquanto disdicevole per la serenità che da secoli regnava nella pianura ricoperta di fogli. Solo un breve scontro, una scaramuccia seguita al fallimento dell’ultimo tentativo di conciliazione. Erano schizzate via aste e puntini, qualche virgola si era messa a volteggiare e gli accenti avevano perso il loro posto, finendo sui segni di interpunzione, che avevano reagito con stizza. Quel ragnetto era proprio una H: poverina, qualcuno le aveva dato una spinta così forte da farle perdere l’orientamento.

Forse oggi ci sarebbe stato un grande scontro, o forse venivano tutti quanti a discutere di persona perché non si fidavano più delle delegazioni. Questo, ovviamente, Alice non avrebbe potuto dirlo perché ancora non sapeva che cosa era successo e ad ogni modo non sarebbe stata in grado di fare la minima previsione attendibile, perché non aveva completato l’elenco dei piccoli fatti a lei noti, in orizzontale, nello spazio, e in verticale, nel tempo.

Cosa doveva fare? Limitarsi ad aspettare che uno di quei nuvoloni, in cui cominciava a distinguere voci diverse, invece che un unico coro, le arrivasse vicino, … troppo vicino? Ah, sapeva cosa dirgli: “Se non è giusto calpestare i fogli, non è giusto neppure che una bambina sia obbligata a star ferma su un sasso!” E se invece fossero venuti lì a interrogarla? Ma su cosa? Non poteva limitarsi ad aspettare. A questo punto, il duplice elenco non era più fattibile.

Bisognava preparare subito una risposta. Ma a quale domanda? Non sapendo cosa le avrebbero chiesto, Alice doveva trovare una risposta che andasse bene per qualunque domanda le fosse stata rivolta. “Lasciare che il caso decida per me non è quello che ieri lo zio mi ha insegnato. E io non ho alcuna voglia di sentirmi rimproverare per essere rimasta con le mani in mano. Visto che non posso muovermi, devo trovare in anticipo, e alla svelta, la risposta giusta. Ma qual è la risposta che vada bene per ogni domanda? Dicono tutti che sono brava a risolvere problemi. Però … Se non capisco qual è il problema, come faccio a risolverlo? Ogni problema deve avere la sua soluzione, è giusto. E problemi diversi vorranno soluzioni diverse, anche questo è giusto. Una soluzione che vada bene per tutti … non ho idea. Quale potrebbe essere? Un attimo, in fondo ho un vantaggio: la risposta a ogni domanda non può dipendere da nessuna specifica domanda, perché deve andar bene per tutte. Allora … non so che dire. Di sicuro, non voglio che la mia immagine allo specchio mi ricordi di aver escluso, per pigrizia, la possibilità di una cosa così meravigliosa”.

E se invece le avessero fatto una domanda specifica? Se le avessero chiesto come si era permessa, lei, non un’altra bambina, a sedersi sull’origine del sistema di tutti i libri possibili e non su un altro punto? Se le avessero chiesto cosa pensava dei tafferugli che erano successi il giorno prima? Se le avessero chiesto da che parte stava? In questi casi non si può dire qualcosa di generico. Si fa riferimento a una persona particolare e a un particolare fatto. In casi del genere, per capire come rispondere, bisogna … cominciare dall’inizio. Cioè, era necessario considerare le cause che avevano portato a quella situazione, o meglio alla somma di due storie, una riguardante quel posto prima che Alice ci arrivasse e una riguardante Alice. “Ogni storia è una fila di situazioni. Se le potessi numerare, una fila in riga e una in colonna, la somma diventerebbe una moltiplicazione. Ma prima di questo dovrei sapere … Oh no, i miei due elenchi! Se avessi avuto più tempo!”

Ma che la domanda riguardasse quel posto prima di Alice o Alice stessa, di cause di quella somma, o prodotto, di situazioni ce n’erano tante e adesso le due file a un certo punto stavano per incrociarsi … O la fila che finiva con lei a sedere sulla roccia e la fila che finiva con i nuvoloni neri in arrivo avrebbero proseguito come se nulla fosse? E se fosse successo qualcosa di nuovo, fin qui non considerato, qualcosa capace di lasciare una traccia in tutte e due le file? E se fossero diventate una sola fila? Troppe possibilità, troppe, anche per una bambina intelligente come lei. Alice cominciò a grattarsi delicatamente il collo con un dito, strinse gli occhi come per vederci meglio, abbassò il mento, e con la bocca contratta si rese conto che c’era anche un’altra cosa poco chiara: non accettava l’idea che le due file di cause si dovessero incrociare (perché lei con quel posto non aveva niente a che fare); e non accettava neppure che l’incrocio fra le due linee fosse del tutto casuale (perché tutto deve avere una spiegazione). Scosse la testa, imbronciata.

Il frastuono crescente la distolse da queste complicazioni. A un tratto, un boato. I nuvoloni si erano disposti a raggiera, lungo tante lunghissime file che s’incontravano nella sfera di ardesia su cui era seduta Alice. A quel punto, un secondo boato e poi un terzo. Bum! Bum! Bum! Perché proprio tre? Non sembrava il rumore di un urto, come quando il riscontro fa sbattere la porta e, poniamo, due finestre. Il triplice boato preludeva a un annuncio? Sembrava piuttosto un segnale, un richiamo, l’avvertimento di qualcosa di solenne. Proprio così. Subito dopo furono annunciati due discorsi ed era chiaro che bisognava stare molto attenti a quel che sarebbe stato detto.

Alice però non sapeva ancora che i nuvoloni neri non erano lì per lei, non sapeva che il Bum Bum Bum era l’inizio del Concilio. Non sapeva che, se le cose avessero preso una brutta piega, ci sarebbe stato uno scontro immane – e avrebbe potuto andarci di mezzo anche lei –, e non sapeva neppure che in gioco era il destino di un’antica arte, un’arte capace di fermare i più labili pensieri in sculture d’inchiostro.

Quando tutti i nuvoloni si furono addensati a sufficienza, cioè al massimo, non lasciando a nessuno il minimo spazio per muoversi, prese finalmente avvio il Concilio. Alice ascoltava e a poco a poco si fece un’idea di cosa stava succedendo. E via via che capiva, cominciava a studiare le sue mosse future, s’intende mosse verbali.

A dire il vero, Alice era più incuriosita che preoccupata. A parte il tono scortese di quell’iniziale NOOOOO, i piccoli segni, anche se ora cresciuti enormemente di numero, non riuscivano a farla sentire in pericolo. Però erano davvero tanti e, come si sa, anche il mare è fatto di gocce d’acqua e il mare in tempesta può essere pericoloso. Ben presto capì che l’argomento del Concilio  era un altro. Meno male: lei non c’entrava, era solo una spettatrice … o un’intrusa. E se la sua sorte fosse dipesa dall’esito del Concilio? L’unica cosa certa era che non vedeva l’ora di scendere da quel sasso.

(segue)

Questa voce è stata pubblicata in Alice nel Paese delle Lettere di Tazio Purzleber, I mille e un racconto e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *